Pagine

mercoledì 30 novembre 2011

Per favore, il premier ci risparmi almeno il tecno-trotzkismo


Si moltiplicano le voci che denunciano il vizio di fondo di una costruzione europea che ha messo il carro dell’economia davanti ai buoi della politica. Il che – ha osservato Angelo Panebianco – ha comportato una ferita della democrazia. Ma ora la crisi, invece di stimolare il risanamento di questa ferita – con la lunga e difficile opera di unire popoli, lingue e culture che non si conoscono e talora non si amano – rischia di provocare un ulteriore crollo della democrazia.
Sembra che il tandem franco-tedesco – incurante dell'opinione dei paria dell'Unione – punti a un'Europa a due cerchi, a una Schengen dell'euro: nel disco centrale i due paesi forti, Germania e Francia, fuori di esso chi non si adegua alle nuove regole imposte dal centro. Mentre il presidente francese Sarkozy preme drammaticamente sull’Italia, invitandola a sacrifici per entrare nel primo girone, forse temendo di restare solo con la Germania, si profila una sinistra prospettiva: un cambio della governance europea per vie che evitino la ratifica elettorale delle nazioni. Sarebbe gravissimo. L’Europa diverrebbe un protettorato gestito da due paranoie – il ricorrente delirio di potenza tedesco e l'incapacità francese di disfarsi del mito della "grandeur" – e da funzionari irresponsabili e prepotenti.
Si dice che il premier Monti voglia giocare il tutto per il tutto per agganciarsi alla locomotiva franco-tedesca, anche trasformando la manovra economica in una cura da cavallo. Si evoca la situazione del 1996, quando Prodi e Ciampi tentarono di convincere Aznar a un'adesione "morbida" all'euro e, di fronte al suo rifiuto, scelsero una manovra economica eroica. Forse fu una scelta giusta, ma non è detto: la questione è controversa. Ora il contesto complessivo è molto peggiore e occorrerebbe pensarci dieci volte prima di far scorrere lacrime e sangue, ridurre il paese allo stremo e trasformarlo in colonia, pur di agganciarsi a una locomotiva che oltretutto può andare a sbattere malamente.
Al riguardo fa riflettere un recente discorso di Monti in cui si diceva: «Non dobbiamo sorprenderci che l'Europa abbia bisogno di crisi, e di gravi crisi, per fare passi avanti. 
I passi avanti dell'Europa sono per definizione cessioni di parti delle sovranità nazionali a un livello comunitario.
È chiaro che il potere politico, ma anche il senso di appartenenza dei cittadini a una collettività nazionale, possono essere pronti a queste cessioni solo quando il costo politico e psicologico del non farle diventa superiore al costo del farle perché c'è una crisi in atto, visibile, conclamata».
Si tratta di affermazioni sconcertanti, consone più che a un tecnico moderato, a un esponente delle tradizioni politiche che pongono gli obbiettivi storici "supremi" al disopra della volontà e delle esigenze dei cittadini. I "passi avanti" dell'Europa si misurano con la crescita del benessere, della qualità della convivenza civile, della cultura, dell'istruzione; non con la quantità di sovranità nazionale ceduta. Invece, qui si dice addirittura che le crisi sono benvenute e salutari perché costringono i cittadini sofferenti a rinunciare all'appartenenza nazionale pur di salvarsi. Questo è un tipico ragionamento da rivoluzionario che vede le crisi come tappe di una rivoluzione permanente in vista di un obbiettivo supremo, nella fattispecie il potere centrale europeo come necessità storica trascendente. L'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è di un trotzkismo tecnocratico, di ammazzare il paese con cure da cavallo sull'altare dell'ideale della cessione della sovranità nazionale da realizzare anche a costo di fabbricarlo con le sofferenze della gente. È meglio non lasciarsi abbacinare dal mito del Reich europeo millenario e pensare alla via giusta per ridare al paese speranza, vitalità e fiducia nel futuro, perché solo così riprenderà a crescere. Questo richiederà soprattutto riforme, il che è compito esclusivo della politica. Se questa si rivelerà latitante o impotente sarà un dramma, ma l'eurocrazia come versione attuale dello stato etico, per favore no.
(Il Foglio, 29 novembre 2011)

lunedì 28 novembre 2011

Democrazia, addio...


