Serve un bel po' di ottimismo per sperare... ma...
«la speranza è il più potente e il più elementare germe che si possa deporre nell'animo dell'uomo» (Filone Alessandrino)
«Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante Alighieri)
Pagine
▼
sabato 31 dicembre 2011
mercoledì 28 dicembre 2011
Sperperi europei
Chi può contestare l'opportunità di tagliare le spese della politica italiana? È un'esigenza talmente nota, discussa e condivisa che appare superfluo aggiungere una sola parola per difenderla. Ma perché non si parla mai delle spese folli e degli sperperi della immensa baracca buro-tecnocratica dell'Unione Europea? Alla fin fine, si tratta di costi che gravano sui bilanci dei singoli stati e non sono sostenuti da un intervento divino.
Una sommaria passeggiata sul portale dell'UE è sufficiente a provocare il capogiro: un numero incredibile di istituzioni, uffici e agenzie. Le sole agenzie settoriali sono 24, dall'agenzia per il controllo della pesca a quella per l'uguaglianza di genere, dall'ufficio delle varietà vegetali a quello per i diritti fondamentali. Chi voglia compilare il Curriculum in formato europeo rischia di perdere la testa tra le tante opzioni di Europass e può dilettarsi con le schede di autovalutazione. È facile immaginare quale impiego di personale abbia comportato mettere in piedi questo barocco marchingegno. Si può anche scoprire che accanto al più noto programma Erasmus di istruzione e formazione ve ne sono molti altri: Leonardo da Vinci, Comenius, Grundtvig, Jean Monnet, Tempus, Erasmus Mundus. Molte notizie si possono trovare anche sull'"Official Journal of the European Union", il quale - si badi bene – è redatto in 22 lingue.
Già, perché il problema delle lingue è uno dei più onerosi dell'UE. Gli ingenui immaginavano che si sarebbe progressivamente andati verso la prevalenza delle lingue principali, senza fare tante assurde ipocrisie: mettere tutte le lingue sullo stesso piano non è una cosa seria e sarebbe stato ragionevole chiedere che i cittadini europei, nel corso dei decenni, si sottoponessero allo sforzo di riferirsi ad alcune delle lingue più importanti. Ma l'UE è il regno del politicamente corretto e tutto va messo sullo stesso piano: casomai è da attendersi che alle lingue ufficiali se ne aggiungano altre, come il catalano e il basco, per poi aprire la strada ai dialetti. Poiché le lingue sono quasi quante sono i paesi aderenti, un semplice conto mostra che sono necessari quasi 350 traduttori, uno per ogni coppia del tipo "polacco-spagnolo", "portoghese-lituano", "italiano-ungherese", "olandese-greco", "romeno-francese", ecc. Ma di traduttori ne servono alcuni multipli di 350, se non altro per diversità di mansioni e turni di lavoro. Di qui un capitolo di spesa folle e lautamente remunerato, come tutti gli stipendi e i contratti dell'Unione, che rappresentano una pacchia ambitissima per ogni comune mortale.
V'è poi il capitolo sprechi legato alla pesantezza delle procedure burocratiche. Chi ottenga un finanziamento europeo per la ricerca scientifica è meglio che vi rinunci se non ha uffici di supporto. Dovrà impiegare buona parte del tempo in adempimenti formali e in viaggi per rendicontare l'attività; il tutto secondo il principio delirante per cui invece di valutare l'esito finale dell'attività, la si controlla continuamente, col risultato che invece di far ricerca ci si occupa di farsi monitorare.
A ciò si aggiungano gli sprechi dovuti alle lotte indispensabili contro le scelte demenziali e i soprusi dell'eurocrazia, dal tentativo di vietare la pizza a legna, di equiparare il parmigiano al "parmesan", alla chiusura delle malghe montane per assenza di piastrelle di dimensione prestabilita, alla politiche agricole che hanno massacrato l'ambiente agricolo del continente.
Soltanto gli imbecilli possono considerare che sia euroscetticismo chiedere un robusto ridimensionamento di questo apparato di stile sovietico: i nemici dell'Europa sono a Bruxelles.(Tempi, 30 dicembre 2011)
giovedì 22 dicembre 2011
AGENDA PER L'ISTRUZIONE
Cosa può fare il governo Monti in tema di politica dell'istruzione entro l'orizzonte di un anno e mezzo? In sintesi: chiudere i dossier aperti più urgenti e adottare sulle questioni più delicate una linea mediana e prudente.
