Il richiamo del Governatore della Banca d’Italia è un’ulteriore autorevole manifestazione della consapevolezza sempre più diffusa che occorre riavviare un sistema dell’istruzione inceppato. Ma una visione chiara dei rimedi non esiste ancora. È sorprendente la diffusa resistenza a verificare programmi e contenuti dell’insegnamento. Di recente, avendo proposto di esaminare a fondo i libri di testo mi sono sentito rispondere da un pulpito autorevole: «Non faremo mai i poliziotti e i delatori dei colleghi». È curioso che si ragioni in questo modo proprio mentre si parla da mattina a sera di valutazione. O piuttosto fa capire che è più comodo scegliere la valutazione che si nasconde dietro giudizi impersonali e “oggettivi”. Così tocchiamo il nodo dolente della questione.
Tutti concordano sul fatto che un sistema così ingessato e burocratizzato deve essere reso più duttile. E allora le parole d’ordine sono “autonomia” e “valutazione”. Il sistema classico dell’istruzione statale va certamente riformato, anche se nessuna persona ragionevole può negare che ad esso dobbiamo la diffusione dell’istruzione di massa e che dal punto di vista storico esso, quantomeno a livello della scuola, si è rivelato superiore a qualsiasi sistema privatistico e liberista. Ma il problema è di evitare la tradizionale caduta dalla padella nella brace. Se tutto dovesse risolversi nel trasferire il potere dalle burocrazie ministeriali centraliste a gruppi di “esperti scolastici” che non hanno mai insegnato un minuto né mai pubblicato una riga se non relativamente alle loro tecniche gestionali, allora ci troveremmo esattamente in questa situazione. Difatti, è manifesto che l’interesse di questi “esperti” è di affermare la supremazia della loro specifica competenza gestionale-valutativa sulle competenze tipiche degli insegnanti e degli uomini di cultura. Difatti, da questi esperti proviene spesso un atteggiamento sprezzante nei confronti dei contenuti disciplinari, fino a proclamare che occorreranno ancora una decina di anni di “lotta militante” per frantumare definitivamente il sistema disciplinare. Allora ha ben ragione il celebre filologo Cesare Segre a osservare che, si finirà col «mettere la museruola ai competenti, soli ad avere la capacità di giudicare», riducendo «le valutazioni, ormai affidabili a chiunque, a puro calcolo quantitativo. Alla faccia della meritocrazia».
È altresì inquietante che un muro di silenzio assoluto si erga contro tutte le critiche che vengono mosse nei confronti dell’uso spesso acritico e sconsiderato – vero esempio di mancanza di probità scientifica – di metodi di valutazione numerica a dir poco discutibili. Non importa che tali critiche vengano mosse da organismi scientifici di primo livello, non importa che tutti sappiano che metodologie di valutazione della ricerca come il “citation index” siano delle assurdità totali, che le liste delle riviste scientifiche accreditate per le valutazioni contengano omissioni scandalose. E qui parlo di ricerca scientifica, ma anche l’esame delle statistiche internazionali sulla scuola fornisce una materia per esercitarsi a trovarne le numerose falle e a rivoltarne a piacere le conclusioni. Ci stiamo mettendo passivamente nelle mani di “esperti” il cui potere è spesso deriva soltanto dal far parte di imprese e gruppi influenti.
Agli inizi del Novecento, si svolse uno scambio di idee tra il fondatore dell’economia matematica, Léon Walras e il grande matematico Henri Poincaré sul significato e la portata di un concetto fondante della teoria, l’utilità. Nessuno dei due, neppure Walras, ardiva supporre che l’utilità potesse essere misurata: tutt’al più si discuteva se potesse essere oggetto di una speculazione matematica generica, senza applicazioni numeriche concrete. Ma oggi gli “esperti” si avventurano a misurare qualsiasi qualità umana senza provare neppure a chiedersi se ciò abbia il minimo senso e il minimo fondamento scientifico. Per misurare qualcosa occorre definirne l’unità di misura: qual è l’unità di misura della “competenza”?
La questione è cruciale perché la presunzione di poter raggiungere una valutazione strettamente oggettiva e quantitativa si basa sulla distinzione ormai invalsa tra “conoscenze” e “competenze” che è ormai divenuta una filastrocca ripetuta senza sapere neppure bene di cosa si tratti. La competenza è ritenuta fondamentale in quanto su di essa si appuntano le speranze di una valutazione oggettiva e, in alcuni paesi, ciò è stato tentato proprio in relazione alle prove del tipo “maturità”. Ma cos’è la competenza? Con questo termine si vorrebbe definire una dimensione soggettiva di capacità, risorse e attitudini, non soltanto professionali ma anche relazionali, acquisite nel processo formativo. Dietro certe affermazioni di facciata, gli addetti ai lavori ammettono che una definizione univoca di competenza non esiste. Anzi, una commissione mondiale istituita negli anni novanta per tentare di pervenire a una siffatta definizione ne ha prodotte un numero enorme senza concludere nulla. Non soltanto: si ammette che le definizioni che includono i fattori relazionali e affettivi sono assolutamente inadatte a essere misurate, mentre per altre definizioni “deboli” si è tentato qualcosa con poco costrutto. Ad ogni modo, se anche gli specialisti in materia ammettono, sia pure tra i denti, che per una valutazione delle competenze con test siamo ancora in alto mare, è saggio affidarsi mani e piedi legati a simili metodologie?
Forse il tema della misurazione oggettiva dei fattori soggettivi è un tema scientifico (e filosofico) troppo complesso per qualche azienda di valutatori. Ma non è comunque un bel segnale che troppi ripetano parole come “conoscenze-competenze”, “valutazione” e “autonomia” solo perché fanno parte dei codici dell’eurocrazia. Dove muore lo spirito critico muore anche la cultura e l’istruzione.
Cosa è più urgente fare? Proviamo a dirlo in pillole. Occorre riqualificare la funzione dell’insegnante introducendo una progressione di carriera e un sistema di formazione e reclutamento basati sul merito (ovvero su prove e verifiche). Occorre ricondurre gli attori della scuola ai loro ruoli: niente più famiglie sindacati dei figli e studenti che comandano a scuola (da questo punto di vista la vicenda dei tabelloni del Liceo Berchet di Milano con i voti dati dai docenti agli studenti accanto a quelli dati dagli studenti ai docenti è un episodio di squallida demagogia). La valutazione delle scuole va effettuata da commissioni ispettive “umane” composte da insegnanti esterni o anche in pensione. Occorre procedere a un riesame a fondo di curricula e programmi mettendo al bando fumisterie e metodologismi vacui e procedendo a una rigorosa riqualificazione disciplinare. Infine, occorre un esame della questione dei libri di testo: troppi e non sempre di buona qualità; davvero troppi e spesso pessimi alle elementari, probabilmente come conseguenza della loro gratuità. In generale, meno statistiche e più valutazioni di contenuto. Per l’università va fatto un discorso analogo. Appare ormai chiaro che il meccanismo di reclutamento basato sulle liste nazionali è l’unica scelta sensata, mentre una ristrutturazione della “governance” deve mantenere al corpo docente il ruolo di indirizzo scientifico-didattico. Anche qui, per la valutazione meno numeri e più “giudizi ponderati” per dirla con le parole della International Mathematical Union.
(Il Messaggero, 25 giugno 2009)
«Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante Alighieri)
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giovedì 25 giugno 2009
lunedì 22 giugno 2009
Un omaggio a Renzo Foa
La morte di Renzo mi lascia sconvolto e incredulo e mi riporta ai ricordi più lontani. Già, perché io e Renzo ci conoscevamo da più di quarant’anni, da quando eravamo entrambi studenti al Liceo Visconti. Lui di un anno e mezzo più giovane di me frequentava un’altra classe ma ci eravamo presto conosciuti perché facevamo parte dello stesso circuito di studenti di sinistra del celebre liceo romano. All’uscita da scuola andavamo spesso a piedi fino alla Stazione Termini, dove ci separavamo: lui prendeva l’autobus verso la sua casa sulla via Cristoforo Colombo ed io tornavo nella mia, vicino a Via Nazionale. Al Visconti, assieme ad altri due amici, Stefano Giolitti (il figlio di Antonio) e Franco Cataldi, avevo messo in piedi un giornale scolastico intitolato “Argomenti e pareri”, su una linea di sinistra molto moderata. Presto Renzo si aggregò alla “redazione” assieme ad altri ragazzi, tra cui alcuni figli di note famiglie di sinistra, come i Lombardo Radice e gli Ingrao. “Argomenti e pareri” divenne la nostra prima esperienza politica e prese un tono sempre più orientato a sinistra, conformemente all’evoluzione di quegli anni che vide l’ingresso nella sinistra comunista di legioni di giovani genericamente antifascisti, come gli aderenti a “Nuova Resistenza”, la quale fu anche un’esperienza comune a me e Renzo. Di recente con Renzo abbiamo rievocato un esilarante episodio avvenuto durante la fondazione a Firenze di “Nuova Resistenza”. Eravamo tutti in un albergo dove alloggiava anche una comitiva di turisti spagnoli. Durante la cena Renzo si levò in piedi gridando in modo stentoreo: «Que viva España roja!». Uno dei poveri turisti si alzò sconvolto e sibilò: «Usted está loco»… Ci siamo fatti molte risate sul nostro estremismo di adolescenti di allora, un estremismo da cui ci allontanammo rapidamente, pur continuando a militare nella sinistra comunista.
