Pagine

giovedì 10 gennaio 2008

Sarà questo l’anno in cui gli insegnanti diventeranno tutti “facilitatori”?

Il 2008 sarà un anno di ripresa per la scuola italiana, dopo i dati catastrofici del rapporto OCSE-PISA? È difficile essere ottimisti se insisteremo a propinare i medicinali in uso da un trentennio. Un buon medico quando la terapia non funziona rivede la diagnosi. I medici ideologi moltiplicano la dose.
In India gli obbiettivi di apprendimento per la matematica vengono tutti conseguiti almeno tre anni prima di noi. Un bambino cinese o indiano che frequenti la nostra terza elementare si gira i pollici perché sa già tutto. Il confronto con le scuole medie inferiori è impietoso. Come mai? Semplicemente perché la loro scuola è com’era la nostra trent’anni fa. Ma continuiamo a vietare di parlare di “programmi” perché sarebbe repressivo e impositivo. Il risultato è che i programmi vengono definiti dagli editori dei libri scolastici. Costoro si sono adeguati abilmente al gergo didattichese propinando senza vergogna orrori matematici considerati ormai intoccabili (come la “legge dissociativa”) ed offrendo una meccanicità di apprendimento che fa impallidire quella della vecchia scuola “trasmissiva”. Al posto dei programmi la burocrazia ministeriale propina vaghe e fumose “indicazioni” redatte in puro stile sindacal-progressista senza tema di esibire le più assolute scempiaggini: come l’indicazione a studiare il teorema di Pitagora “e le sue applicazioni alla matematica”. Difatti, tutti sanno che il teorema di Pitagora non è matematica. Forse è roba che si mangia. Ma provatevi a sottolineare queste scempiaggini e vi si dirà che non ha importanza: i contenuti si “creano” in classe, nel processo di “autoapprendimento” degli studenti. L’unica cosa che conta sono le metodologie didattiche. Si proclama che questo è il modo di salvare la scuola. Per l’intanto abbiamo realizzato una scuola appiattita sulla mediocrità e sull’ignoranza, sulla svalutazione del merito, della competizione e della spinta ad apprendere. È la scuola del conformismo più grigio, in cui tutti sono sollecitati a usare sempre e ovunque lo stesso gergo pedagogistico codificato, con una pressione psicologica così forte che pare che nessuno più osi ricorrere a un verbo diverso da “somministrare” parlando di questionari.
Ho udito un collega pedagogista proclamare con enfasi che occorrerebbe cancellare dal vocabolario le parole “insegnare” e “insegnante”, in quanto riflettono una visione “trasmissiva” e “impositiva”. Bisognerebbe dire “accompagnare”, “stare accanto”, “facilitare” o “mediare” e chiamare l’insegnante “accompagnatore”, “facilitatore” o “mediatore”. L’aspetto tragicomico è chi propina queste visioni insegna, eccome… Anzi, trasmette moleste teorie del nulla con la supponenza di chi si ritiene esentato da ogni valutazione. Sono gli unici insegnanti rimasti, gli altri sono tutti badanti.
È ideologia, e l’ideologia si va beffe della realtà. Non sfugge il suo carattere totalitario. Difatti, si tratta di una miscela perversa di scientismo pedagogistico-didattico e di sovversivismo egualitarista di sessantottini invecchiati male. La pretesa che si possano costituire la pedagogia e la didattica come scienze esatte sul modello delle scienze fisico-matematiche e che abbia senso parlare di cose fuori dal mondo come la “misurazione delle conoscenze” si sposa con la volontà di scassare del tutto la scuola “di classe”. In effetti, si è riusciti a scassarla e a trasformarla in una vera scuola classista, in cui vanno avanti soltanto quelli che hanno il sostegno di una famiglia colta e capace di educare nel senso tradizionale del termine. Tanti auguri di un buon 2008 con tanti buoni maestri e prof., e senza fac., med. e accomp.
(da Tempi, 10 gennaio 2008)

6 commenti:

Lucio ha detto...

Non posso che essere d'accordo. Con un figlio alle elementari ed uno in prima liceo, vedo cosa significa vessare gli alunni con pagine e pagine di conti ed espressioni, da svolgere seguendo le regolette a memoria (o quasi) e dimenticandosi, invece, di trasmettere i concetti fondamentali (ma perche' si fa cosi' poca geometria, ad esempio?) e di sviluppare le capacita' critiche come la matematica puo' ben fare.

Dal figlio in prima liceo, pero', vedo che qualcosina sta cambiando, magari molto lentamente; almeno a giudicare dal libro di testo. Se siamo in prossimita' di una svolta, bisogna incoraggiarla. Se invece e' solo un caso,... continueremo a perdere terreno.

Lucio Demeio

ondeb ha detto...

Prima lezione di matematica, quarto ginnasio in un liceo di Palermo, 1990.

Il facilitatore :) entra in aula e, dopo aver enunciato un teorema, inizia a chiedere a noi di dimostrarlo, di arrivare alla "verità". Questo atteggiamento continuò per un anno intero (non che gli altri anni siano andati molto meglio, ma almeno c'era più un insegnante che un facilitatore).