Tra i dossier aperti il primo della lista è lo sblocco della formazione dei nuovi insegnanti. Nonostante da tre anni sia pronto un nuovo regolamento per la formazione tutto è fermo da allora. È un'interruzione inconcepibile per un paese avanzato, che riduce l'appello quotidiano "apriamo le porte ai giovani" a un insopportabile esercizio di retorica. Il pretesto principale per la paralisi è la richiesta di vincolare la formazione al reclutamento. Da questo punto di vista, va salutato con molto favore il proponimento espresso dal ministro Profumo di riavviare i concorsi per le scuole di ogni ordine e grado. Questa può essere la via per tagliare il nodo gordiano. Tanto più occorre evitare a tutti i costi che i ritardi del ministero blocchino il nuovo processo di formazione per un quarto anno, anche perché si rischierebbe di creare materia di contenzioso sui concorsi.
Un altro dossier importante è quello della riforma universitaria. È urgente avviare un meccanismo di reclutamento che fronteggi le massicce ondate di pensionamenti. La riforma universitaria, per diventare operativa, richiede molti decreti attuativi e, in particolare, la definizione dei criteri di valutazione per l'abilitazione scientifica nazionale. È noto che l'Anvur (Agenzia di valutazione dell'università e della ricerca) e il Cun (Consiglio Universitario Nazionale) hanno espresso in materia opinioni divergenti. In attesa di conoscere la scelta finale è opportuno ricordare che il principio ispiratore della riforma che più ha ottenuto consensi era ispirato a un'idea liberale: le valutazioni si fanno a valle e non a monte. In parole povere: le università assumano autonomamente nuovi docenti e poi si valuterà la bontà delle scelte fatte, premiando e penalizzando di conseguenza. Purtroppo si è fatta avanti la solita tendenza alla regolamentazione burocratica basata su una rete di norme stabilite a priori (e basate su rigidi e discutibili parametri bibliometrici) che trasformerebbero le commissioni in meri organi esecutivi, diciamo pure in passacarte. È da augurarsi che la versione finale del regolamento concorsuale ci riservi la gradita sorpresa di un approccio liberale e alieno da dirigismi.
La problematica della scuola è ancor più delicata e dovrebbe essere affrontata senza ideologismi. Le nuove Indicazioni Nazionali per i licei furono ispirate al principio di fissare le conoscenze imprescindibili lasciando la massima libertà metodologica. È il modo di concepire correttamente l'autonomia: il principio opposto – propugnato dal pedagogismo costruttivista – è invece il disinteresse per i contenuti e l'imposizione di rigide prescrizioni metodologiche, ovvero un'altra forma di dirigismo dissonante con i principi di una società liberale. Sarebbe auspicabile che la revisione delle Indicazioni nazionali per il primo ciclo (elementari e medie) seguisse la stessa impostazione non ideologica. Preoccupano invece, e non poco, le nuove linee guida per gli istituti tecnici e professionali che hanno un ruolo strategico nel rapporto tra il mondo della scuola e il mondo della produzione. Difatti, esse sono state costruite pesantemente sulle idee postmarxiste di Edgar Morin circa la mente umana "ologrammatica" e "sistemica"; da cui la dissoluzione delle ripartizioni disciplinari, che ha prodotto l'idea di accorpare scienze della terra, biologia, chimica e fisica nelle cosiddette "scienze integrate". Non è qui la sede per discutere le perplessità che in tanti abbiamo circa questa impostazione. Ma va detto che la scuola non può essere il continuo terreno di sperimentazione di teorie pedagogiche ispirate a ideologie universali. Ciò può essere gratificante per lo sperimentatore ma il terreno di sperimentazione rischia di esserne segnato per lungo tempo, come è avvenuto per certe scelte avventate compiute nella scuola primaria.
Infine anche qui vi è il capitolo valutazione. È nota la tendenza a un ruolo crescente dell'Invalsi (Istituto per la valutazione del sistema dell'istruzione). Ma occorre intendersi: l'Invalsi può valutare il sistema nel complesso, essere usato per valutare gli insegnanti, e addirittura per valutare gli studenti, sostituendosi agli insegnanti. Sarebbe auspicabile che il ministro proceda con i piedi di piombo per il secondo aspetto e si astenga assolutamente dal terzo. L'idea che la prova di terza media in matematica venga sostituita da un test Invalsi è raccapricciante. Raccontava un insegnante di aver sentito dire da un editore: «Stiamo "invalsando" tutti i nostri libri» (voce del verbo "invalsare"…). Per favore, ministro Profumo, difenda la cultura, la scienza, l'italiano e il buon senso. Evitiamo di sostituire l'insegnamento con l'addestramento ai test ("teaching to the test"), ascoltando le tante voci che si levano all'estero contro i pessimi esiti delle valutazioni automatiche. Evitiamo la solita commedia all'italiana di raccogliere i resti di quello che altrove viene scartato dopo averne sperimentato gli effetti dannosi.