Per molti anni ci siamo persi di vista. Quando, nel 1990, Renzo divenne direttore de L’Unità, io ero uscito dal Partito Comunista da dieci anni. Pur a distanza, apprezzai subito la linea moderata e aperta con cui intendeva gestire il giornale e concepiva la sua militanza nella sinistra. Di recente mi raccontò del gelo con cui la vecchia guardia del Partito aveva accolto la sua nomina. Qualcuno – mi raccontò gli tolse persino il saluto. E già da alcuni anni era iniziato il suo cammino verso una posizione di riformismo liberale su cui ci ritrovammo e riprendemmo una frequentazione suggellata da una cena a Trastevere. Fu l’occasione di rivisitare tanti anni passati alla luce di un percorso che aveva tanti punti in comune e di inaugurare iniziative in comune, tra cui ricordo soprattutto un viaggio assieme a Berlino nel 2006 per la Giornata europea della cultura ebraica.
È un grandissimo dolore per me che Renzo sia venuto a mancare, proprio dopo che da parecchi anni si era ravvivato un sodalizio non più soltanto legato alle memorie della prima gioventù, ma alla condivisione di idee e prospettive. Con la sua vita condotta con sincerità e onestà che certamente gli sono costate molte sofferenze se ne va anche un pezzo della vita di chi gli è stato amico.
(Liberal, 12 giugno 2009)
Per molti anni ci siamo persi di vista. Quando, nel 1990, Renzo divenne direttore de L’Unità, io ero uscito dal Partito Comunista da dieci anni. Pur a distanza, apprezzai subito la linea moderata e aperta con cui intendeva gestire il giornale e concepiva la sua militanza nella sinistra. Di recente mi raccontò del gelo con cui la vecchia guardia del Partito aveva accolto la sua nomina. Qualcuno – mi raccontò gli tolse persino il saluto. E già da alcuni anni era iniziato il suo cammino verso una posizione di riformismo liberale su cui ci ritrovammo e riprendemmo una frequentazione suggellata da una cena a Trastevere. Fu l’occasione di rivisitare tanti anni passati alla luce di un percorso che aveva tanti punti in comune e di inaugurare iniziative in comune, tra cui ricordo soprattutto un viaggio assieme a Berlino nel 2006 per la Giornata europea della cultura ebraica.
È un grandissimo dolore per me che Renzo sia venuto a mancare, proprio dopo che da parecchi anni si era ravvivato un sodalizio non più soltanto legato alle memorie della prima gioventù, ma alla condivisione di idee e prospettive. Con la sua vita condotta con sincerità e onestà che certamente gli sono costate molte sofferenze se ne va anche un pezzo della vita di chi gli è stato amico.
(Liberal, 12 giugno 2009)
Calma ragazzi...
A forza di circolare questa vignetta è arrivata a me:
Si può capire l'agitazione ma mi sembra che qui si rendano troppi onori. Nessuno potrà obiettare al fatto che il ministro Gelmini venga paragonato a Mosé ma confesso che neppure nei miei sogni più segreti ho pensato che io e la mia commissione potessimo essere paragonati al Signore... Insomma, siamo tutti tronfi come pavoni... Però, santo cielo, qui si fa un po' di confusione. Le tavole della Legge sono state consegnate sul Sinai e non dopo l'attraversamento del Mar Rosso. Se poi uno vuol identificare le SSIS, la CGIL scuola e i precari con l'esercito egiziano all'inseguimento degli ebrei con l'obbiettivo di trucidarli tutti... libero lui... ognuno si trova i confronti che più gli aggradano. Ma mi pare alquanto autodenigratorio, che diamine...
Soprattutto, permettete, c'è un'imperdonabile cantonata: queste non sono le nuove regole del RECLUTAMENTO me le nuove regole della FORMAZIONE. Per cui, cari precari, non vi fate sempre vittime di qualsiasi cosa si dica e si faccia.
Comunque la vignetta è molto carina.
In bocca al lupo col regolamento, e vedrete che resteremo tutti all'asciutto!
Si può capire l'agitazione ma mi sembra che qui si rendano troppi onori. Nessuno potrà obiettare al fatto che il ministro Gelmini venga paragonato a Mosé ma confesso che neppure nei miei sogni più segreti ho pensato che io e la mia commissione potessimo essere paragonati al Signore... Insomma, siamo tutti tronfi come pavoni... Però, santo cielo, qui si fa un po' di confusione. Le tavole della Legge sono state consegnate sul Sinai e non dopo l'attraversamento del Mar Rosso. Se poi uno vuol identificare le SSIS, la CGIL scuola e i precari con l'esercito egiziano all'inseguimento degli ebrei con l'obbiettivo di trucidarli tutti... libero lui... ognuno si trova i confronti che più gli aggradano. Ma mi pare alquanto autodenigratorio, che diamine...
Soprattutto, permettete, c'è un'imperdonabile cantonata: queste non sono le nuove regole del RECLUTAMENTO me le nuove regole della FORMAZIONE. Per cui, cari precari, non vi fate sempre vittime di qualsiasi cosa si dica e si faccia.
Comunque la vignetta è molto carina.
In bocca al lupo col regolamento, e vedrete che resteremo tutti all'asciutto!
lunedì 15 giugno 2009
Riportiamo a scuola il merito e il rigore
L’abolizione degli esami di riparazione autunnali per i licei, quindici anni fa, fu la conclusione di un processo iniziato da anni, ma la decisione del ministro D’Onofrio aprì una faglia che è andata sempre più allargandosi. Non che non vi fossero ragioni serie per modificare una situazione piena di inconvenienti, a partire dal costo delle ripetizioni estive per le famiglie. Ma fu una leggerezza scassare un sistema collaudato senza disporre di un’alternativa ben pensata e applicabile; e, di fatto, l’alternativa non l’aveva in mente nessuno. L’assenza di regole non poteva non determinare una caduta del rigore e non poteva non solleticare tendenze demagogiche al lassismo. Chi ricorda il clima di quegli anni sa bene che il mondo degli insegnanti lo aveva capito e che ha sofferto di sentirsi sottrarre uno strumento importante sia per stimolare il rendimento scolastico sia per mantenere la disciplina in classe. Di fatto, col crollo della spinta a far bene anche tra gli studenti migliori, si creò un appiattimento generale. Il messaggio stimolava l’opportunismo: «chi me lo fa fare di studiare se anche l’ultimo della classe va avanti lo stesso?». Tutti i marchingegni escogitati negli anni successivi – dall’invenzione dei nefasti “debiti formativi” che non venivano mai recuperati, a quella del “6 rosso”, erede dei famigerati “6 politico” e “18 politico” di sessantottina memoria – hanno continuato a trasmettere quel messaggio opportunista e lassista.
Ha trionfato una demagogia permissiva ispirata da un’ideologia imperniata su due principi: tutti debbono andare avanti allo stesso modo e l’obbiettivo di riferimento non è il rendimento massimo (ovvero il primo della classe), bensì un rendimento minimale o, come fu detto con una penosa locuzione, la “media minima”; la scuola deve gestire i nuovi problemi in base al principio dell’“autonomia”, di per sé ottimo ma realizzato in modo da travolgerla sotto una valanga di burocrazia e di adempimenti formali. Il modo con cui è stata concepita l’autonomia scolastica – come quella universitaria – lungi dall’alleggerire la struttura l’ha appesantita enormemente con una miriade di organismi e adempimenti che la distolgono dalla sua funzione istituzionale. Ciò non è strano, perché è tipico delle concezioni costruttiviste rimpiazzare i contenuti con le metodologie – organizzative e didattiche – che invece di liberare la struttura la soffocano in una rete esasperante di regole che deresponsabilizzano la persona (e la frustrano) nella pretesa di oggettivizzare ogni comportamento. Il 6 rosso è una tipica manifestazione di questa visione: sostituire una regola “oggettiva” alla scelta responsabile degli insegnanti di attribuire o no un’insufficienza.
