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domenica 22 aprile 2007

I sauditi chiedono il suicidio di Israele e subito piace la loro “proposta di pace”

(Tempi, 19 aprile 2007)
I francesi lo chiamano “langue de bois”, lingua di legno. È il linguaggio politico dell’ipocrisia, delle formule vacue miranti a difendere una versione ufficiale, anche se non ha alcun rapporto con la realtà. La “langue de bois” domina in certi commenti sulla “proposta di pace” dell’Arabia Saudita che la vantano come una nuova e grande opportunità. Al contrario, si tratta della “soluzione” più vecchia e irrealistica: il ritorno di Israele entro i confini precedenti la guerra del 1967, con la divisione di Gerusalemme in due e l’accettazione del diritto al ritorno dei profughi palestinesi e discendenti, generosamente stimati in 5 o 6 milioni. È una soluzione superata dalla risoluzione 242 dell’Onu – che prevede il ritiro di Israele “da” (e non “dai”) territori occupati – , dalle bozze di accordo di Camp David, ed anche dall’“intesa” di Ginevra raggiunta informalmente da esponenti “progressisti” delle due parti. Oltretutto in quelle bozze di intesa si offriva a Israele una vera pace, mentre qui si prospetta soltanto la possibilità di “relazioni normali” e non si parla di una soluzione definitiva. In sostanza, è una linea coerente con quella del governo palestinese di Hamas, che alle condizioni saudite accetta di stabilire una “hudna” (tregua) anche ventennale, per poi giungere alla fase finale della vertenza. In che senso “finale” è facile immaginare, dopo che Israele avesse accettato di accogliere sulla propria terra qualche milione di palestinesi, mettendosi in condizioni analoghe a quelle in cui si troverebbe la Polonia se accettasse di accogliere i tedeschi espulsi dai suoi territori, inclusi i discendenti: una ventina di milioni.
Chi loda la proposta saudita si esibisce in una gigantesca manifestazione di ipocrisia, il cui unico fine è di accusare Israele di non volere la pace perché non accetta di suicidarsi. Anche se al posto del debolissimo governo Olmert ve ne fosse uno capace di imporre al paese i più duri sacrifici, non potrebbe comunque accettare una proposta come quella, per tante ragioni di cui si parla spesso: Israele si metterebbe in una condizione di grave debolezza strategica, accanto a un’entità palestinese che non ne vuol sapere di offrire garanzie; il carattere drammatico di un ritiro da Gerusalemme con la rinuncia al principale luogo santo dell’ebraismo; l’impossibilità fisica di accogliere tanti palestinesi senza distruggere seduta stante il paese. Ma vi sono ragioni ancor più elementari. Israele non è riuscita ancora a riassorbire i 7000 concittadini rientrati da Gaza, che continuano in gran parte a vivere penosamente in prefabbricati. Israele è un paese con tanti poveri. Coloro che la dipingono come una ricca Sparta dovrebbero fare un viaggio per rendersi conto della realtà. Se Israele facesse rientrare di colpo 200.000 persone dal West Bank si trasformerebbe in una tendopoli. Per di più, una tendopoli sotto i missili che continuano a piovere da Gaza e che potrebbero di nuovo piovere dal Libano.
In realtà ai sauditi della pace in Palestina non importa nulla. Essi, con l’accordo della Mecca e con questo piano tentano di stabilire un terreno di intesa con l’Iran, Hamas e Hezbollah, e di rilanciare la loro influenza sul mondo arabo e islamico. La conferenza di Riyad ha offerto il solito panorama di disunione del mondo arabo e un tentativo di incollare i cocci con un accordo unanime sulla pelle di Israele. Quale governo israeliano potrà mai accollarsi di pagare da solo il prezzo di un rifiuto e di una crisi: il rifiuto della democrazia da parte del mondo arabo e islamico e la drammatica fase di debolezza dell’Occidente?

Giorgio Israel

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