Infine anche qui vi è il capitolo valutazione. È nota la tendenza a un ruolo crescente dell'Invalsi (Istituto per la valutazione del sistema dell'istruzione). Ma occorre intendersi: l'Invalsi può valutare il sistema nel complesso, essere usato per valutare gli insegnanti, e addirittura per valutare gli studenti, sostituendosi agli insegnanti. Sarebbe auspicabile che il ministro proceda con i piedi di piombo per il secondo aspetto e si astenga assolutamente dal terzo. L'idea che la prova di terza media in matematica venga sostituita da un test Invalsi è raccapricciante. Raccontava un insegnante di aver sentito dire da un editore: «Stiamo "invalsando" tutti i nostri libri» (voce del verbo "invalsare"…). Per favore, ministro Profumo, difenda la cultura, la scienza, l'italiano e il buon senso. Evitiamo di sostituire l'insegnamento con l'addestramento ai test ("teaching to the test"), ascoltando le tante voci che si levano all'estero contro i pessimi esiti delle valutazioni automatiche. Evitiamo la solita commedia all'italiana di raccogliere i resti di quello che altrove viene scartato dopo averne sperimentato gli effetti dannosi.
(Il Messaggero, 20 dicembre 2011)
martedì 20 dicembre 2011
lunedì 19 dicembre 2011
Valorizzare il merito, la "meritocrazia" lasciamola perdere
La tentazione del "governo dei saggi" è di antichissima data. Nella modernità essa è stata tradotta in programma concreto dall'Illuminismo e potrebbe essere riassunta con il motto del celebre marchese di Condorcet: «Ogni società che non è governata da filosofi è condannata a cadere nelle mani di ciarlatani». E qui "filosofo" è sinonimo di "sapiente". È fuor di dubbio che ciò che legittima il potere è soltanto la conoscenza, il sapere, la competenza (diremmo oggi). Il sapere è il solo strumento che può consentire di adattare le norme alle sinuosità e complessità del reale e quindi a realizzare una conciliazione tra le istanze particolari e l'oggettività delle leggi, ma soltanto in linea di tendenza. Una simile conciliazione non potrà mai essere concretamente realizzata in modo completo: soltanto l'onniscienza potrebbe consentirlo, e siccome l'onniscienza non è di questa terra, un governo di sapienti che ritenesse di possedere la verità sarebbe soltanto un governo di tiranni. Difatti, l'onniscienza si sostituirebbe alle leggi, le quali, per il fatto stesso di avere carattere generale non possono mai applicarsi in modo perfetto a tutte le situazioni particolari, mentre l'onniscienza sarebbe capace di farlo, per definizione. Ma – come ha osservato Alexandre Koyré – «una scienza siffatta non è cosa umana. Il politicós ideale dovrebbe essere un saggio: ancor di più, un dio. Se fosse un uomo, ovvero se un uomo si ponesse al disopra della legge, sarebbe assolutamente un tiranno».
Per questo la democrazia è – come fu detto da Churchill – la peggior forma di governo eccetto tutte le altre sperimentate finora. Quante volte ciascuno di noi, ascoltando dei commenti politici rozzi dettati da ignoranza, ha avuto la tentazione di pensare: «Ma perché mai un simile ignorantaccio dovrebbe avere a disposizione un voto al pari di altri più capaci di intendere»? Eppure da una simile tentazione le persone ragionevoli si ritraggono prontamente. Non è soltanto per lo spettacolo di tanti saggi la cui sapienza si mostra così poco saggia: si pensi ai tanti dotti di economia che dall'alto dei loro allori dispensano le ricette più banali, peggiori di quelle che avrebbe potuto escogitare la persona più incompetente nella dottrina economica. Se ne ritraggono per un motivo più profondo: la conoscenza deve avanzare in tutta la società e non essere il monopolio di un'aristocrazia di onniscienti, in quanto tali detentori ideali del potere. Per questo l'istruzione pubblica è così importante: è lo strumento che più di ogni altro fa progredire la democrazia.