Ormai è un coro: dalla crisi si esce soltanto rafforzando i poteri d’intervento dell’Unione Europea sulle politiche economiche nazionali. Lo proclama Barroso. Da noi, commentatori come Alesina e Giavazzi spiegano che la situazione è così grave che l’unica via d’uscita è estendere i poteri esecutivi dell’Unione Europea alla politica di bilancio e ai conti pubblici aggregati, pur ammettendo che questa sarebbe una rivoluzione. È indubbio che le opzioni sul tappeto suscettibili di effetti rilevanti richiedono un cambiamento dei trattati europei e di qualche costituzione nazionale e molti commentatori ammettono che questo non può essere fatto nel chiuso delle stanze di Bruxelles, Berlino e (al più) Parigi, perché i cittadini europei si rivolterebbero. Si tratterebbe di decisioni da ratificare per via elettorale in 27 paesi, con esiti incerti, e comunque con tempi tanto lunghi da essere incompatibili con la dinamica dei mercati.
È indubbio che è ormai allo scoperto il nodo centrale irrisolto della questione politica; il difetto costitutivo di un’Unione europea creata su basi solo economiche. Di fronte alla crisi più drammatica spicca l’assenza di forme di unificazione politica autentica, fondata sulla crescita di un sentimento comune dei cittadini europei. E, siccome le questioni in gioco sono eminentemente politiche, in fin dei conti l’Europa si rivela essere una costruzione in cui comanda il più forte (la Germania) con il supporto di una burotecnocrazia tanto potente e intrusiva  quanto politicamente irresponsabile. È una situazione in cui i paesi più deboli sul piano politico vengono commissariati da quelle che il Times ha chiamato “giunte civili”. Da questo punto di vista, la dichiarazione del premier Monti davanti a Merkel e Sarkozy secondo cui l’Italia «farà i compiti a casa» è desolante e descrive in modo plateale una condizione di subordinazione umiliante.
Purtroppo vi un aspetto molto più serio e inquietante della faccenda. Proprio perché la condizione dell’Unione è questa l’idea di accrescerne i poteri d’intervento sugli stati nazionali può rivelarsi una fuga in avanti avventurosa e pericolosa; magari assortita dalla tentazione di procedere a un cambiamento radicale dei trattati europei, con scorciatoie che taglino fuori la volontà popolare: come si è visto, l’audacia in materia non difetta. Ma la domanda è: dare più poteri a chi? Senza un chiarimento radicale la risposta è: conferire poteri consolari alla Germania e a quell’eurocrazia che ha fabbricato questo disastro.
Sotto questo profilo conviene rileggere un passaggio di un discorso di Monti di alcuni mesi fa in cui egli affermò testualmente: «Non dobbiamo sorprenderci che l'Europa abbia bisogno di crisi, e di gravi crisi, per fare passi avanti. I passi avanti dell'Europa sono per definizione cessioni di parti delle sovranità nazionali a un livello comunitario.
È chiaro che il potere politico, ma anche il senso di appartenenza dei cittadini a una collettività nazionale, possono essere pronti a queste cessioni solo quando il costo politico e psicologico del non farle diventa superiore al costo del farle perché c'è una crisi in atto, visibile, conclamata». È un ragionamento sconcertante, perché esalta il ruolo delle crisi in funzione di un obbiettivo che è considerato valido in sé e per sé, indipendentemente dal fatto che la crisi sia proprio il risultato di come è stato perseguito. C’è un che di “rivoluzionario” che non ci si attenderebbe da un tecnico: il fine giustifica i mezzi, anche imporre sofferenza a chi patisce le crisi; siano queste benvenute pur di rafforzare il potere comunitario. Perciò, c’è da temere che il vero programma del governo Monti sia questo e che i “compiti a casa” – non a caso ancora nebulosi – siano soltanto un mezzo per perseguire quel fine. 

Il governo Monti ricomincia col "testing": dalla padella nella brace

 "L'Europa lo vuole" 
Si risente di nuovo la canzone che ci portò alla laurea 3+2, ovvero al disastro dell'università italiana. E stavolta è vero che l'eurocrazia - non gli europei, l'eurocrazia -, più potente e arrogante che mai, lo vuole davvero, poiché ha già chiesto imperiosamente al governo Monti di valutare gli insegnanti in base ai rendimenti dei loro alunni stimati mediante i test Invalsi. E naturalmente un governo di tecnocrati come questo lo farà, eccome, con il consenso trasversale di una politica e di una democrazia boccheggianti. Che questo abbia qualcosa a che fare con il risanamento dell'economia italiana possono crederlo soltanto gli ingenui o i frequentatori degli inginocchiatoi di fronte alla detta eurocrazia. I quali intonano, sempre in ginocchio, il ritornello della valutazione "oggettiva e misurabile", ignorando a priori qualsiasi argomento in senso contrario. Del resto, gli atti di fede si recitano come una messa cantata. 
Intanto, all'estero - preferibilmente fuori d'Europa - si moltiplicano le voci che criticano sempre più aspramente testing, accountability e valutazioni quantitative. Fra gli ultimi contributi, segnalo il recente articolo di John Ewing, "Mathematical Intimidation: Driven by the Data": http://www.ams.org/notices/201105/rtx110500667p.pdf