Come rimediare ai guai derivanti da queste politiche sbagliate? E si noti che ciò va fatto perché nessuna persona responsabile può giocare su due tavoli, la mattina sventolando le statistiche internazionali che sanzionano l’insuccesso della nostra scuola e il pomeriggio difendendo le metodologie e le regole fin qui adottate, addirittura facendo credere che il rimedio sia propinarne un’overdose.
Rimediare è difficilissimo perché tanti anni di lassismo hanno alimentato le peggiori abitudini, la tendenza a pensare la scuola come una baby-sitter che deve rendere al massimo con il minimo di problemi. Ciò è anche frutto della visione dello studente e della famiglia come “utenti” e della valutazione della scuola in termini di “customer satisfaction”. Troppe famiglie si sono pigramente trasformate in sindacato dei figli e trovano inconcepibile che l’estate possa essere “rovinata”: se il pargolo non studia è colpa della scuola. Una vignetta comparsa di recente in Francia da conto magistralmente della trasformazione avvenuta in quarant’anni: nel 1969 papà e mamma si rivolgono corrucciati al figlio chiedendo «cosa sono questi voti?», nel 2009 rivolgono la stessa domanda con un’espressione infuriata, ma stavolta all’insegnante…
L’altra difficoltà è che si tende ad affidarsi troppo alla normativa. Nel campo dell’istruzione, esistono infiniti modi per interpretarla e aggirarla. Inoltre, come si è detto, l’eccesso di normativa è deresponsabilizzante e umiliante per chi deve applicarle. La normativa deve essere concepita soprattutto come un preciso segnale di indirizzo. Gli insegnanti – noi insegnanti, perché il problema si pone in termini identici in tutto il comparto dell’istruzione – sono funzionari pubblici che hanno un ruolo di altissima responsabilità sociale: ciò significa che, da un lato, essi debbono interpretare fedelmente le richieste che la società rivolge loro attraverso le sue strutture istituzionali, e dall’altro debbono essere liberi di applicarle nella loro piena responsabilità pena una condizione che avvilisce la loro professionalità. Oggi quel che ci si chiede – ed è una richiesta che viene chiaramente da tutti i settori responsabile della società che sentono un profondo malessere per il degrado della scuola – è una ripresa forte di rigore e di responsabilità.
Le discussioni accanite che si stanno intrecciando attorno all’interpretazione della legge 169 richiedendo che sia univoca e applicabile quasi meccanicamente, e i tentativi di cavarsela ripristinando il ricorso al 6 rosso, manifestano una gran confusione. Si dice che sia contraddittorio da un lato enunciare un principio rigido come quello dell’obbligo fatto allo studente di ottenere la sufficienza in ogni materia e, dall’altro, lasciare libero il Consiglio di promuovere lo studente in casi in cui si ritiene che qualche insufficienza non sia irrecuperabile in modo semplice, ma non di farlo usando il 6 rosso. Invece non c’è alcuna contraddizione. Difatti, da un lato la norma trasmette un segnale forte volto a stimolare la serietà e il rigore nello studio; dall’altro non si vuole negare il ruolo che l’insegnante e il Consiglio nella loro autonomia e competenza possono esplicare nella valutazione dei casi particolari. Le due cose messe assieme non significano affatto un invito a promuovere tutti. Al contrario. Ciò potrebbe essere pensato soltanto da chi sia comunque intenzionato al lassismo. In tal caso, non c’è barba di normativa che possa porre rimedio: quella lassista verrà preferita in quanto darà copertura a una prassi lassista, quella rigorosa verrà aggirata alzando i voti massicciamente.
Considero importante un suggerimento venuto dai docenti del Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità, autore di un appello che venne anche raccolto dal ministro Gelmini fin dal suo insediamento. Il suggerimento è di mettere accanto alla sufficienza non effettiva attribuita a una materia, per la decisione responsabile del Consiglio di non bocciare un allievo che si ritiene opportuno mandare avanti nonostante qualche carenza giudicata recuperabile, la dicitura: «Voto di Consiglio». Sembra un formalismo e invece è un fatto di sostanza. Basta misurare la differenza tra questa dicitura e un 6 rosso: nel secondo caso si maschera la scelta dietro una norma – che peraltro non esiste più ed è quindi inapplicabile – nel secondo caso si esplicita la scelta del corpo insegnante che si assume a viso aperto la sua responsabilità bilanciando le esigenze di rigore con la valutazione specifica della persona e al contempo indica esplicitamente la necessità del recupero.
Gli insegnanti italiani sono nella loro stragrande maggioranza funzionari di grande responsabilità, altrimenti una scuola soggetta a tante sperimentazioni scombinate sarebbe crollata da un pezzo. Essi sono capaci di bilanciare un’esigenza di rigore che viene richiesta da ogni lato, con una valutazione ponderata caso per caso. Nella loro funzione dovrebbero cercare sempre più l’appoggio delle famiglie responsabili, che sono tante. Anche i mezzi di comunicazione dovrebbero fare la loro parte non andando sempre a intervistare i vocianti sindacalisti dei figli. Il merito va premiato non soltanto tra gli studenti ma anche tra le famiglie.
(Il Messaggero, 13 giugno 2009)
Ha trionfato una demagogia permissiva ispirata da un’ideologia imperniata su due principi: tutti debbono andare avanti allo stesso modo e l’obbiettivo di riferimento non è il rendimento massimo (ovvero il primo della classe), bensì un rendimento minimale o, come fu detto con una penosa locuzione, la “media minima”; la scuola deve gestire i nuovi problemi in base al principio dell’“autonomia”, di per sé ottimo ma realizzato in modo da travolgerla sotto una valanga di burocrazia e di adempimenti formali. Il modo con cui è stata concepita l’autonomia scolastica – come quella universitaria – lungi dall’alleggerire la struttura l’ha appesantita enormemente con una miriade di organismi e adempimenti che la distolgono dalla sua funzione istituzionale. Ciò non è strano, perché è tipico delle concezioni costruttiviste rimpiazzare i contenuti con le metodologie – organizzative e didattiche – che invece di liberare la struttura la soffocano in una rete esasperante di regole che deresponsabilizzano la persona (e la frustrano) nella pretesa di oggettivizzare ogni comportamento. Il 6 rosso è una tipica manifestazione di questa visione: sostituire una regola “oggettiva” alla scelta responsabile degli insegnanti di attribuire o no un’insufficienza.
Come rimediare ai guai derivanti da queste politiche sbagliate? E si noti che ciò va fatto perché nessuna persona responsabile può giocare su due tavoli, la mattina sventolando le statistiche internazionali che sanzionano l’insuccesso della nostra scuola e il pomeriggio difendendo le metodologie e le regole fin qui adottate, addirittura facendo credere che il rimedio sia propinarne un’overdose.
Rimediare è difficilissimo perché tanti anni di lassismo hanno alimentato le peggiori abitudini, la tendenza a pensare la scuola come una baby-sitter che deve rendere al massimo con il minimo di problemi. Ciò è anche frutto della visione dello studente e della famiglia come “utenti” e della valutazione della scuola in termini di “customer satisfaction”. Troppe famiglie si sono pigramente trasformate in sindacato dei figli e trovano inconcepibile che l’estate possa essere “rovinata”: se il pargolo non studia è colpa della scuola. Una vignetta comparsa di recente in Francia da conto magistralmente della trasformazione avvenuta in quarant’anni: nel 1969 papà e mamma si rivolgono corrucciati al figlio chiedendo «cosa sono questi voti?», nel 2009 rivolgono la stessa domanda con un’espressione infuriata, ma stavolta all’insegnante…
L’altra difficoltà è che si tende ad affidarsi troppo alla normativa. Nel campo dell’istruzione, esistono infiniti modi per interpretarla e aggirarla. Inoltre, come si è detto, l’eccesso di normativa è deresponsabilizzante e umiliante per chi deve applicarle. La normativa deve essere concepita soprattutto come un preciso segnale di indirizzo. Gli insegnanti – noi insegnanti, perché il problema si pone in termini identici in tutto il comparto dell’istruzione – sono funzionari pubblici che hanno un ruolo di altissima responsabilità sociale: ciò significa che, da un lato, essi debbono interpretare fedelmente le richieste che la società rivolge loro attraverso le sue strutture istituzionali, e dall’altro debbono essere liberi di applicarle nella loro piena responsabilità pena una condizione che avvilisce la loro professionalità. Oggi quel che ci si chiede – ed è una richiesta che viene chiaramente da tutti i settori responsabile della società che sentono un profondo malessere per il degrado della scuola – è una ripresa forte di rigore e di responsabilità.