Questo discorso non mira a dire che ogni governo dei "tecnici" o dei "competenti" è potenzialmente antidemocratico (anche a questo mira, s'intende), ma a un'osservazione più circoscritta. Nel documento di Comunione e Liberazione La crisi, sfida per un cambiamento ricorre un'espressione: «valorizzazione del merito». Ho riflettuto all'ambiguità profonda che è presente nel termine ricorrente "meritocrazia". Mi rendo conto di averlo utilizzato anch'io e voglio fare una promessa: non ne farò mai più uso e incito chiunque a fare altrettanto. Difatti, un conto è valorizzare il merito, cioè stimolare tutti a migliorare, a primeggiare, premiare chi fa meglio, anziché frustrarlo e umiliarlo appiattendolo sui nullafacenti. Altro conto è parlare di "meritocrazia", ovvero di governo di coloro che primeggiano. Le parole sono pietre e "meritocrazia" è una parola profondamente ambigua che, non a caso, piace ai tecnocrati. "Valorizzazione del merito" è una bella espressione, tanto lontana dall'egualitarismo di marca totalitaria, quanto aperta e inclusiva.
(Tempi, 21 dicembre 2011)
mercoledì 7 dicembre 2011
PROPOSTA PER LE NUOVE INDICAZIONI NAZIONALI PER LA MATEMATICA NELLE SCUOLE PRIMARIE
L'anno scorso facevo parte di una Commissione del Ministero per l'Istruzione incaricata di riscrivere le Indicazioni Nazionali per l'intero ciclo scolastico. Il lavoro fu fatto per quanto riguarda i Licei e, in effetti, ormai le nuove Indicazioni Nazionali per il Secondo Ciclo sono operative.
La Commissione passò quindi al lavoro relativo al Primo Ciclo e qui le cose iniziarono a impantanarsi. Era evidente che non esisteva la volontà di toccare né la legge Moratti né le Indicazioni di Fioroni. Quantomeno le resistenze erano evidenti e, di fatto, il lavoro della Commissione iniziò a impantanarsi nella richiesta di una consultazione di massa che praticamente avrebbe richiesto qualche anno. Alla nostra commissione si chiese di fare dell'ultimo anno delle Elementari il primo delle medie, del primo delle Medie l'ultimo delle Elementari e dell'ultimo delle Medie il primo dei Licei. Il suggerimento fu rigettato ed è probabile che questo abbia segnato definitivamente la sorte della commissione.
Per parte mia, completai la redazione della parte riguardante la Matematica per le Scuole Primarie, ma fu un lavoro inutile. La Commissione iniziò a essere convocata sempre più di rado, poi subentrò il processo di sgretolamento politico e non se ne fece più nulla.
Ho sempre tenuto per me la bozza - peraltro più che una bozza, un lavoro finito - senza farla conoscere all'esterno.
Vengo a sapere che proprio poco prima della caduta del governo precedente è stato costituito un Gruppo di lavoro "tecnico" - la tecnica è di moda, ormai... - incaricato di rivedere le Indicazioni Fioroni. Non ne sapevo nulla, nessuno mi ha mai detto nulla. Sospetto che tale revisione rispetterà il desiderio di non toccare l'impostazione di quelle Indicazioni o addirittura di rafforzarle in senso più marcatamente pedagogistico. Forse anche si mira - in conformità alle indicazioni della Fondazione Agnelli - a muovere verso una fusione della Scuola Media e della Scuola Elementare.
Non ho quindi più alcuna remora a far conoscere il lavoro che avevo fatto.
Forse può essere di qualche utilità, in particolare a chi insegna nella Scuola Primaria.
Cliccare sul titolo per leggere o scaricare (oppure cliccare sul link a fianco)
domenica 4 dicembre 2011
LEGGETE…. Soprattutto voi insegnanti, e in particolare professori di filosofia...
Non intendo commentare.
Qualsiasi persona ragionevole e rispettabile non può che avere un solo giudizio di questo "fumetto" pubblicato su Focus junior (n. 95).