********************************************************************

Ho sotto gli occhi un quiz volto ad addestrare gli studenti all'analisi dei testi letterari a scuola. È un esempio tra i tantissimi, rappresentativo di una tendenza generale. Si elencano cinque verbi che indicherebbero tutti un "modo di ridere", ovvero un unico stato psicologico che si differenzia soltanto per intensità: 1. Sbellicarsi dalle risate; 2. Sorridere; 3. Ridacchiare; 4. Ridere; 5. Sghignazzare. Si chiede di metterli in "ordine crescente di intensità". La risposta è: 2, 3, 4, 5, 1. In tal modo l'alunno acquisirebbe la "competenza" di distinguere le "sfumature di significato".
Il dramma è che esista la necessità di spiegare perché sia profondamente idiota ritenere che queste cinque manifestazioni siano differenziazioni di intensità di un unico stato psicologico. Chi ha proposto questo quiz evidentemente non ha mai sentito parlare di un "sorriso amaro", di un "sorriso di simpatia", di un "sorriso ironico", e anche di un "triste sorriso". Nessuna relazione necessaria col ridere che, a sua volta, può esprimere tante cose: allegria conviviale, una reazione al comico ma anche sarcasmo, derisione. E se forse quest'ultimo atteggiamento ha qualcosa a che fare con lo sghignazzare, anche lo sghignazzare ricopre una gran varietà di atteggiamenti specifici. Forse soltanto lo sbellicarsi dalle risate può essere considerato un'intensificazione del ridere; non certamente il ridere un'intensificazione del ridacchiare.
Fermiamoci qui per chiederci quali giovani s'intende formare con un simile avvilente appiattimento della ricchezza del linguaggio che trasforma l'interpretazione dei testi nella compilazione di ordinamenti numerici che in me, matematico, suscita un moto di antipatia per l'aritmetica. La risposta è: macchine rincretinite. E si noti che l'esempio proposto non è isolato, bensì tipico.
Nei test Invalsi proposti ai licei si proponeva un brano di un racconto di Rigoni Stern, in cui una ragazza cadeva sugli sci davanti a un soldato, che la risollevava e poi le chiedeva scusa mentre lei riprendeva la discesa «indispettita e crucciata», come dirà dopo, «arrabbiata per quella stupida caduta». Perché – chiede il quiz – la ragazza se ne va senza dire grazie? Mettere la crocetta su una di queste risposte: A. È seccata dall'invadenza del militare; B. Si vergogna del proprio aspetto; C. È irritata con se stessa per essere caduta; D. Si è fatta male cadendo. Mettiamo la crocetta su C? E perché non anche su A, e non anche un poco su B? Perché il suo stato psicologico non può essere visto come una miscela dei tre e anche di qualcos'altro? Quale competenza misura un test del genere a risposta chiusa? Nessuna. Chi ha risposto in maniera "esatta" può essere un perfetto imbecille mentre chi non trova una sola risposta può essere la persona più capace di cogliere la ricchezza e l'ambiguità dell'analisi psicologica proposta da un testo letterario di autentico valore.
Del resto, quando l'uso dei test travalica la verifica di semplici capacità minimali – ortografia, regole grammaticali di base, capacità di far di conto – è inevitabile che si cada in queste miserie.
Risalta in modo evidente come, nel discorso programmatico del presidente del Consiglio, mentre anche sulle scelte più rilevanti in materia economica si sia mantenuta una notevole dose di ambiguità e di approssimazione, su un punto soltanto è stato fornito un riferimento preciso: sull'uso dei test Invalsi per «identificare i fabbisogni» scolastici, identificare le «aree in ritardo» (rispetto a che?), al fine generale di accrescere «i livelli d'istruzione della forza lavoro» e per «valorizzare il capitale umano». Non si dica poi che il sospetto di tecnocrazia è malizioso. Per una scuola che sta perdendo l'anima – declinando sempre più verso lo stato di carrozzone tormentato dal dirigismo burocratico in cui le ultime preoccupazioni sono la cultura, i contenuti, la dignità dell'insegnante e la formazione di soggetti consapevoli e motivati – non si trova di meglio che parlare di "test", nella cornice di un linguaggio economicista, a base di "capitale umano", "forza lavoro", "fabbisogni" e "aree in ritardo"? Invece di capire che quello di cui ha bisogno l'istruzione è soprattutto di motivazioni profonde e di restituzione del "senso" della propria missione? Davvero malinconico.

(Il Giornale, 21 novembre 2011)