Le discussioni accanite che si stanno intrecciando attorno all’interpretazione della legge 169 richiedendo che sia univoca e applicabile quasi meccanicamente, e i tentativi di cavarsela ripristinando il ricorso al 6 rosso, manifestano una gran confusione. Si dice che sia contraddittorio da un lato enunciare un principio rigido come quello dell’obbligo fatto allo studente di ottenere la sufficienza in ogni materia e, dall’altro, lasciare libero il Consiglio di promuovere lo studente in casi in cui si ritiene che qualche insufficienza non sia irrecuperabile in modo semplice, ma non di farlo usando il 6 rosso. Invece non c’è alcuna contraddizione. Difatti, da un lato la norma trasmette un segnale forte volto a stimolare la serietà e il rigore nello studio; dall’altro non si vuole negare il ruolo che l’insegnante e il Consiglio nella loro autonomia e competenza possono esplicare nella valutazione dei casi particolari. Le due cose messe assieme non significano affatto un invito a promuovere tutti. Al contrario. Ciò potrebbe essere pensato soltanto da chi sia comunque intenzionato al lassismo. In tal caso, non c’è barba di normativa che possa porre rimedio: quella lassista verrà preferita in quanto darà copertura a una prassi lassista, quella rigorosa verrà aggirata alzando i voti massicciamente.
Considero importante un suggerimento venuto dai docenti del Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità, autore di un appello che venne anche raccolto dal ministro Gelmini fin dal suo insediamento. Il suggerimento è di mettere accanto alla sufficienza non effettiva attribuita a una materia, per la decisione responsabile del Consiglio di non bocciare un allievo che si ritiene opportuno mandare avanti nonostante qualche carenza giudicata recuperabile, la dicitura: «Voto di Consiglio». Sembra un formalismo e invece è un fatto di sostanza. Basta misurare la differenza tra questa dicitura e un 6 rosso: nel secondo caso si maschera la scelta dietro una norma – che peraltro non esiste più ed è quindi inapplicabile – nel secondo caso si esplicita la scelta del corpo insegnante che si assume a viso aperto la sua responsabilità bilanciando le esigenze di rigore con la valutazione specifica della persona e al contempo indica esplicitamente la necessità del recupero.
Gli insegnanti italiani sono nella loro stragrande maggioranza funzionari di grande responsabilità, altrimenti una scuola soggetta a tante sperimentazioni scombinate sarebbe crollata da un pezzo. Essi sono capaci di bilanciare un’esigenza di rigore che viene richiesta da ogni lato, con una valutazione ponderata caso per caso. Nella loro funzione dovrebbero cercare sempre più l’appoggio delle famiglie responsabili, che sono tante. Anche i mezzi di comunicazione dovrebbero fare la loro parte non andando sempre a intervistare i vocianti sindacalisti dei figli. Il merito va premiato non soltanto tra gli studenti ma anche tra le famiglie.
(Il Messaggero, 13 giugno 2009)
sabato 13 giugno 2009
CHE COS'E' ?
Si può rispondere al questionario
Ebbene sì... La maggioranza ha avuto ragione. È un'"opera d'arte" contemporanea "esposta" a Venezia.
Ma chi ha preso quella foto - e non sono io - aveva precisamente l'intenzione di usare l'immagine come metafora della sinistra arenata... Le alucce rosse incastrate tra i muri che non volano più...
Ebbene sì... La maggioranza ha avuto ragione. È un'"opera d'arte" contemporanea "esposta" a Venezia.
Ma chi ha preso quella foto - e non sono io - aveva precisamente l'intenzione di usare l'immagine come metafora della sinistra arenata... Le alucce rosse incastrate tra i muri che non volano più...
venerdì 12 giugno 2009
Moammar Gheddafi, Leader della Gran Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista
Sensazionale questa visita del Grande Leader della Gran Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista.
Si è realizzato di nuovo il compromesso storico e, salvo alcune fazioni di marginali esagitati, tra i quali peraltro - e per le ragioni che dirò - vi sono persone cui non vorrei neppure stare accanto, tutti hanno concordemente accolto con entusiasmo il Grande Leader. Dal governo all'opposizione.
Non si ricorda un leader che abbia avuto tante opportunità di far comizi come il Leader, e in sedi istituzionali di prestigio. Una delle più belle ville romane è stata sequestrata per collocarvi la sua tenda da povero beduino del deserto.
Al Senato - dove non ha potuto parlare nell'aula con gran disappunto di Berlusconi e di D'Alema - ha spiegato che non bisogna rompere gli attributi ai dittatori, visto che anche quel Senato - vabbé era molti anni fa, ma sempre Senato Romano era - aveva eletto dittatore Giulio Cesare e la Libia non si era messa di traverso. Poi ha messo a confronto Reagane Bin Laden, due fior di terroristi e si è udito soltanto un mugugno, tra gli applausi entusiasti di Andreotti.
Quindi ha dato una lectio magistralis alla Sapienza. Non siamo ancora riusciti a sapere quanti dei 67 professori che avevano stigmatizzato la venuta del Papa nell'università fossero presenti ad applaudire la lezione di diritto e democrazia impartita nella cosidetta patria del diritto. Di certo non uno di loro ha fiatato una protesta.
L'unica protesta di cui ho saputo è contenuta nella lettera che allego sotto.
Infine è andato a parlare a un migliaio di donne all'Auditorium.
Pare che qui abbia detto che serve una «rivoluzione culturale» e pche nel mondo islamico la «donna è come un mobilio che si può cambiare quando si vuole. Nessuno chiederà perché lo hai fatto». «Io sono a fianco della donna a livello del mondo - ha aggiunto Gheddafi - e vedo che ha ancora bisogno di una rivoluzione. Non dobbiamo sopraffarla, deve prendere gli stessi diritti dell'uomo». Risulta peraltro che nel celebre Libro Verde si condanni l' asilo nido come «qualcosa che assomiglia a recinti di sagginamento del pollame», un luogo che «non si confà ai figli dell' uomo» perché, negando la differenza tra maschi e femmine, stacca i bambini dalle madri. Secondo il Vangelo gheddafiano: «Se la donna intraprende il lavoro dell' uomo deve trasformarsi in un uomo, abbandonando il suo ruolo e la sua bellezza». Insomma: «Indurre la donna a eseguire il lavoro dell' uomo è ingiusta aggressione (...) dato che il lavoro oblitera le belle fattezze della donna che la creazione ha voluto si evidenziassero ond' ella espleti un lavoro diverso da quello che si addice a chi non è femmina, come avviene coi fiori, creati per attrarre i granellini di polline e produrre i semi».
Mille donne a sentire un signore capace di simili discorsi... La via per l'assoggettamento eurabiano è aperta come un'autostrada e le mille lotte per l'emancipazione femminile e il femminismo si dileguano come neve al sole di fronte al fascino del Grande Leader.
Mah. Riesce persino difficile fare un commento. Che squallore...
Si può anche capire che abbiamo il rubinetto del gas e degli immigrati al collo, ma un minimo di dignità non guasterebbe.
Così, tanto per potersi guardare allo specchio senza orrore di sé.
Dimenticavo di dire perché con certi protestatari non vorrei aver nulla a che fare.
Perché hanno protestato contro Gheddafi soltanto perché ha fatto un accordo sull'immigrazione con Berlusconi... Non perché è un dittatore che non sta neppure dove stia di casa la democrazia e i diritti umani. No. A casa sua ammazzi come gli pare. Anzi è rispettabile, in quanto vittima del colonialismo. Si sporca soltanto se fa accordi con Berlusconi. Un mondo alla rovescia.