È così che vogliamo educare i nostri ragazzi all'amore per la cultura, al rispetto per gli insegnanti, per la scuola? Avanti così. Come diceva Szent-Gyorgy, «il futuro sarà come sono le scuole oggi».
mercoledì 30 novembre 2011
Per favore, il premier ci risparmi almeno il tecno-trotzkismo
Si moltiplicano le voci che denunciano il vizio di fondo di una costruzione europea che ha messo il carro dell’economia davanti ai buoi della politica. Il che – ha osservato Angelo Panebianco – ha comportato una ferita della democrazia. Ma ora la crisi, invece di stimolare il risanamento di questa ferita – con la lunga e difficile opera di unire popoli, lingue e culture che non si conoscono e talora non si amano – rischia di provocare un ulteriore crollo della democrazia.
Sembra che il tandem franco-tedesco – incurante dell'opinione dei paria dell'Unione – punti a un'Europa a due cerchi, a una Schengen dell'euro: nel disco centrale i due paesi forti, Germania e Francia, fuori di esso chi non si adegua alle nuove regole imposte dal centro. Mentre il presidente francese Sarkozy preme drammaticamente sull’Italia, invitandola a sacrifici per entrare nel primo girone, forse temendo di restare solo con la Germania, si profila una sinistra prospettiva: un cambio della governance europea per vie che evitino la ratifica elettorale delle nazioni. Sarebbe gravissimo. L’Europa diverrebbe un protettorato gestito da due paranoie – il ricorrente delirio di potenza tedesco e l'incapacità francese di disfarsi del mito della "grandeur" – e da funzionari irresponsabili e prepotenti.
Si dice che il premier Monti voglia giocare il tutto per il tutto per agganciarsi alla locomotiva franco-tedesca, anche trasformando la manovra economica in una cura da cavallo. Si evoca la situazione del 1996, quando Prodi e Ciampi tentarono di convincere Aznar a un'adesione "morbida" all'euro e, di fronte al suo rifiuto, scelsero una manovra economica eroica. Forse fu una scelta giusta, ma non è detto: la questione è controversa. Ora il contesto complessivo è molto peggiore e occorrerebbe pensarci dieci volte prima di far scorrere lacrime e sangue, ridurre il paese allo stremo e trasformarlo in colonia, pur di agganciarsi a una locomotiva che oltretutto può andare a sbattere malamente.
Al riguardo fa riflettere un recente discorso di Monti in cui si diceva: «Non dobbiamo sorprenderci che l'Europa abbia bisogno di crisi, e di gravi crisi, per fare passi avanti.
I passi avanti dell'Europa sono per definizione cessioni di parti delle sovranità nazionali a un livello comunitario.
È chiaro che il potere politico, ma anche il senso di appartenenza dei cittadini a una collettività nazionale, possono essere pronti a queste cessioni solo quando il costo politico e psicologico del non farle diventa superiore al costo del farle perché c'è una crisi in atto, visibile, conclamata».
Si tratta di affermazioni sconcertanti, consone più che a un tecnico moderato, a un esponente delle tradizioni politiche che pongono gli obbiettivi storici "supremi" al disopra della volontà e delle esigenze dei cittadini. I "passi avanti" dell'Europa si misurano con la crescita del benessere, della qualità della convivenza civile, della cultura, dell'istruzione; non con la quantità di sovranità nazionale ceduta. Invece, qui si dice addirittura che le crisi sono benvenute e salutari perché costringono i cittadini sofferenti a rinunciare all'appartenenza nazionale pur di salvarsi. Questo è un tipico ragionamento da rivoluzionario che vede le crisi come tappe di una rivoluzione permanente in vista di un obbiettivo supremo, nella fattispecie il potere centrale europeo come necessità storica trascendente. L'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è di un trotzkismo tecnocratico, di ammazzare il paese con cure da cavallo sull'altare dell'ideale della cessione della sovranità nazionale da realizzare anche a costo di fabbricarlo con le sofferenze della gente. È meglio non lasciarsi abbacinare dal mito del Reich europeo millenario e pensare alla via giusta per ridare al paese speranza, vitalità e fiducia nel futuro, perché solo così riprenderà a crescere. Questo richiederà soprattutto riforme, il che è compito esclusivo della politica. Se questa si rivelerà latitante o impotente sarà un dramma, ma l'eurocrazia come versione attuale dello stato etico, per favore no.
(Il Foglio, 29 novembre 2011)
martedì 29 novembre 2011
lunedì 28 novembre 2011
Democrazia, addio...