lunedì 21 novembre 2011

AGENDA PER L'ISTRUZIONE


La politica dell'istruzione in Italia si caratterizza per l'incoerenza tra fini dichiarati e perseguiti. Da decenni si parla di promuovere l'autonomia di scuole e università; l'esito è un dirigismo di rigidità mai vista. "Autonomia" dovrebbe significare lo spostamento delle verifiche da monte a valle: fate le vostre scelte liberamente, assumete chi volete (lo si propone anche per le scuole) e sarete valutati in base ai risultati. Ma le scuole e gli insegnanti sono sommersi da una valanga crescente di adempimenti e controlli preventivi, di prescrizioni tendenti a trasformarli in meri esecutori. Paradossalmente, anche i meccanismi di valutazione man mano introdotti non sono tesi a verificare a posteriori, ma a prescrivere a priori. Ad esempio, la tendenza a sostituire le prove d'esame con test preparati dall'Invalsi non è innocua: l'Istituto di valutazione del sistema dell'istruzione travalica la sua funzione di valutazione di sistema surrogando la funzione dell'insegnante nella valutazione degli allievi, con la conseguenza grave di trasformare la didattica in addestramento a superare i test e di "valorizzare" gli insegnanti peggiori.
Una situazione analoga si verifica per l'università. La nuova legge di riforma doveva rafforzare l'autonomia e la nuova Agenzia per la valutazione (Anvur) doveva valutare le scelte in base ai risultati. I tanti emendamenti hanno dato un carattere dirigista alla legge e l'Anvur ha dettato prescrizioni talmente stringenti per le modalità di valutazione dei nuovi docenti da ridurre la selezione a un procedimento meccanico, con l'effetto di creare un malessere profondo nella comunità universitaria. 
Si potrebbe continuare con gli esempi ma il problema è lo stesso: il dirigismo; nel migliore dei casi per l'intenzione di conferire "oggettività" alle procedure, nel peggiore per la tendenza a controllare tutto di un'amministrazione poco avvezza ai principi di uno stato liberale. È sbagliato credere che l'oggettività si raggiunga moltiplicando le regole, per il banale motivo che queste regole deve farle qualcuno che agisce in modo inevitabilmente soggettivo, né esistono sistemi "scientifici" atti a sopprimere la soggettività del giudizio.
Un esempio può illustrare meglio la questione. Conversando con un "tecnico" proponevo il sistema delle ispezioni interne come il migliore per valutare gli istituti d'istruzione (a tutti i livelli). Questi rispose: «Certo, ma i valutatori debbono avere un patentino». Bene. Chi conferirà il patentino? Qualcuno dotato di un patentino. Poiché la regressione all'infinito è impossibile, è chiaro che il patentino lo darà l'amministrazione: quanto questo sia oggettivo giudichi il lettore. Va ancora peggio se si partoriscono escogitazioni strampalate, come quella di far nominare i valutatori da enti esterni, come i dipartimenti di psicologia dell'università.
Ho avuto la diretta esperienza di come il dirigismo concepisca l'autonomia a rovescio, nel partecipare alla redazione delle nuove Indicazioni nazionali per i licei. Il testo fu accusato di essere troppo prescrittivo sui contenuti e troppo poco sui metodi. Proprio qui sta l'errore. Autonomia non significa lasciar libero il docente di non insegnare conoscenze imprescindibili e invece imporgli il metodo d'insegnamento. È esattamente il contrario, se non si vuole trasformarlo in passacarte, e i passacarte sono sempre i peggiori elementi. Ma la tentazione è sempre in agguato, come si vede nei progetti di editoria digitale che prevedono l'introduzione dei videogiochi a scuola, o nella tendenza a imporre in modo coattivo all'insegnante l'uso di tecnologie informatiche.
Valutazione a posteriori, quindi, ma essendo consapevoli che non esistono regole meccaniche per eseguirla.  Quando un ricercatore presenta un articolo a una rivista non viene giudicato da colleghi col "patentino" o con regole automatiche, bensì da "pari" che giudicano il contenuto, e possono sbagliare. Anzi, l'esperienza dice che il confronto che così nasce è fonte di miglioramento per tutti. Quindi, valutazione come processo interno al sistema, come processo di crescita scientifico-culturale. Nella ricerca si tratta di valutare nel merito la produzione scientifica, per la didattica è auspicabile operare con commissioni di ispezione composte da "pari". L'opinabilità e le contestazioni vi saranno comunque: sono di gran lunga preferibili quelle che fanno crescere nel confronto.
Sarebbe auspicabile che l'agenda del nuovo ministro fosse ispirata al principio di combattere il dirigismo a tutti i livelli, restituendo respiro e autonomia al sistema, costruendo processi di valutazione che valorizzino il merito costruito su autentici contenuti culturali, anziché sull'ossequio di regole amministrative.
Questo porta a una riflessione generale. È noto che quel che più rende difficile uscire dalla crisi è l'aver costruito, a livello europeo, un sistema che non ha vitalità perché ha messo il carro dell'economia davanti ai buoi della politica e della cultura; col risultato che la seconda non è pensata come l'interazione e, in prospettiva, la sintesi di grandi culture nazionali che, anche attraverso la scienza, hanno posto i fondamenti della società moderna. Le questioni culturali e dell'istruzione sono in mani amministrative, ridotte a problemi di facilitazione dello scambio di forza-lavoro e a liste burocratiche di "competenze". Se non si riuscirà a ridare slancio al sistema dell'istruzione e della ricerca, a restituire dignità alla funzione dell'insegnante ed entusiasmo ai giovani – e l'unica via a tal fine è valorizzare il processo della conoscenza, fare dell'istruzione un luogo in cui ha senso quel che si fa e non una macchina burocratico-amministrativa fondata sulla moltiplicazione delle regole, quella che il grande matematico italiano Bruno de Finetti chiamava "il culto dell'imbecillità" – i proclami contro il declino saranno vuote grida manzoniane.
(Il Messaggero, 18 novembre 2011)