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Al Magnifico Rettore Prof. Luigi Frati
Al Senato accademico
Ai colleghi dell'Università di Roma "La Sapienza"
Magnifico Rettore, cari colleghi,
apprendo con costernazione che l'Università di Roma "La Sapienza", che non ha saputo accogliere con rispetto e civiltà il papa Benedetto XVI, accoglierà il giorno 11 giugno il leader libico Moammar Gheddafi, che incontrerà la comunità accademica tutta in aula magna. Il comunicato reso pubblico recita che il sig. Gheddafi si rivolgerà in particolar modo ai nostri studenti.
Non so in quale sede accademica sia stata deliberata questa visita né per quali ragioni sia stata decisa.
Esprimo la mia ferma protesta circa l'opportunità di invitare solennemente il sig. Gheddafi, leader di un regime dittatoriale, a parlare nella nostra Università, che mi auguro dedita con sforzo congiunto di tutta la comunità accademica -al di là di ogni differenza politica- alla tutela dei principi di democrazia e libertà, che sono a fondamento della Costituzione repubblicana, e a tenere vivi tra i nostri giovani studenti sentimenti di profondo attaccamento alla libertà e alla pace.
Ricordo che pochi giorni fa è morto, dopo sette anni di patimenti nelle prigioni libiche, Fathi Eljahmi, dissidente libico che ha patito nelle carceri l'oppressione del regime di Gheddafi insieme alla moglie a al figlio maggiore solo per aver combattuto per il diritto di parola e per riforme democratiche. Mi chiedo se qualcuno nella comunità accademica della Sapienza potrà chiedere conto all'ospite del destino tragico di questo spirito libero e di tutti i suoi concittadini, meno noti, che per persecuzione politica sono stati costretti a tacere, sono stati imprigionati o sono stati espulsi dal paese.
Ricordo che i partiti politici sono vietati, che è vietato il diritto di sciopero, che la stampa è soggetta a censura, che la magistratura è controllata dal governo, che vi sono severe restrizioni al diritto di parola, di associazione, di manifestazione e alla libertà di religione. Ricordo che l'attuale regime libico ha espropriato ed espulso senza diritto di difesa le residue comunità ebraiche presenti in Libia e la Libia, storicamente centro di una fiorente comunità ebraica, è oggi uno Stato privo della presenza di qualunque cittadino di religione ebraica. Ricordo che nell'ambito delle Nazioni Unite il regime libico ha promosso ripetutamente campagne di attacco fazioso e violento contro lo Stato d'Israele ed è stato tra i promotori della conferenza Durban II, dalla quale l'Italia si è ufficialmente dissociata e alla quale si è rifiutata di partecipare.
Mi chiedo quali insegnamenti il sig. Moammar Gheddafi potrà impartire ai nostri studenti e perchè la nostra comunità accademica debba ascoltarlo senza una voce critica chiara e ferma. Se la diplomazia internazionale segue la propria strada, la comunità accademica dovrebbe sempre e comunque, con coraggio, parlare a tutela della libertà.
Prof. Bruna Ingrao
Si è realizzato di nuovo il compromesso storico e, salvo alcune fazioni di marginali esagitati, tra i quali peraltro - e per le ragioni che dirò - vi sono persone cui non vorrei neppure stare accanto, tutti hanno concordemente accolto con entusiasmo il Grande Leader. Dal governo all'opposizione.
Non si ricorda un leader che abbia avuto tante opportunità di far comizi come il Leader, e in sedi istituzionali di prestigio. Una delle più belle ville romane è stata sequestrata per collocarvi la sua tenda da povero beduino del deserto.
Al Senato - dove non ha potuto parlare nell'aula con gran disappunto di Berlusconi e di D'Alema - ha spiegato che non bisogna rompere gli attributi ai dittatori, visto che anche quel Senato - vabbé era molti anni fa, ma sempre Senato Romano era - aveva eletto dittatore Giulio Cesare e la Libia non si era messa di traverso. Poi ha messo a confronto Reagane Bin Laden, due fior di terroristi e si è udito soltanto un mugugno, tra gli applausi entusiasti di Andreotti.
Quindi ha dato una lectio magistralis alla Sapienza. Non siamo ancora riusciti a sapere quanti dei 67 professori che avevano stigmatizzato la venuta del Papa nell'università fossero presenti ad applaudire la lezione di diritto e democrazia impartita nella cosidetta patria del diritto. Di certo non uno di loro ha fiatato una protesta.
L'unica protesta di cui ho saputo è contenuta nella lettera che allego sotto.
Infine è andato a parlare a un migliaio di donne all'Auditorium.
Pare che qui abbia detto che serve una «rivoluzione culturale» e pche nel mondo islamico la «donna è come un mobilio che si può cambiare quando si vuole. Nessuno chiederà perché lo hai fatto». «Io sono a fianco della donna a livello del mondo - ha aggiunto Gheddafi - e vedo che ha ancora bisogno di una rivoluzione. Non dobbiamo sopraffarla, deve prendere gli stessi diritti dell'uomo». Risulta peraltro che nel celebre Libro Verde si condanni l' asilo nido come «qualcosa che assomiglia a recinti di sagginamento del pollame», un luogo che «non si confà ai figli dell' uomo» perché, negando la differenza tra maschi e femmine, stacca i bambini dalle madri. Secondo il Vangelo gheddafiano: «Se la donna intraprende il lavoro dell' uomo deve trasformarsi in un uomo, abbandonando il suo ruolo e la sua bellezza». Insomma: «Indurre la donna a eseguire il lavoro dell' uomo è ingiusta aggressione (...) dato che il lavoro oblitera le belle fattezze della donna che la creazione ha voluto si evidenziassero ond' ella espleti un lavoro diverso da quello che si addice a chi non è femmina, come avviene coi fiori, creati per attrarre i granellini di polline e produrre i semi».
Mille donne a sentire un signore capace di simili discorsi... La via per l'assoggettamento eurabiano è aperta come un'autostrada e le mille lotte per l'emancipazione femminile e il femminismo si dileguano come neve al sole di fronte al fascino del Grande Leader.
Mah. Riesce persino difficile fare un commento. Che squallore...
Si può anche capire che abbiamo il rubinetto del gas e degli immigrati al collo, ma un minimo di dignità non guasterebbe.
Così, tanto per potersi guardare allo specchio senza orrore di sé.
Dimenticavo di dire perché con certi protestatari non vorrei aver nulla a che fare.
Perché hanno protestato contro Gheddafi soltanto perché ha fatto un accordo sull'immigrazione con Berlusconi... Non perché è un dittatore che non sta neppure dove stia di casa la democrazia e i diritti umani. No. A casa sua ammazzi come gli pare. Anzi è rispettabile, in quanto vittima del colonialismo. Si sporca soltanto se fa accordi con Berlusconi. Un mondo alla rovescia.
=============================================
Al Magnifico Rettore Prof. Luigi Frati
Al Senato accademico
Ai colleghi dell'Università di Roma "La Sapienza"
Magnifico Rettore, cari colleghi,
apprendo con costernazione che l'Università di Roma "La Sapienza", che non ha saputo accogliere con rispetto e civiltà il papa Benedetto XVI, accoglierà il giorno 11 giugno il leader libico Moammar Gheddafi, che incontrerà la comunità accademica tutta in aula magna. Il comunicato reso pubblico recita che il sig. Gheddafi si rivolgerà in particolar modo ai nostri studenti.
Non so in quale sede accademica sia stata deliberata questa visita né per quali ragioni sia stata decisa.
Esprimo la mia ferma protesta circa l'opportunità di invitare solennemente il sig. Gheddafi, leader di un regime dittatoriale, a parlare nella nostra Università, che mi auguro dedita con sforzo congiunto di tutta la comunità accademica -al di là di ogni differenza politica- alla tutela dei principi di democrazia e libertà, che sono a fondamento della Costituzione repubblicana, e a tenere vivi tra i nostri giovani studenti sentimenti di profondo attaccamento alla libertà e alla pace.
Ricordo che pochi giorni fa è morto, dopo sette anni di patimenti nelle prigioni libiche, Fathi Eljahmi, dissidente libico che ha patito nelle carceri l'oppressione del regime di Gheddafi insieme alla moglie a al figlio maggiore solo per aver combattuto per il diritto di parola e per riforme democratiche. Mi chiedo se qualcuno nella comunità accademica della Sapienza potrà chiedere conto all'ospite del destino tragico di questo spirito libero e di tutti i suoi concittadini, meno noti, che per persecuzione politica sono stati costretti a tacere, sono stati imprigionati o sono stati espulsi dal paese.
