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lunedì 27 giugno 2011

Nessun parametro matematico può spiegare l'essere umano


Secondo Cartesio la matematica è la scienza «più facile e necessaria di tutte» perché «forma e prepara gli intelletti a comprendere altre scienze più elevate». Immagino l’ilarità che può suscitare l’affermazione secondo cui la matematica è facile… Ma Cartesio aveva ragione. Egli osservava che tutte le difficoltà che la matematica racchiude si trovano nelle altre scienze, mentre queste comportano «molte altre difficoltà che provengono dai loro oggetti particolari e che essa di per sé non possiede». La fisica, la biologia, l’economia, le scienze sociali, sono scienze di difficoltà crescente perché riguardano aspetti della realtà sempre più complessi, resistenti a ogni tentativo di semplificazione e la cui struttura non è riducibile a schemi di natura puramente logica. La scienza in cui la matematica ha avuto più successo è stata la fisica. Non a caso, qui è nata l’idea che la realtà fisica sia semplice e descrivibile in modo semplice mediante leggi espresse in forma matematica. Non deve quindi stupire che questo successo sia divenuto un modello da seguire: visto che la matematica ha dato risultati così brillanti in fisica, perché non ripetere l’operazione nelle altre branche della conoscenza, dalle scienze della vita a quelle umane? È una storia iniziata quasi tre secoli fa e di cui vediamo gli sviluppi ancor oggi nella tendenza fortissima a introdurre metodi quantitativi-matematici in ogni ambito.
Il guaio è che l’efficacia dei metodi quantitativi non è scontata a priori. In fisica ha funzionato egregiamente, anche se oggi si ammette che anche i fenomeni fisici sono più complessi di quanto pensava Galileo secondo cui la natura è essenzialmente “semplice”. Ma quando si va oltre, i problemi diventano immensi. Ad esempio, sono chiaramente definibili le unità di misura delle grandezze fisiche (lunghezza, peso, ecc.), ma come definire le unità di misura di di nozioni come “gusto”, “propensione”, “interesse”, “concorrenza”, “competenza”, “socialità”, “benessere”? In realtà, è impossibile, e questo gli scienziati fisico-matematici lo sanno bene. Ma la legione degli specialisti della trattazione quantitativa di qualsiasi cosa al mondo si espande, assolutamente noncurante delle difficoltà teoriche, a costo di costruire sulla sabbia.
Nella crisi finanziaria che stiamo vivendo ha avuto non poche responsabilità l’uso spregiudicato di una certa modellistica matematica. Nonostante la letteratura sul “malessere” scientifico ed etico provocato da questi sviluppi cresca ogni giorno, si fa finta di non vederla. Così come si fa finta di non vedere le critiche crescenti all’uso spregiudicato e agli effetti disastrosi delle “misurazioni” dei processi di conoscenza. Le cronache raccontano dell’introduzione crescente di metodi di analisi ergonomica – come l’Ergo-UAS Universal Analyzing System) – per misurare il carico “biomeccanico” del lavoro operaio, pesando ogni azione del corpo, persino la torsione del polso nell’avvitamento dei bulloni, per determinare tempi ottimali di produzione. In verità, questi metodi più che rispondere a criteri di efficienza, servono a evitare cause per malattie professionali, come la misurazione delle “competenze” serve a dare copertura “scientifica” ai licenziamenti della manodopera in eccesso. Il problema è che qui non si tratta di “gestire” una macchina, bensì esseri umani: questo non inficia solo la scientificità di questi metodi (rivelatisi fallimentari da Taylor in poi) ma pone problemi morali enormi. Una società che non abbia al centro l’uomo, bensì il benessere dei “parametri”, non soltanto è inaccettabile e risveglia sogni di tipo comunista, ma alla lunga è anche inefficiente, al pari del comunismo.
 (Tempi, 27 giugno 2011)