E' di certo bello vedere un allievo che "produce" idee dopo che gli si è insegnato qualcosa, ma come si può pensare che dei ragazzi di 13-14 anni imparino tutto da soli? Se fosse possibile, per quale motivo oscuro dovrebbe esistere la scuola?

Sono passati un bel po' di anni e solo ora capisco il motivo di tanta "democrazia" dell'insegnamento-apprendimento...

Un cordiale saluto.

Motetus ha detto...

Gentile professore
La ringrazio infinitamente per ciò che dice a riguardo del degrado della scuola. Ho frequentato tre anni di SSIS: 2 per l'insegnamento di filosofia e storia e uno per l'insegnamento nell'area del sostegno. In questi tre anni ho dovuto ascoltare talmente tante utopiche idiozie da provare un profondo disgusto. Io, da povero supplente precario quale sono, ho tentato di usare il buon senso, ma il sistema non lo contempla. Ad esempio, (caso realmente accaduto), se un alunno di un liceo classico all'ultimo anno non ha aperto mai il libro di latino, e prende un due in un compito in classe, occorrerà dare un bel nove a chi a preso sette così da poter alzare il due in cinque. Ciò che conta non è cosa sai, isegna la SSIS, ma come ti rapporti nel gruppo, che tu sia insegnante o studente. Secondo i nuovi pedagogisti, per far sì che gli alunni siano motivati basta applicare le nuove tecniche didattiche centrate sull'attività "laboratoriale". Per fortuna, non tutti i miei colleghi la pensano così. Certo, agli esami di abilitazione abbiamo dovuto fingere di crederci, altrimenti non avremmo mai ottenuto il titolo, dato che, a dire la verità, non dovevamo apprendere delle tecniche, ma nostro compito era di autoconvincerci dell'ideologia pedagogica dominante.

adrifox ha detto...

Trovo particolarmente vera l'osservazione finale. La scuola attuale è diventata di classe perché offre agli studenti un'istruzione misera, privilegiando in questo modo che coloro che hanno alle spalle una famiglia colta o benestante. Lo ha ben raccontato anche la Mastracola nel suo "Una barca nel bosco".

adrifox ha detto...

Trovo particolarmente vera l'osservazione finale. La scuola attuale è diventata di classe perché offre agli studenti un'istruzione misera, privilegiando in questo modo che coloro che hanno alle spalle una famiglia colta o benestante. Lo ha ben raccontato anche la Mastracola nel suo "Una barca nel bosco".

gelubra ha detto...

Egregio Professor Giorgio Israel,
sono un insegnante di filosofia in una una scuola superiore di Napoli. A commento di quanto lei ha scritto su liberal qualche giorno fa e che ho pubblicato sul mio blog (www.salveprof.splinder.com),le invio questa riflessione sul collasso della scuola e sulla proliferazione in essa del metodologismo vacuo e supponente, che ogni persona consapevole del ruolo e della funzione della scuola e della cultura dovrebbe vivere come un vero e proprio oltraggio alla cultura.
Distinti saluti
Gennaro Lubrano Di Diego

" L’ideale della didattica è il più assoluto disinteresse per ciò che costituisce l’interesse intrinseco di ciascuna disciplina, per limitarsi a definire lo schema astratto, secondo il quale procederebbe il pensiero nella costituzione della disciplina stessa…La didattica, adunque, disinteressandosi pel processo intrinseco del sapere, che è la stessa realtà in atto dell’istruzione, si disinteressa per ciò stesso del vero metodo, e si accampa nel vuoto, formulando vane dottrine artificiose e remote da ogni vita vera reale dello spirito, mortificando in chi se ne occupa, e nei maestri cui si dà a studiare, ogni vivo senso di slancio, di spontaneità, d’afflato spirituale, e generando per tal modo una scuola greve oppressiva, fatta per convellere, anzi che per eccitare e svolgere i germi di vita che essa si trovi ad accogliere nel proprio seno. [ Contro questo modello di didattica…] la didattica generale si risolve in una didattica speciale, di cui la prima espone la legge, ma non il contenuto; indica il principio, liberando la scuola dal complicato impaccio di teorie artificiose, che non le permettono di mettersi a contatto con la viva attualità spirituale; ma affida questa didattica speciale all’opera diretta e immediata di colui che la recherà in atto ispirandosi a quel principio…La nostra didattica generale non trova se non quest’unico metodo vero e ragionevole da raccomandare a ogni maestro: di volere fermamente, volere costantemente insegnare. Poiché in questo volere c’è tutta la vita dello spirito, e la scuola non può essere altro che questa vita; e tanto più è scuola, quanto più ci vive dentro lo spirito".