Ricordo che i partiti politici sono vietati, che è vietato il diritto di sciopero, che la stampa è soggetta a censura, che la magistratura è controllata dal governo, che vi sono severe restrizioni al diritto di parola, di associazione, di manifestazione e alla libertà di religione. Ricordo che l'attuale regime libico ha espropriato ed espulso senza diritto di difesa le residue comunità ebraiche presenti in Libia e la Libia, storicamente centro di una fiorente comunità ebraica, è oggi uno Stato privo della presenza di qualunque cittadino di religione ebraica. Ricordo che nell'ambito delle Nazioni Unite il regime libico ha promosso ripetutamente campagne di attacco fazioso e violento contro lo Stato d'Israele ed è stato tra i promotori della conferenza Durban II, dalla quale l'Italia si è ufficialmente dissociata e alla quale si è rifiutata di partecipare.
Mi chiedo quali insegnamenti il sig. Moammar Gheddafi potrà impartire ai nostri studenti e perchè la nostra comunità accademica debba ascoltarlo senza una voce critica chiara e ferma. Se la diplomazia internazionale segue la propria strada, la comunità accademica dovrebbe sempre e comunque, con coraggio, parlare a tutela della libertà.
Prof. Bruna Ingrao
lunedì 8 giugno 2009
Così Obama ha svelato la sua visione del mondo alla rovescia
Al Cairo il presidente americano ha dato sfogo al relativismo multiculturale. Con un evidente tic anti Israele
Dopo aver letto il discorso di Obama sorge la domanda: “È un discorso sincero?” La risposta è: “Sì, è certamente sincero, molto sincero”. Altrimenti non potrebbe spiegarsi la sequela di dichiarazioni partigiane, di castronerie storiche, di gaffes di cui è disseminato. Emerge l’immagine di un uomo che adora l’Islam, che non capisce la civiltà occidentale, che ama l’America soltanto nella misura in cui, oggi, recida le radici che la legano a quella civiltà, che non capisce e non ama Israele (come aveva avvertito Benny Morris). In definitiva, l’immagine di un relativista multiculturale radicale.
Obama ha intessuto il suo discorso di un incontinente panegirico della storia gloriosa dell’Islam. Ha presentato l’Islam come luce della conoscenza che avrebbe aperto la strada al Rinascimento e all’Illuminismo. Ha riscritto la storia in modo propagandistico dimenticando che – come scrisse Alexandre Koyré – la «fioritura della civiltà arabo-islamica fu di corta durata» e «il mondo arabo, dopo aver trasmesso all’Occidente latino l’eredità classica che aveva raccolta, l’ha persa e persino ripudiata», per «l’influsso di una reazione violenta dell’ortodossia islamica che rimproverava alla filosofia la sua attitudine antireligiosa, e per l’effetto devastatore delle ondate di invasione barbare, turche, mongole che hanno distrutto la civiltà araba e hanno trasformato l’Islam in una religione fanatica e ferocemente ostile alla filosofia». Certo, non si poteva parlare così, perché Obama è un politico e non un professore di storia, ma si poteva evitare di dire cose ridicole: per esempio che l’Islam ci ha dato la stampa – quale colossale gaffe nei confronti dei cinesi! – o che ci ha dato la comprensione delle malattie, come se la Scuola salernitana non fosse stata una sintesi di cultura medica greca, latina, araba, ebraica e cristiana e come se la rivoluzione che ci ha dato la medicina scientifica contemporanea (quella che domina negli Stati Uniti!) non fosse stata forgiata nell’Europa dell’Ottocento.
Questa agiografia incontinente non fa una piega: presenta una storia di cultura, di tolleranza, di rispetto dei diritti umani senza ombre, soltanto turbata oggi dalla minoranza “potente” ma ristretta dei fanatici di Al Qaeda.
Una simile parodia potrebbe essere perdonata in nome dell’opportunità politica se non fosse che Obama non manifesta passioni neppure lontanamente paragonabili per il resto del mondo e della storia. Egli si dichiara cristiano ma mai rivendica il valore che ha per lui tale appartenenza. L’unico riferimento storico al cristianesimo allude allo spirito di tolleranza dell’Islam nella Spagna medioevale “durante l’Inquisizione”, come se le grandi scuole di traduzione dei classici non fossero fiorite sotto i re cristiani. Quanto alla biografia personale, gli unici accenti commossi sono per l’infanzia in Indonesia, il ricordo dell’invocazione dell’aazan e della tolleranza con cui erano trattati i cristiani. Tuttavia, esistono storie ben diverse dell’Indonesia, come quella di “Fedeli a oltranza. Un viaggio tra i popoli convertiti all’Islam” di V. S. Naipaul in cui si narra di una società brutalmente distrutta dal potere della teocrazia islamica. Sono testimonianze di cui bisognerebbe tenere conto anche se vengono dalla cultura indiana. Ma nel discorso di Obama questioni epocali che riguardano il destino del mondo appaiono affidate a un dialogo a due, tra America e Islam: scompaiono più di due miliardi di persone tra indiani e cinesi, mezzo miliardo di europei, per non dire del resto. L’interlocutore dell’Islam è l’America, non l’Occidente. Non una menzione delle radici della civiltà americana: religiosità giudaico-cristiana e illuminismo, razionalità e democrazia. Tutte cose che vengono dalla civiltà europea e che univano fraternamente gli illuministi francesi e la nascente democrazia americana, quando i salotti parigini accoglievano come un eroe Benjamin Franklin e Thomas Jefferson si formava alla cultura politica degli Idéologues. Niente: la cultura europea e la civiltà occidentale non esistono, come se l’America fosse una proles sine matre creata. Anzi, qualche accenno c’è: al colonialismo, al razzismo, alla tratta degli schiavi, insomma solo alle colpe dell’Occidente, di cui è stato vittima il mondo islamico. Si arriva al punto che i fanatici estremisti di Al Qaeda con l’attentato alle Torri Gemelle avrebbero strumentalizzato i risentimenti creati da queste colpe oltre che dai cambiamenti indotti dalla modernità che «hanno indotto molti musulmani a considerare l’Occidente come ostile alle tradizioni dell’Islam». Sembra di sentire un Al-Ghazali moderno.
L’America no, è un’altra cosa. L’America si spiega in fondo col fatto di aver eletto un presidente dal nome Barack Hussein Obama. Un fatto non isolato, egli spiega, perché questa è l’America di oggi: il paese che ha vinto colonialismo e razzismo e integra perfettamente un mosaico di diversità. Questa retorica multiculturalista non è attraversata dall’ombra di un dubbio circa l’ingestibilità di un modello che rischia di portare alla crisi del tanto vantato melting pot: è il modello di una società che accetta ogni aspetto delle diversità, che punisce chi non lascia vestire le donne musulmane come vogliono e vuole permettere comportamenti in conflitto con le norme classiche della democrazia occidentale. Qui siamo ormai fuori dei paradigmi illuministici della democrazia americana: l’adesione ai principi di libertà, uguaglianza, parità fra uomo e donna, i principi morali diventano un’opzione, una scelta su un piede di parità con altre diverse se non opposte. Certo, Obama patrocina il valore universale dei principi dei diritti dell’uomo ma con questo tono: «Credetemi, è meglio. Non ho intenzione di imporvi nulla e anzi rispetto le vostre scelte diverse, ma se fate come dico io sarà meglio per tutti». Obama vanta le 1200 moschee esistenti in America ma non chiede nulla in cambio. Anzi presenta ridicolmente come campione di dialogo interreligioso il re di un paese, l’Arabia saudita, in cui il possesso del Vangelo porta in galera.
Obama è allievo di quell’Edward Said che, nel suo Umanesimo e democrazia derideva la cultura umanistica americana classica, innamorata di Platone, Aristotele, Dante e Shakespeare, ed esaltava l’opera di distruzione che l’aveva sostituita con un “umanesimo” multiculturalista.
Infine, come Said, Obama non ama Israele, e – dopo le dichiarazioni di principio e l’apprezzabile condanna dell’antisemitismo e dei propositi di distruzione – gli riserva due colpi micidiali. Il primo consiste nel giustificare il diritto di Israele ad avere una patria soltanto con le persecuzioni antisemite. È l’argomento che usano gli avversari di Israele per dire: “voi occidentali avete creato il problema, ora sbrigatevela voi”. Obama porta acqua al mulino di queste tesi, parlando di «displacement brought by Israel’s founding», come se questo spostamento non fosse stato voluto dagli stati arabi che, rifiutando le risoluzioni delle Nazioni Unite, invitarono gli arabi – allora il termine “palestinesi” era inesistente – ad andarsene per rendere più facile la distruzione della neonata nazione. Obama ha parlato soltanto del diritto dei palestinesi a una “homeland” di cui sono stati privati. Non ha detto una parola di altri diritti, come quello di centinaia di migliaia di ebrei “displaced” in modo feroce da tanti paesi arabi.