martedì 15 novembre 2011

UN DIBATTITO SULLE COMPETENZE

Nel Giugno 2011, su richiesta della rivista Scuola Democratica ho pubblicato un intervento sul tema delle competenze a scuola, che si accompagnava a un analogo intervento della prof. Anna Maria Ajello, di diverso tenore dal mio. Si trattava quindi di un confronto tra due opinioni diverse su un tema molto caldo e controverso come quello delle competenze a scuola.
Tuttavia, il direttore Luciano Benadusi ha ritenuto di far seguire al confronto un intervento intitolato "Osservazioni conclusive" che era in buona sostanza un duro attacco al mio contributo.
Ho fatto rilevare che tale modo di procedere era improprio, in quanto i dibattiti si lasciano aperti e nessuno ha il potere di "chiuderli" o "concluderli", dando, per così dire "la linea".
Il direttore ha convenuto che tale decisione era stata inopportuna e quindi mi ha concesso lo spazio per una controreplica di pari lunghezza.
Questa controreplica è stata pubblicata nel numero di Novembre 2011.
Metto a disposizione l'intero dossier che, essendo alquanto lungo, è raccolto in un documento pdf scaricabile  dal sito dei miei articoli, cliccando sul titolo di questo post o all'indirizzo
https://sites.google.com/site/gisrarticles/altro 
(documento dal titolo "Un dibattito sulle competenze").