Non facciamo dei test Invalsi un'altra ideologia

Un commento. In un articolo sul Sole 24 Ore di sabato 25 Andrea Ichino sostiene una tesi "morbida" circa i test Invalsi, ammettendo che non possono misurare la complessità dei processi di insegnamento e apprendimento ma che sono come il termometro che misura la temperatura pur non potendo stimare la complessità dello stato di malattia (o salute) del paziente. È una vecchia tesi di Andrea Ichino, e cioè che i test siano un'unità di misura. Ma è una tesi che fa acqua da tutte le parti, perché il metro o l'unità di misura termometrica sono (e debbono) essere definite in modo oggettivo e impersonale, mentre il test è formulato da una persona. Sarebbe come se ci mettessimo a misurare ciascuno col proprio metro o col proprio termometro. Inoltre, il termometro non pretende affatto di misurare nella sua complessità e globalità le qualità di un oggetto, bensì soltanto una grandezza precisa: la temperatura. Che cosa misurano i test? Le competenze direbbe Ichino. E come può darsi in modo oggettivo una definizione oggettiva e comunemente accettata, almeno operativa, di competenze?
Questioni teoriche? Niente affatto. Chi critica non ha controproposte? Niente affatto. Ne sono state fatte molte, ma si fa finta di non sentirle.
Perciò il titolo con cui Pietro Ichino riporta sul suo blog l'articolo del fratello è alquanto discutibile e ricattatorio: "Smettiamo di fare guerriglia contro i test Invalsi"... Chi critica fa "guerriglia", ed è squalificato come "guerrigliero" e chi è a favore è razionale?... Suvvia, siamo seri...