Ma non basta. Incitando i palestinesi ad abbandonare la violenza ha evocato l’esempio dei negri americani che per secoli hanno sopportato la frusta come schiavi e l’umiliazione della segregazione e hanno ottenuto l’emancipazione per via pacifica, nonché l’esempio del Sud Africa, dell’Asia del sud, dell’Europa dell’est e dell’Indonesia. Insomma, Israele è paragonato a un regime schiavistico, a uno stato dell’apartheid, a un regime comunista. Conosciamo bene la matrice di questi confronti. E – secondo uno stereotipo collaudato – mentre rende questo pessimo servizio agli ebrei vivi, Obama si reca a Buchenwald a commemorare gli ebrei morti. Tanto si tratta di deplorare le colpe dell’Occidente…
Questa è la situazione di fronte a cui ci troviamo: il relativismo multiculturale al potere negli Stati Uniti – un relativismo multiculturale che, come sempre, non è equanime, ma è schierato dall’altra parte, in questo caso quella che sta nel cuore del presidente. Quali processi incompresi o sottovalutati abbiano portato a questo esito è quel che occorrerà capire a fondo.
(Il Foglio, 6 giugno 2009)
Post scriptum: Leggete questo bellissimo articolo comparso sul New York Times. Non certamente un giornale di destra...
http://www.nytimes.com/2009/06/09/opinion/09aciman.html?scp=3&sq=op-ed&st=cse
Dopo aver letto il discorso di Obama sorge la domanda: “È un discorso sincero?” La risposta è: “Sì, è certamente sincero, molto sincero”. Altrimenti non potrebbe spiegarsi la sequela di dichiarazioni partigiane, di castronerie storiche, di gaffes di cui è disseminato. Emerge l’immagine di un uomo che adora l’Islam, che non capisce la civiltà occidentale, che ama l’America soltanto nella misura in cui, oggi, recida le radici che la legano a quella civiltà, che non capisce e non ama Israele (come aveva avvertito Benny Morris). In definitiva, l’immagine di un relativista multiculturale radicale.
Obama ha intessuto il suo discorso di un incontinente panegirico della storia gloriosa dell’Islam. Ha presentato l’Islam come luce della conoscenza che avrebbe aperto la strada al Rinascimento e all’Illuminismo. Ha riscritto la storia in modo propagandistico dimenticando che – come scrisse Alexandre Koyré – la «fioritura della civiltà arabo-islamica fu di corta durata» e «il mondo arabo, dopo aver trasmesso all’Occidente latino l’eredità classica che aveva raccolta, l’ha persa e persino ripudiata», per «l’influsso di una reazione violenta dell’ortodossia islamica che rimproverava alla filosofia la sua attitudine antireligiosa, e per l’effetto devastatore delle ondate di invasione barbare, turche, mongole che hanno distrutto la civiltà araba e hanno trasformato l’Islam in una religione fanatica e ferocemente ostile alla filosofia». Certo, non si poteva parlare così, perché Obama è un politico e non un professore di storia, ma si poteva evitare di dire cose ridicole: per esempio che l’Islam ci ha dato la stampa – quale colossale gaffe nei confronti dei cinesi! – o che ci ha dato la comprensione delle malattie, come se la Scuola salernitana non fosse stata una sintesi di cultura medica greca, latina, araba, ebraica e cristiana e come se la rivoluzione che ci ha dato la medicina scientifica contemporanea (quella che domina negli Stati Uniti!) non fosse stata forgiata nell’Europa dell’Ottocento.
Questa agiografia incontinente non fa una piega: presenta una storia di cultura, di tolleranza, di rispetto dei diritti umani senza ombre, soltanto turbata oggi dalla minoranza “potente” ma ristretta dei fanatici di Al Qaeda.
Una simile parodia potrebbe essere perdonata in nome dell’opportunità politica se non fosse che Obama non manifesta passioni neppure lontanamente paragonabili per il resto del mondo e della storia. Egli si dichiara cristiano ma mai rivendica il valore che ha per lui tale appartenenza. L’unico riferimento storico al cristianesimo allude allo spirito di tolleranza dell’Islam nella Spagna medioevale “durante l’Inquisizione”, come se le grandi scuole di traduzione dei classici non fossero fiorite sotto i re cristiani. Quanto alla biografia personale, gli unici accenti commossi sono per l’infanzia in Indonesia, il ricordo dell’invocazione dell’aazan e della tolleranza con cui erano trattati i cristiani. Tuttavia, esistono storie ben diverse dell’Indonesia, come quella di “Fedeli a oltranza. Un viaggio tra i popoli convertiti all’Islam” di V. S. Naipaul in cui si narra di una società brutalmente distrutta dal potere della teocrazia islamica. Sono testimonianze di cui bisognerebbe tenere conto anche se vengono dalla cultura indiana. Ma nel discorso di Obama questioni epocali che riguardano il destino del mondo appaiono affidate a un dialogo a due, tra America e Islam: scompaiono più di due miliardi di persone tra indiani e cinesi, mezzo miliardo di europei, per non dire del resto. L’interlocutore dell’Islam è l’America, non l’Occidente. Non una menzione delle radici della civiltà americana: religiosità giudaico-cristiana e illuminismo, razionalità e democrazia. Tutte cose che vengono dalla civiltà europea e che univano fraternamente gli illuministi francesi e la nascente democrazia americana, quando i salotti parigini accoglievano come un eroe Benjamin Franklin e Thomas Jefferson si formava alla cultura politica degli Idéologues. Niente: la cultura europea e la civiltà occidentale non esistono, come se l’America fosse una proles sine matre creata. Anzi, qualche accenno c’è: al colonialismo, al razzismo, alla tratta degli schiavi, insomma solo alle colpe dell’Occidente, di cui è stato vittima il mondo islamico. Si arriva al punto che i fanatici estremisti di Al Qaeda con l’attentato alle Torri Gemelle avrebbero strumentalizzato i risentimenti creati da queste colpe oltre che dai cambiamenti indotti dalla modernità che «hanno indotto molti musulmani a considerare l’Occidente come ostile alle tradizioni dell’Islam». Sembra di sentire un Al-Ghazali moderno.
L’America no, è un’altra cosa. L’America si spiega in fondo col fatto di aver eletto un presidente dal nome Barack Hussein Obama. Un fatto non isolato, egli spiega, perché questa è l’America di oggi: il paese che ha vinto colonialismo e razzismo e integra perfettamente un mosaico di diversità. Questa retorica multiculturalista non è attraversata dall’ombra di un dubbio circa l’ingestibilità di un modello che rischia di portare alla crisi del tanto vantato melting pot: è il modello di una società che accetta ogni aspetto delle diversità, che punisce chi non lascia vestire le donne musulmane come vogliono e vuole permettere comportamenti in conflitto con le norme classiche della democrazia occidentale. Qui siamo ormai fuori dei paradigmi illuministici della democrazia americana: l’adesione ai principi di libertà, uguaglianza, parità fra uomo e donna, i principi morali diventano un’opzione, una scelta su un piede di parità con altre diverse se non opposte. Certo, Obama patrocina il valore universale dei principi dei diritti dell’uomo ma con questo tono: «Credetemi, è meglio. Non ho intenzione di imporvi nulla e anzi rispetto le vostre scelte diverse, ma se fate come dico io sarà meglio per tutti». Obama vanta le 1200 moschee esistenti in America ma non chiede nulla in cambio. Anzi presenta ridicolmente come campione di dialogo interreligioso il re di un paese, l’Arabia saudita, in cui il possesso del Vangelo porta in galera.
Obama è allievo di quell’Edward Said che, nel suo Umanesimo e democrazia derideva la cultura umanistica americana classica, innamorata di Platone, Aristotele, Dante e Shakespeare, ed esaltava l’opera di distruzione che l’aveva sostituita con un “umanesimo” multiculturalista.