giovedì 10 novembre 2011

Lo stregone scientifico


Per più di due secoli colui che è considerato come il più grande scienziato di tutti i tempi – “Qui genus humanum ingenio superavit”, come sta scritto alla base della sua statua nella cappella del Trinity College di Cambridge – è stato presentato come l’emblema del razionalismo, il simbolo vivente dell’ideale della scienza: ascoltare soltanto la fredda voce della ragione, attenersi ai fatti, all’empiria, agli esperimenti. Newton è stato, ed è, eretto come un baluardo in difesa dalle insidie dell’irrazionalismo. Eppure, quell’immagine è una costruzione falsa, com’è stato dimostrato ripetutamente, da ultimo nella recente biografia romanzata di Jean-Pierre Luminet, “La parrucca di Newton” (Edizioni La Lepre, 2011) dal significativo sottotitolo “Scienziato, alchimista o psicopatico?”.
L’occultamento plurisecolare iniziò alla morte di Newton, nel 1727, e fu l’inizio di un giallo che dura ancor oggi. Newton, poco prima di morire, aveva bruciato gran parte dei suoi manoscritti, ma non aveva toccato un baule strapieno di carte che aveva portato con sé da Cambridge quando, ormai celebre per le straordinarie scoperte sulla gravitazione universale e sull’ottica, si era trasferito a Londra per assumere incarichi pubblici, tra cui la direzione della zecca londinese. La famiglia offrì tutte le carte alla Royal Society, di cui Newton era stato presidente. Ma la celebre accademia delle scienze britannica restituì alla famiglia i manoscritti non scientifici con la raccomandazione di non farli vedere a nessuno. Il baule fu aperto dal curatore dell’Opera omnia di Newton, il vescovo Samuel Horsley che, inorridito, richiuse con violenza il coperchio. Da quel momento del baule non si seppe più nulla. Passò da una mano all’altra dei discendenti della nipote di Newton, Catherine Barton. Essi riuscirono a far accettare i manoscritti matematici dalla biblioteca universitaria di Cambridge. Il resto emerse di colpo nel 1936: l’ultimo discendente, Lord Lymington, lo mise all’asta presso Sotheby di Londra. Il grande economista John Maynard Keynes riuscì a comprarne quasi la metà, mentre il resto fu acquisito da privati e seguì percorsi oscuri. A quanto pare, alcune parti furono offerte senza successo alle università di Cambridge, Harvard, Yale e Princeton e al British Museum. Uno degli acquirenti, il linguista e collezionista Abraham Yahuda, donò tutte le carte in suo possesso allo Stato di Israele nel 1939, ma soltanto nel 1951 esse furono collocate nella University Library di Gerusalemme. Del resto non si sa niente, e comunque gran parte è ancora non pubblicata.
Cosa c’era di tanto scandaloso in quel baule da provocare un giallo che dura ancor oggi? Cominciamo col fornire una stima (ovviamente approssimativa) della ripartizione in parole degli argomenti dei manoscritti di Newton: quasi un milione e mezzo di parole di teologia e cronologia sacra, più di mezzo milione di alchimia, 150.000 di questioni monetarie, un milione di temi propriamente scientifici e mezzo milione di questioni diverse. Ed ecco un primo elemento di “scandalo”: la parte dedicata alla teologia e all’alchimia è il doppio di quella dedicata alla matematica e alla fisica. Né si trattava di testi scritti in tarda età, dovuti a un degrado mentale senile, come si tentò di insinuare. Era il frutto di riflessioni giovanili o mature, appartenenti al periodo più fertile di Newton sul piano scientifico. Ma v’è ben altro e il primo a svelarlo fu Keynes, anche se dopo la sua morte. Difatti, la Royal Society aveva programmato per il 1942 le celebrazioni per il tricentenario della nascita di Newton, prevedendo una conferenza di Keynes. Tutto fu sospeso per la guerra. Le celebrazioni furono rinviate al luglio 1946, ma in aprile Keynes morì. Il testo della sua conferenza fu letto dal fratello Geoffrey.
Keynes smantellava senza pietà l’immagine convenzionale del grande scienziato. Secondo la visione dell’uomo ricavata dalla lettura dei manoscritti acquistati, Newton «non era stato il primo dei razionalisti», bensì «l’ultimo dei maghi, l’ultimo dei Babilonesi e dei Sumeri, l’ultima delle grandi menti che abbia portato sul mondo visibile e intellettuale lo sguardo di coloro che, quasi duemila anni fa, inaugurarono la costruzione della nostra eredità intellettuale». Newton empirista, secondo un cliché positivista? Certo, osservava Keynes, «nulla è più commovente del racconto delle invenzioni meccaniche di Newton bambino». Egli diede mostra di capacità tecniche eccezionali, ma non fu questo «il dono particolare che lo distinse». Questo dono era «la capacità di mantenere la mente fissa su un problema puramente intellettuale, fino a svelarne il mistero», era una capacità di concentrazione mentale che poteva durare settimane e anche mesi ed era soprattutto rivolta a questioni di scienza pura, di filosofia e di teologia. Perché Newton era un mago? Perché guardava all’universo come «un enigma, un mistero che poteva essere decifrato applicando il pensiero puro a certi indici mistici disposti da Dio nel mondo», come un «crittogramma disposto dall’Onnipotente». Per risolvere il crittogramma occorreva ricercare quegli indici, col pensiero puro e con la concentrazione intellettuale, nel mondo fisico, nel cielo, nella costituzione degli elementi materiali, ma anche nella teologia, nei documenti e nelle tradizioni tramesse attraverso una catena ininterrotta risalente fino al mitico Ermete Trismegisto e ai segreti della Bibbia. Perciò, nel pensiero di Newton tutto si teneva: matematica, fisica, alchimia, teologia. La ricerca dei segreti della gravitazione universale si accompagnava al tentativo di scoprire i segreti dell’universo attraverso il calcolo delle proporzioni del Tempio di Salomone, lo studio del Libro di David e della storia della Chiesa. Gli esperimenti alchimistici, che gli fecero perdere i capelli e gli provocarono crisi nervose per un’intossicazione da mercurio, erano volti a scoprire i segreti della materia.  L’amputazione di questa parte del suo pensiero e delle sue attività è stata una contraffazione clamorosa. È stata inventata una figura mai esistita.