Ormai è un coro: dalla crisi si esce soltanto rafforzando i poteri d’intervento dell’Unione Europea sulle politiche economiche nazionali. Lo proclama Barroso. Da noi, commentatori come Alesina e Giavazzi spiegano che la situazione è così grave che l’unica via d’uscita è estendere i poteri esecutivi dell’Unione Europea alla politica di bilancio e ai conti pubblici aggregati, pur ammettendo che questa sarebbe una rivoluzione. È indubbio che le opzioni sul tappeto suscettibili di effetti rilevanti richiedono un cambiamento dei trattati europei e di qualche costituzione nazionale e molti commentatori ammettono che questo non può essere fatto nel chiuso delle stanze di Bruxelles, Berlino e (al più) Parigi, perché i cittadini europei si rivolterebbero. Si tratterebbe di decisioni da ratificare per via elettorale in 27 paesi, con esiti incerti, e comunque con tempi tanto lunghi da essere incompatibili con la dinamica dei mercati.
È indubbio che è ormai allo scoperto il nodo centrale irrisolto della questione politica; il difetto costitutivo di un’Unione europea creata su basi solo economiche. Di fronte alla crisi più drammatica spicca l’assenza di forme di unificazione politica autentica, fondata sulla crescita di un sentimento comune dei cittadini europei. E, siccome le questioni in gioco sono eminentemente politiche, in fin dei conti l’Europa si rivela essere una costruzione in cui comanda il più forte (la Germania) con il supporto di una burotecnocrazia tanto potente e intrusiva quanto politicamente irresponsabile. È una situazione in cui i paesi più deboli sul piano politico vengono commissariati da quelle che il Times ha chiamato “giunte civili”. Da questo punto di vista, la dichiarazione del premier Monti davanti a Merkel e Sarkozy secondo cui l’Italia «farà i compiti a casa» è desolante e descrive in modo plateale una condizione di subordinazione umiliante.
Purtroppo vi un aspetto molto più serio e inquietante della faccenda. Proprio perché la condizione dell’Unione è questa l’idea di accrescerne i poteri d’intervento sugli stati nazionali può rivelarsi una fuga in avanti avventurosa e pericolosa; magari assortita dalla tentazione di procedere a un cambiamento radicale dei trattati europei, con scorciatoie che taglino fuori la volontà popolare: come si è visto, l’audacia in materia non difetta. Ma la domanda è: dare più poteri a chi? Senza un chiarimento radicale la risposta è: conferire poteri consolari alla Germania e a quell’eurocrazia che ha fabbricato questo disastro.
Sotto questo profilo conviene rileggere un passaggio di un discorso di Monti di alcuni mesi fa in cui egli affermò testualmente: «Non dobbiamo sorprenderci che l'Europa abbia bisogno di crisi, e di gravi crisi, per fare passi avanti. I passi avanti dell'Europa sono per definizione cessioni di parti delle sovranità nazionali a un livello comunitario.
È chiaro che il potere politico, ma anche il senso di appartenenza dei cittadini a una collettività nazionale, possono essere pronti a queste cessioni solo quando il costo politico e psicologico del non farle diventa superiore al costo del farle perché c'è una crisi in atto, visibile, conclamata». È un ragionamento sconcertante, perché esalta il ruolo delle crisi in funzione di un obbiettivo che è considerato valido in sé e per sé, indipendentemente dal fatto che la crisi sia proprio il risultato di come è stato perseguito. C’è un che di “rivoluzionario” che non ci si attenderebbe da un tecnico: il fine giustifica i mezzi, anche imporre sofferenza a chi patisce le crisi; siano queste benvenute pur di rafforzare il potere comunitario. Perciò, c’è da temere che il vero programma del governo Monti sia questo e che i “compiti a casa” – non a caso ancora nebulosi – siano soltanto un mezzo per perseguire quel fine.
martedì 22 novembre 2011
Il governo Monti ricomincia col "testing": dalla padella nella brace
"L'Europa lo vuole"…
Si risente di nuovo la canzone che ci portò alla laurea 3+2, ovvero al disastro dell'università italiana. E stavolta è vero che l'eurocrazia - non gli europei, l'eurocrazia -, più potente e arrogante che mai, lo vuole davvero, poiché ha già chiesto imperiosamente al governo Monti di valutare gli insegnanti in base ai rendimenti dei loro alunni stimati mediante i test Invalsi. E naturalmente un governo di tecnocrati come questo lo farà, eccome, con il consenso trasversale di una politica e di una democrazia boccheggianti. Che questo abbia qualcosa a che fare con il risanamento dell'economia italiana possono crederlo soltanto gli ingenui o i frequentatori degli inginocchiatoi di fronte alla detta eurocrazia. I quali intonano, sempre in ginocchio, il ritornello della valutazione "oggettiva e misurabile", ignorando a priori qualsiasi argomento in senso contrario. Del resto, gli atti di fede si recitano come una messa cantata.