Giovanni Gentile è stato un autore spesso criticato ma altrettanto poco letto e approfondito.
Tuttavia, i suoi discutibili orientamenti ideologici e le sue tragiche scelte politiche non dovrebbero fare velo sul riconoscimento delle doti non solo d’organizzatore culturale, ma anche di lucido e rigoroso intellettuale, attento alle problematiche speculative ma anche alla dimensione intersoggettiva e formativa della vicenda umana.
Il testo, riportato sopra e tratto dal "Sommario di Pedagogia", pubblicato nel 1914, potrebbe entrare a pieno titolo nel dibattito odierno sulle filosofie educative imperanti nella scuola italiana e sui modelli di sapere che ivi circolano.
La citazione, dallo stile un po’ enfatico e tendenzialmente barocco, tipico di un intellettuale del primo Novecento, mi dà l’occasione di tornare a riflettere su una distorsione culturale che, secondo me, si sta producendo sempre di più all’interno della scuola italiana. Gentile, infatti, nelle forme e nei modi tipici di un filosofo idealista, richiamava l’attenzione degli operatori della scuola a non contrapporre mai contenuto e forma dell’insegnamento, materia da apprendere e metodo con cui apprendere. La consapevolezza dell’unitarietà e organicità dell’atto educativo – che è, al fondo, agostinianamente un atto d’amore attraverso cui l’educatore abbassandosi s’innalza - portava Gentile a polemizzare contro qualsivoglia astratta e unilaterale assolutizzazione del momento didattico e metodologico su quello contenutistico e di merito. Gentile, sembra dire, che non esiste un metodo che nella sua astratta generalità possa valere per ogni materia e per ogni docente, in quanto ogni materia e ogni argomento è metodo a se stesso, non canone astratto da applicare indifferenziatamente. Insomma la perizia metodologica è figlia e non madre della conoscenza e della passione per la propria disciplina e per l’atto dell’educare, nel cui fuoco vivo è possibile affinare gli strumenti della didattica. Chi sa veramente e ha la passione dell’educare sa anche insegnare, perché porta con sé quell’amore per la trasmissione del sapere che lo condurrà pervicacemente a battere ogni sentiero, senza farsi scoraggiare dalle difficoltà, per infiltrarsi nell’animo dei discenti, avvincendoli e catturandoli.
Questa lunga glossa a Gentile mi è sembrata utile perché la condizione della didattica nella scuola, oggi, mi sembra patire proprio quella distorsione da cui il filosofo siciliano sembrava voler mettere in guardia.
Infatti, soprattutto negli ultimi tempi vedo crescere e proliferare all’interno della scuola una pericolosa tendenza a mettere tra parentesi i contenuti, ad alleggerirli, come si usa dire, ed a sottoporli ad un processo di liofilizzazione irreversibile. Questa tendenza è accompagnata, come suo riflesso speculare, da una crescita esponenziale di un pericoloso e informe “pedagogismo”, il quale tende ad accreditarsi come un vero e proprio meta-sapere, che ambisce a surrogare e a sostituire l’insegnamento dei contenuti specifici.
Io tenderei a considerare la strisciante imposizione di questa mistura pseudo-culturale, fatta di un linguaggio bizantino e volutamente autoreferenziale, come una vera e propria iattura per la scuola italiana. A volte ho la netta impressione che dietro questo gergo specialistico si nasconda un pauroso collasso di quelle conoscenze e competenze, all’insegnamento delle quali pur siamo stati chiamati. Infatti, il ricorso massiccio a questa sorta di nuovo latinorum è indice, molto spesso, di una profonda sfiducia nel potenziale educativo e formativo dei contenuti che siamo chiamati ad insegnare. Anzi, a dirla tutta, la mia esperienza mi porta a sostenere la tesi che l’eccessiva enfasi posta su questo complesso di cognizioni metodologiche – che avanza con lo stile pretenzioso di un sapere iniziatico ed esoterico – è direttamente proporzionale a un cattivo governo dei contenuti di quelle discipline che siamo chiamati ad insegnare. Insomma, se mi guardo attorno credo che lì dove il didattichese avanza, proprio là impoverisce la cultura e la capacità di trasmissione dei saperi . Quest’osservazione, tra l’altro, mi appare essere confortata, purtroppo, dai meccanismi perversi attraverso cui negli ultimi decenni è stato selezionato il personale docente. Tali meccanismi, infatti, più che ispirarsi a criteri di selezione meritocratica hanno obbedito a logiche perverse e demagogiche di opportunità politica e sindacale, riducendo la scuola, invece che a spazio in cui far crescere competenze e conoscenze, a strumento di ammortizzazione sociale su cui scaricare il peso e le fragilità di un sistema economico asfittico e scarsamente dinamico; il tutto ha prodotto, secondo me, un notevole decremento della qualità della docenza, che ha surrogato i propri deficit culturali attraverso il massiccio ricorso e la conseguente adozione di questo pseudo sapere dai contorni vaghi e artificiosi.
In altre parole, mi piacerebbe pensare che per l’esercizio dell’educare valga fondamentalmente ancora quel monito hegeliano secondo cui “l’indagine del conoscere non può accadere altrimenti che conoscendo…Voler conoscere dunque prima che si conosca è un assurdo, non meno del saggio proposito di quel tale Scolastico, d’imparare a nuotare prima di arrischiarsi nell’acqua.”

Posta un commento