V’è un altro aspetto che riguarda direttamente la visione teologica di Newton e che costituisce la spiegazione più plausibile dell’orrore con cui il vescovo Horsley chiuse il baule. Newton nascondeva un tremendo segreto: egli anti-trinitario. Il baule era pieno di libelli in cui, sulla base dell’interpretazione dei testi della tradizione, si confutava la dottrina della Trinità come una falsificazione tardiva compiuta dalla Chiesa e, in particolare, da Sant’Anastasio. Per Newton, Dio era assolutamente unico e indivisibile. Ma dichiararsi anti-trinitario nell’Inghilterra dell’epoca era molto pericoloso: sarebbe costato la cattedra universitaria, e Newton non era un cuor di leone. Al contrario – come descrive il romanzo di Luminet – egli era un nevrotico introverso, tendente alla malinconia, all’agitazione nervosa, diffidente nei confronti di chiunque. Non ebbe mai un rapporto con una donna e, a quanto pare, morì vergine. Non tollerava la sola idea che i suoi scritti scientifici fossero giudicati e criticati: con le odierne procedure di valutazione non avrebbe fatto un passo nella carriera scientifica… Pur di non sottostare al giudizio altrui rinviava la pubblicazione delle sue scoperte. Pubblicò in gran ritardo le sue teorie sul calcolo infinitesimale e questo gli costò l’ingiusta accusa di essere secondo a Leibniz in materia. Nacque una contesa di priorità interminabile, che coinvolse le due scuole e continuò dopo la morte dei protagonisti, degenerando nella rissa più volgare e in una contrapposizione tra continente e isola. Nel 1715, Leibniz lanciò agli inglesi una sfida su un problema matematico su cui si avanzava a fatica da vent’anni. Newton, infuriato, tornò a casa dopo una giornata di lavoro alla zecca, si mise al lavoro e diede prova del suo genio intatto malgrado l’età, risolvendo il problema in poche ore. Ma erano vicende che potevano solo peggiorare le sue tendenze ipocondriache e schive.
Per caratterizzare il pensiero teologico di Newton, Keynes fece ricorso a questa formula: «un monoteista giudaico della scuola di Maimonide». È una definizione che non convince, per il riferimento a Maimonide che, nella tradizione della filosofia medioevale, rappresenta un punto di vista radicalmente razionalista e duramente ostile alle correnti mistiche ed esoteriche dell’ebraismo. Del resto, la nascita del pensiero kabbalistico fu contrassegnata da violenti attacchi a Maimonide che giunsero fino a bruciarne i libri nelle piazze. L’origine delle tesi teologiche e filosofico-scientifiche di Newton è legata proprio all’influsso del misticismo kabbalistico. Questo è stato dimostrato in modo puntuale dallo studioso americano Brian Copenhaver che ha mostrato come il pensiero kabbalistico giunga fino a Newton attraverso una catena che da Pico della Mirandola e Johannes Reuchlin passa per due personaggi che influenzarono moltissimo Newton e gli suggerirono la sua concezione dello spazio: il filosofo Henry More e il matematico Joseph Raphson.
Le correnti del misticismo religioso avevano contribuito in modo decisivo alla rottura compiuta dal pensiero rinascimentale nei confronti della lunghissima tradizione ispirata al pensiero di Aristotele, la quale indentificava lo spazio con l’insieme dei corpi materiali, rigettando l’idea del vuoto e del nulla. La tradizione aristotelica era talmente influente che continuò ad essere accettata anche da protagonisti della rivoluzione scientifica come Cartesio e Leibniz. Newton fu il primo a sostenere, invece, che lo spazio è un contenitore infinito e vuoto in cui “galleggia” la materia. Ecco come descrisse questa idea il newtoniano John Keill: «Noi concepiamo lo Spazio come ciò in cui tutti i corpi sono posti, che è completamente penetrabile, che riceve in sé tutti i corpi e non rifiuta l’ingresso a nulla; che è immobilmente fisso, incapace di alcuna azione, forma o qualità; le cui parti è impossibile separare l’una dall’altra, mediante qualsiasi forza per quanto grande; [che] restando immobile, riceve le successioni delle cose in moto, determina le velocità dei loro moti e misura le distanze delle cose stesse.
  Si tratta di una concezione che non ha alcuna giustificazione empirica e anzi pone problemi molto seri proprio sul piano della “razionalità” scientifica. Essa ha un’origine teologica e filosofica come spiegò Newton stesso: «Nessun ente esiste o può esistere, se non si riferisca in qualche modo allo spazio: Dio è ovunque, le menti create sono in qualche luogo, e il corpo è nello spazio che riempie: ciò che non è ovunque, né in alcun luogo, non è. Onde lo spazio è effetto emanativo dell’Ente primo, poiché posto un qualsiasi ente, si pone lo spazio. La durata si può definire in modo analogo: entrambi infatti sono affezioni o attributi dell’Ente in base a cui si definisce la quantità di esistenza di ciascun individuo quanto all’ampiezza della sua presenza e della sua perseveranza nell’essere. Così la quantità di esistenza di Dio è eterna quanto alla durata, infinita quanto allo spazio in cui è presente: e la quantità di esistenza di una cosa creata coincide, quanto alla durata, con la sua durata da quando cominciò a esistere, e quanto all’ampiezza della sua presenza, con lo spazio in cui è presente».
Lo spazio è il “sensorium Dei”, per dirla con le parole di Newton. E non si tratta di una definizione contenuta nei manoscritti del baule bensì nel celebre trattato sull’“Ottica”: «Dio, Essere incorporeo, vivente, intelligente, onnipresente, il quale nello spazio infinito, come Suo sensorio, vede intimamente le cose stesse, e le percepisce completamente, e le capisce interamente in virtù della loro presenza immediata a Lui stesso…». Come ha mostrato Copenhaver, questa concezione deriva dalla filosofia di More e le sue radici kabbalistiche sono confermate dall’uso che Newton fece alla parola ebraica “maqom” (luogo, posto, collocazione) da lui indicata come la più adatta a descrivere l’idea, che risale a una lunga tradizione ebraica ripresa dai kabbalisti, secondo cui Dio onnipresente è il luogo (maqom) del mondo.