Infine, come Said, Obama non ama Israele, e – dopo le dichiarazioni di principio e l’apprezzabile condanna dell’antisemitismo e dei propositi di distruzione – gli riserva due colpi micidiali. Il primo consiste nel giustificare il diritto di Israele ad avere una patria soltanto con le persecuzioni antisemite. È l’argomento che usano gli avversari di Israele per dire: “voi occidentali avete creato il problema, ora sbrigatevela voi”. Obama porta acqua al mulino di queste tesi, parlando di «displacement brought by Israel’s founding», come se questo spostamento non fosse stato voluto dagli stati arabi che, rifiutando le risoluzioni delle Nazioni Unite, invitarono gli arabi – allora il termine “palestinesi” era inesistente – ad andarsene per rendere più facile la distruzione della neonata nazione. Obama ha parlato soltanto del diritto dei palestinesi a una “homeland” di cui sono stati privati. Non ha detto una parola di altri diritti, come quello di centinaia di migliaia di ebrei “displaced” in modo feroce da tanti paesi arabi.
Ma non basta. Incitando i palestinesi ad abbandonare la violenza ha evocato l’esempio dei negri americani che per secoli hanno sopportato la frusta come schiavi e l’umiliazione della segregazione e hanno ottenuto l’emancipazione per via pacifica, nonché l’esempio del Sud Africa, dell’Asia del sud, dell’Europa dell’est e dell’Indonesia. Insomma, Israele è paragonato a un regime schiavistico, a uno stato dell’apartheid, a un regime comunista. Conosciamo bene la matrice di questi confronti. E – secondo uno stereotipo collaudato – mentre rende questo pessimo servizio agli ebrei vivi, Obama si reca a Buchenwald a commemorare gli ebrei morti. Tanto si tratta di deplorare le colpe dell’Occidente…
Questa è la situazione di fronte a cui ci troviamo: il relativismo multiculturale al potere negli Stati Uniti – un relativismo multiculturale che, come sempre, non è equanime, ma è schierato dall’altra parte, in questo caso quella che sta nel cuore del presidente. Quali processi incompresi o sottovalutati abbiano portato a questo esito è quel che occorrerà capire a fondo.
(Il Foglio, 6 giugno 2009)
Post scriptum: Leggete questo bellissimo articolo comparso sul New York Times. Non certamente un giornale di destra...
http://www.nytimes.com/2009/06/09/opinion/09aciman.html?scp=3&sq=op-ed&st=cse
venerdì 5 giugno 2009
Il razzismo neurologico e l’egualitarismo stroncatalenti
Apprendiamo dalla stampa che la paleoantropologa Dean Falk dell’università della Florida ha elaborato e studiato le immagini della materia cerebrale di Albert Einstein arrivando alla conclusione che sui lobi parietali di solito associati alle abilità matematiche si presenta una decina di variazioni rispetto alla norma: rilievi e solchi che potrebbero essere connessi alle capacità eccezionali dello scienziato. La signora è male informata. Difatti, è indubbio che Einstein sia stato uno dei più grandi fisici di tutti i tempi e, come tale, era certamente assai forte in matematica, ma non in modo superlativo. Lo ammetteva lui stesso. Difatti, scriveva al matematico italiano Tullio Levi-Civita: «Quando ho saputo che lei attaccava la dimostrazione che mi è costata fiumi di sudore mi sono preoccupato non poco» perché «lei va a cavallo della vera matematica mentre uno come me è costretto ad andare a piedi». Perciò, se Einstein aveva dei solchi nella zona dei numeri, Levi-Civita doveva averne di profondità doppia. Non parliamo poi di Henri Poincaré o di John von Neumann: in quei cervelli doveva esservi il Grand Canyon… Ma che volete? Questo genere di baggianate sulle basi cerebrali del pensiero sono pane quotidiano almeno quanto le chiacchiere sulle veline.
Tanto più sorprende leggere un articolo di David Brooks sul “falso mito del talento naturale” che spiega che non esiste alcuna predisposizione alla genialità. Come esempio egli adduce quello di Mozart che si esercitò al pianoforte fin dalla più tenera età accumulando in pochi anni 10.000 ore di pratica. Insomma, Mozart non possedeva alcun talento particolare ma studiò tanto e tanto e poi tanto da diventare un portento. Scrivere – dice Brooks – è una «pratica lenta, laboriosa e spietata». Chi impiega ore e ore a fare versioni in prosa o, viceversa, a mettere prosa in poesia diventerà un grande scrittore. Pare che in Russia esista una scuola di tennis in cui si gioca indefessamente senza pallina, studiando al rallentatore le mosse. «Procedure di esercitazione consapevoli, inflessibili e ripetitive» sono la chiave del genio. Brooks non dice che questo punto di vista va direttamente in rotta di collisione con il precedente. Se la prende piuttosto con le «idee romantiche» della gente a proposito del genio, con chi crede che esso sia «prodotto di una scintilla divina» e che le «doti» siano conseguenza di un «dono spirituale innato». Insomma, comunque la si metta, le bastonate sono sempre riservate allo “spiritualismo”, anche se è evidente che le teorie materialistiche secondo cui il pensiero è una secrezione del cervello sono inevitabilmente nel mirino delle tesi di Brooks. Peraltro egli esagera perché l’evidenza mostra che la verità sta nel mezzo. È chiaro che senza studio e applicazione non si combina nulla ma è innegabile che esistano anche predisposizioni personali: vi sono persone stonate come una campana che possono senz’altro migliorare ma non al punto di diventare Mozart. D’altra parte l’idea che Einstein fosse un genio per qualche conformazione cerebrale costituisce una giustificazione perfetta della nullafacenza scolastica. «Cari genitori, va bene prendo sempre zero in matematica. Ma che ci volete fare? Avete visto la mia zona dei numeri? È piatta come la pianura padana. Non posso costituzionalmente imparare niente di matematica…». Insomma, in futuro i voti in pagella li metterà direttamente un neuroscienziato dopo un check del cervello.
Nel linguaggio del politicamente corretto si dovrebbe dire che il determinismo cerebrale materialistico è razzismo allo stato puro. Ma il politicamente corretto è un alleato di ferro del materialismo.
(Tempi, 4 giugno 2009)
Tanto più sorprende leggere un articolo di David Brooks sul “falso mito del talento naturale” che spiega che non esiste alcuna predisposizione alla genialità. Come esempio egli adduce quello di Mozart che si esercitò al pianoforte fin dalla più tenera età accumulando in pochi anni 10.000 ore di pratica. Insomma, Mozart non possedeva alcun talento particolare ma studiò tanto e tanto e poi tanto da diventare un portento. Scrivere – dice Brooks – è una «pratica lenta, laboriosa e spietata». Chi impiega ore e ore a fare versioni in prosa o, viceversa, a mettere prosa in poesia diventerà un grande scrittore. Pare che in Russia esista una scuola di tennis in cui si gioca indefessamente senza pallina, studiando al rallentatore le mosse. «Procedure di esercitazione consapevoli, inflessibili e ripetitive» sono la chiave del genio. Brooks non dice che questo punto di vista va direttamente in rotta di collisione con il precedente. Se la prende piuttosto con le «idee romantiche» della gente a proposito del genio, con chi crede che esso sia «prodotto di una scintilla divina» e che le «doti» siano conseguenza di un «dono spirituale innato». Insomma, comunque la si metta, le bastonate sono sempre riservate allo “spiritualismo”, anche se è evidente che le teorie materialistiche secondo cui il pensiero è una secrezione del cervello sono inevitabilmente nel mirino delle tesi di Brooks. Peraltro egli esagera perché l’evidenza mostra che la verità sta nel mezzo. È chiaro che senza studio e applicazione non si combina nulla ma è innegabile che esistano anche predisposizioni personali: vi sono persone stonate come una campana che possono senz’altro migliorare ma non al punto di diventare Mozart. D’altra parte l’idea che Einstein fosse un genio per qualche conformazione cerebrale costituisce una giustificazione perfetta della nullafacenza scolastica. «Cari genitori, va bene prendo sempre zero in matematica. Ma che ci volete fare? Avete visto la mia zona dei numeri? È piatta come la pianura padana. Non posso costituzionalmente imparare niente di matematica…». Insomma, in futuro i voti in pagella li metterà direttamente un neuroscienziato dopo un check del cervello.
Nel linguaggio del politicamente corretto si dovrebbe dire che il determinismo cerebrale materialistico è razzismo allo stato puro. Ma il politicamente corretto è un alleato di ferro del materialismo.
(Tempi, 4 giugno 2009)
martedì 2 giugno 2009
Ilan Halimi? Ma chi se ne frega
Uno dei pochissimi articoli usciti sul tema:
Parigi: «Sì, diedi fuoco all’ ebreo». Processo choc in Francia