BESTIARIO MATEMATICO N. 14

Bambini discalculici

Una signora organizza una caccia al tesoro per un gruppo di bambini nascondendo dei cartoncini verdi, rossi e gialli. I verdi valgono 1, i rossi 2 e i gialli 3. Lo scopo del gioco consiste nel conseguire il massimo punteggio, trovando i cartoncini e sommando il loro valore. Una bambina osserva seria: «Questo gioco non si può fare». «Perché mai?», chiede la signora. «Perché non ci sono il segno “più” e il segno “uguale”. Le addizioni si fanno soltanto sul foglio col segno “più” e il segno “uguale”».
La storia è emblematica del disastro dell’insegnamento della matematica alle primarie: a quella povera bambina nessuno ha spiegato che le operazioni della matematica sono indipendenti dalla loro rappresentazione sul foglio e che esiste anche il calcolo mentale e, anzi, che questo precede tutto. Insomma, che esistono tanti modi di pensare i numeri e le operazioni tra i numeri, e poi che vi sono anche delle tecniche per eseguire le operazioni sul foglio. Quella bambina è pronta per essere classificata come “discalculica”, secondo la terminologia introdotta dalla legge sui Disturbi Specifici di Apprendimento che – come osservò un preside – sono in molti casi Disturbi Specifici di Insegnamento. Perché mai, si dirà, quella bambina rischia di essere classificata come “discalculica”? Perché rischia di cadere nella tenaglia di due errori: l’identificazione delle operazioni con procedure di incolonnamento su un foglio, e la credenza che se non si incolonna bene vuol dire che si è disturbati.
Di recente, nel corso di una manifestazione culturale, ho ricevuto in omaggio un libro intitolato “Il bambino, mente matematica”. Il curatore del volume me l’ha dato con imbarazzo, avendo ascoltato il mio intervento: «Non sarà d’accordo», ha detto. Così, ho cercato con curiosità perché mai non dovessi essere d’accordo. Vi ho trovato una definizione di matematica a dir poco discutibile: un pensiero procedurale che si svolge nello spazio e nel tempo. In fondo sembra una definizione ovvia: quale attività umana non si svolge nello spazio e nel tempo? Ma per altro verso quella definizione fasulla – la matematica non si riduce affatto a un pensiero procedurale – serve a identificare gli errori in matematica come conseguenza del fatto che le azioni necessarie nello spazio e nel tempo (le procedure) vengono fatte in modo scombinato, dislocato. Chi fa errori (chi non “procede” bene) ha disturbi spazio-temporali, di “disorganizzazione motoria”. Guarda caso, gli esempi che vengono dati di “discalculia” (e non soltanto in quel libretto) sono prevalentemente disturbi di incolonnamento delle cifre o di non mettere al posto giusto i simboli + e =, o la linea che viene sopra il risultato della somma.
Un tempo questo genere di problemi era raro in quanto i bambini venivano abituati ad incolonnare correttamente i simboli con l’esercizio delle famigerate “aste”. Riempiendo pagine e pagine di “aste” e “tondi” non soltanto si familiarizzavano con le componenti grafiche di base della scrittura, ma si abituavano a incolonnare correttamente e a rispettare delle distanze fisse tra i simboli. Oggi è vietato persino parlarne: la pedagogia “moderna” vi classificherebbe subito come beceri reazionari. Il guaio è che qualcosa bisogna pur fare per insegnare a incolonnare, non è una cosa naturale, e basta osservare i nostri bambini per constatare che non lo sanno fare. E così sono pronti a cadere nella tenaglia di quei buontemponi che credono che la matematica si riduca a incolonnamenti e che chi non sa incolonnare è un disturbato. Buontemponi si fa per dire, perché le conseguenze concrete sono molto gravi.
Un altro esempio di bambino disturbato che viene proposto dai nostri buontemponi è il seguente: si tratta del bambino che, richiesto di scrivere “quattrocentotrentasei”, scrive 400306. Disturbato? In realtà, disturbato è chi gli ha fornito un insegnamento incompleto e ancor più chi lo ritiene tale. Il poverino ha capito benissimo il meccanismo dello “zero operatore”, ovvero che, per rappresentare un certo numero di decine, basta mettere uno zero dietro quel numero; per un certo numero di centinaia occorre mettergli dietro due zeri, e così via. Così, se voi gli dite “quattrocentotrentasei” lui scrive molto correttamente in sequenza prima 400, poi 30 e poi 6. In tal modo, attraverso il suo errore ha dimostrato di aver compreso in modo profondo l’idea complessa di “zero operatore”. Possiamo quindi senz’altro dire – in barba ai nostri pedagogisti-psicologi – che ha dimostrato di avere tutte le doti per comprendere il passo successivo, e cioè come si rappresentano i numeri in notazione posizionale e cioè come si raggruppano assieme quelle tre cifre. Questo, chiaramente non glielo saputo spiegare nessuno. Ma per i nostri specialisti lui è un prototipo di “discalculico”, con tutto il corteo di conseguenze: diagnosi da parte di uno psicologo, identificazione di procedure didattiche speciali, quattrini che se ne vanno da ogni parte, e lo stato psicologico della famiglia e del bambino che vanno a pezzi. E oltretutto per colpa di persone che in materia di matematica meritano il cappello d’asino perché ne danno definizioni grottesche, non sanno che il pane quotidiano della matematica è l’errore, e la pratica dell’errore non è un “disturbo”, una malattia, bensì il percorso normale attraverso cui si apprende la matematica.
Giorni fa ascoltavo tre signore che in metropolitana discutevano accalorate del problema dei bambini discalculici, con un tono da specialiste della materia. Protestavano: «Le gente non si rende conto che sono bambini normalissimi, come tutti gli altri, anzi, spesso più intelligenti degli altri, solo che hanno questo “problema di apprendimento”». Certo, è proprio così, nella stragrande maggioranza dei casi sono bambini come tutti gli altri, classificati come “disturbati” con diagnosi fasulle basate su teorie fasulle. Avrei voluto dire a quelle signore: «Proprio così, sono quasi sempre bambini normalissimi; guardatevi piuttosto allo specchio per rendervi conto che i problemi stanno nella vostra testa e non in quella dei bambini».
(Il Giornale, 13 giugno 2011)