Intanto, all'estero - preferibilmente fuori d'Europa - si moltiplicano le voci che criticano sempre più aspramente testing, accountability e valutazioni quantitative. Fra gli ultimi contributi, segnalo il recente articolo di John Ewing, "Mathematical Intimidation: Driven by the Data": http://www.ams.org/notices/201105/rtx110500667p.pdf
********************************************************************
Ho sotto gli occhi un quiz volto ad addestrare gli studenti all'analisi dei testi letterari a scuola. È un esempio tra i tantissimi, rappresentativo di una tendenza generale. Si elencano cinque verbi che indicherebbero tutti un "modo di ridere", ovvero un unico stato psicologico che si differenzia soltanto per intensità: 1. Sbellicarsi dalle risate; 2. Sorridere; 3. Ridacchiare; 4. Ridere; 5. Sghignazzare. Si chiede di metterli in "ordine crescente di intensità". La risposta è: 2, 3, 4, 5, 1. In tal modo l'alunno acquisirebbe la "competenza" di distinguere le "sfumature di significato".
Il dramma è che esista la necessità di spiegare perché sia profondamente idiota ritenere che queste cinque manifestazioni siano differenziazioni di intensità di un unico stato psicologico. Chi ha proposto questo quiz evidentemente non ha mai sentito parlare di un "sorriso amaro", di un "sorriso di simpatia", di un "sorriso ironico", e anche di un "triste sorriso". Nessuna relazione necessaria col ridere che, a sua volta, può esprimere tante cose: allegria conviviale, una reazione al comico ma anche sarcasmo, derisione. E se forse quest'ultimo atteggiamento ha qualcosa a che fare con lo sghignazzare, anche lo sghignazzare ricopre una gran varietà di atteggiamenti specifici. Forse soltanto lo sbellicarsi dalle risate può essere considerato un'intensificazione del ridere; non certamente il ridere un'intensificazione del ridacchiare.
Fermiamoci qui per chiederci quali giovani s'intende formare con un simile avvilente appiattimento della ricchezza del linguaggio che trasforma l'interpretazione dei testi nella compilazione di ordinamenti numerici che in me, matematico, suscita un moto di antipatia per l'aritmetica. La risposta è: macchine rincretinite. E si noti che l'esempio proposto non è isolato, bensì tipico.
Nei test Invalsi proposti ai licei si proponeva un brano di un racconto di Rigoni Stern, in cui una ragazza cadeva sugli sci davanti a un soldato, che la risollevava e poi le chiedeva scusa mentre lei riprendeva la discesa «indispettita e crucciata», come dirà dopo, «arrabbiata per quella stupida caduta». Perché – chiede il quiz – la ragazza se ne va senza dire grazie? Mettere la crocetta su una di queste risposte: A. È seccata dall'invadenza del militare; B. Si vergogna del proprio aspetto; C. È irritata con se stessa per essere caduta; D. Si è fatta male cadendo. Mettiamo la crocetta su C? E perché non anche su A, e non anche un poco su B? Perché il suo stato psicologico non può essere visto come una miscela dei tre e anche di qualcos'altro? Quale competenza misura un test del genere a risposta chiusa? Nessuna. Chi ha risposto in maniera "esatta" può essere un perfetto imbecille mentre chi non trova una sola risposta può essere la persona più capace di cogliere la ricchezza e l'ambiguità dell'analisi psicologica proposta da un testo letterario di autentico valore.
Del resto, quando l'uso dei test travalica la verifica di semplici capacità minimali – ortografia, regole grammaticali di base, capacità di far di conto – è inevitabile che si cada in queste miserie.