Quindi, per Newton, lo spazio o “sensorio” divino non è l’insieme dei corpi materiali, ma un contenitore vuoto e infinito entro cui si colloca e vive la materia finita. La concezione tipica del meccanicismo, secondo cui lo spazio infinito s’identifica con la materia infinita è inaccettabile per Newton. Essa conduce inevitabilmente all’ateismo. Non vi è più spazio per Dio e per la sua attività creativa in un mondo identificato con una materia infinita e quindi necessaria. Le violentissime polemiche che opposero i seguaci di Newton (come Samuel Clarke) ai cartesiani e ai leibniziani si concentravano sul tema della presenza divina nel mondo. Per i primi, Dio, dopo aver creato la macchina del mondo, come un grande e perfetto orologio, se n’era ritirato, lasciandola al suo funzionamento automatico. Per Newton e per i newtoniani, Dio è sempre presente e opera instancabilmente per correggere le perturbazioni del sistema del mondo, tutt’altro che perfetto, e che, in assenza di interventi correttivi, collasserebbe. Al “Dio fannullone” dei meccanicisti, Newton contrapponeva il “Divino Operaio”.
Tuttavia, il meccanicismo aveva un indiscutibile punto di forza. Esso forniva una spiegazione chiara del moto dei corpi: essi sono tutti provocati dall’azione diretta di altri corpi. Nella meccanica aristotelica e tolemaica, come in quella cartesiana, i moti dei corpi terrestri sono provocati da azioni di contatto; mentre i corpi celesti sono trasportati da sfere di materiale incorruttibile (la “quintessenza”), per le prime, e per Cartesio si muovono trasportati da vortici. La causa del moto è assolutamente trasparente: nessun corpo si muove se non per l’azione diretta di un altro corpo, per trasporto o per contatto. Non v’è posto per influssi occulti e misteriosi. Invece, la meccanica di Newton spiegava il moto dei corpi celesti mediante una forza, l’interazione gravitazionale, che agisce nel vuoto… Come diamine può esercitarsi l’azione di un corpo su un altro nel vuoto? Newton era riuscito a descrivere il moto del sistema dei corpi celesti e terrestri con una precisione e un’efficacia mai raggiunta, ma aveva introdotto un’azione nel vuoto che non appariva coerente con una spiegazione razionale. Non a caso, malgrado i suoi successi, la meccanica newtoniana non fu insegnata in gran parte d’Europa per tutto il Settecento: le fu preferita la meccanica cartesiana, malgrado fosse sballata da cima a fondo. E questo perché la meccanica newtoniana era accusata di reintrodurre le proprietà occulte, misteriose, magiche.
Newton questo lo sapeva bene. Per la sua mente implacabilmente volta alla spiegazione di ogni enigma l’obiezione era insopportabile e la difficoltà di scioglierla fu forse il più grande dramma della sua vita.
L’interpretazione positivistica di Newton si è sempre appigliata al suo celebre motto, “Hypotheses non fingo”, tradotto con “Non faccio ipotesi”, ovvero mi attengo scrupolosamente ai fatti. Ed è vero che Newton definisce “ipotesi” tutto ciò che non si ricava dai fatti. Ma egli aggiunge che le ipotesi possono essere “metafisiche o fisiche, di qualità occulte o meccaniche”. Del resto, lo sappiamo, per Newton i fatti non sono soltanto materiali. Sono fatti anche le rigorose deduzioni mentali e le verità trasmesse dalle Sacre Scritture. Come ha magistralmente spiegato lo storico della scienza Alexandre Koyré siamo davanti al tipico caso di “traduttore traditore”. Il motto di Newton va piuttosto tradotto: “Non fingo ipotesi”, non costruisco ipotesi senza fondamento, finzioni ad hoc pur di giustificare qualcosa in cui credo indipendentemente dai fatti. In effetti, Newton di ipotesi, in senso lato, ne ha fatte eccome: la più pesante di tutte è proprio l’esistenza di questa strana forza, la gravità, che non è un’entità fisica tangibile e che, agendo misteriosamente nel vuoto, tiene in piedi l’intera architettura dell’universo. Ma per Newton l’attrazione gravitazionale non è un’ipotesi ad hoc, bensì un’evidenza, qualcosa che s’impone in modo naturale alla ragione e che concorda con i fatti noti. Eppure egli sa che una difficoltà esiste… Difatti, l’enunciato del celebre motto viene al termine del suo più grande trattato, i “Philosophiae Naturalis Principia Mathematica”, in questi termini: «Finora abbiamo spiegato i fenomeni del cielo e del nostro mare per mezzo della forza di gravità, ma non abbiamo ancora specificato la causa di questa forza […] finora non sono ancora riuscito a scoprire, a partire dai fenomeni, la causa di quelle proprietà della gravità, e io “hypotheses non fingo”…». Il rovello è evidente, come risulta chiaramente dal modo in cui egli ammette la difficoltà, con spietata onestà intellettuale, in una lettera al teologo Richard Bentley:
«È inconcepibile che materia bruta inanimata, senza la mediazione di qualcos’altro che non sia materiale, operi e produca effetti su altra materia, senza che vi sia reciproco contatto […] Questa è la ragione per cui desideravo che non mi attribuiste l’idea di una gravità innata. Che la gravità debba essere innata, inerente ed essenziale alla materia, così che un corpo possa agire su un altro a distanza attraverso un vacuum, senza la mediazione di nessun’altra cosa, dalla quale e attraverso la quale le loro azioni e la loro forza possano essere comunicate dall’uno all’altro, è per me un’assurdità così grande che credo che una simile idea non possa venire a nessun uomo che abbia in campo filosofico una sufficiente facoltà di pensare. La gravità deve essere prodotta da un agente che agisca costantemente secondo certe leggi; ma se questo agente sia materiale o immateriale, lo lascio giudicare ai miei lettori».
Di certo, Newton non poteva accontentarsi di lasciar giudicare ai suoi lettori una questione tanto cruciale, la questione delle questioni. Dalle sue parole si evince chiaramente quale fosse la via da seguire per dirimere la terribile questione: ricercare l’agente materiale o immateriale entro segreti non svelati della materia, oppure nell’azione divina. Alchimia e teologia. In un’altra lettera a Bentley, Newton dichiara la sua propensione: «mi sento costretto ad attribuire la struttura del Sistema a un agente intelligente». Ma era soltanto un’ipotesi.
In più di un ritratto Newton appare con un volto severo e tormentato, con gli occhi persi verso un oggetto lontano e inutilmente inseguito. Molti sono i segreti che Newton portò nella tomba, soprattutto quelli racchiusi nel baule. Forse il più grande di tutti fu il tormento di non essere riuscito, neppure con le capacità quasi soprannaturali della sua mente, a sciogliere fino in fondo il segreto dell’universo.
(Il Foglio, 5 novembe 2011)