Risalta in modo evidente come, nel discorso programmatico del presidente del Consiglio, mentre anche sulle scelte più rilevanti in materia economica si sia mantenuta una notevole dose di ambiguità e di approssimazione, su un punto soltanto è stato fornito un riferimento preciso: sull'uso dei test Invalsi per «identificare i fabbisogni» scolastici, identificare le «aree in ritardo» (rispetto a che?), al fine generale di accrescere «i livelli d'istruzione della forza lavoro» e per «valorizzare il capitale umano». Non si dica poi che il sospetto di tecnocrazia è malizioso. Per una scuola che sta perdendo l'anima – declinando sempre più verso lo stato di carrozzone tormentato dal dirigismo burocratico in cui le ultime preoccupazioni sono la cultura, i contenuti, la dignità dell'insegnante e la formazione di soggetti consapevoli e motivati – non si trova di meglio che parlare di "test", nella cornice di un linguaggio economicista, a base di "capitale umano", "forza lavoro", "fabbisogni" e "aree in ritardo"? Invece di capire che quello di cui ha bisogno l'istruzione è soprattutto di motivazioni profonde e di restituzione del "senso" della propria missione? Davvero malinconico.
(Il Giornale, 21 novembre 2011)
lunedì 21 novembre 2011
AGENDA PER L'ISTRUZIONE
La politica dell'istruzione in Italia si caratterizza per l'incoerenza tra fini dichiarati e perseguiti. Da decenni si parla di promuovere l'autonomia di scuole e università; l'esito è un dirigismo di rigidità mai vista. "Autonomia" dovrebbe significare lo spostamento delle verifiche da monte a valle: fate le vostre scelte liberamente, assumete chi volete (lo si propone anche per le scuole) e sarete valutati in base ai risultati. Ma le scuole e gli insegnanti sono sommersi da una valanga crescente di adempimenti e controlli preventivi, di prescrizioni tendenti a trasformarli in meri esecutori. Paradossalmente, anche i meccanismi di valutazione man mano introdotti non sono tesi a verificare a posteriori, ma a prescrivere a priori. Ad esempio, la tendenza a sostituire le prove d'esame con test preparati dall'Invalsi non è innocua: l'Istituto di valutazione del sistema dell'istruzione travalica la sua funzione di valutazione di sistema surrogando la funzione dell'insegnante nella valutazione degli allievi, con la conseguenza grave di trasformare la didattica in addestramento a superare i test e di "valorizzare" gli insegnanti peggiori.
Una situazione analoga si verifica per l'università. La nuova legge di riforma doveva rafforzare l'autonomia e la nuova Agenzia per la valutazione (Anvur) doveva valutare le scelte in base ai risultati. I tanti emendamenti hanno dato un carattere dirigista alla legge e l'Anvur ha dettato prescrizioni talmente stringenti per le modalità di valutazione dei nuovi docenti da ridurre la selezione a un procedimento meccanico, con l'effetto di creare un malessere profondo nella comunità universitaria.
Si potrebbe continuare con gli esempi ma il problema è lo stesso: il dirigismo; nel migliore dei casi per l'intenzione di conferire "oggettività" alle procedure, nel peggiore per la tendenza a controllare tutto di un'amministrazione poco avvezza ai principi di uno stato liberale. È sbagliato credere che l'oggettività si raggiunga moltiplicando le regole, per il banale motivo che queste regole deve farle qualcuno che agisce in modo inevitabilmente soggettivo, né esistono sistemi "scientifici" atti a sopprimere la soggettività del giudizio.
Un esempio può illustrare meglio la questione. Conversando con un "tecnico" proponevo il sistema delle ispezioni interne come il migliore per valutare gli istituti d'istruzione (a tutti i livelli). Questi rispose: «Certo, ma i valutatori debbono avere un patentino». Bene. Chi conferirà il patentino? Qualcuno dotato di un patentino. Poiché la regressione all'infinito è impossibile, è chiaro che il patentino lo darà l'amministrazione: quanto questo sia oggettivo giudichi il lettore. Va ancora peggio se si partoriscono escogitazioni strampalate, come quella di far nominare i valutatori da enti esterni, come i dipartimenti di psicologia dell'università.
Ho avuto la diretta esperienza di come il dirigismo concepisca l'autonomia a rovescio, nel partecipare alla redazione delle nuove Indicazioni nazionali per i licei. Il testo fu accusato di essere troppo prescrittivo sui contenuti e troppo poco sui metodi. Proprio qui sta l'errore. Autonomia non significa lasciar libero il docente di non insegnare conoscenze imprescindibili e invece imporgli il metodo d'insegnamento. È esattamente il contrario, se non si vuole trasformarlo in passacarte, e i passacarte sono sempre i peggiori elementi. Ma la tentazione è sempre in agguato, come si vede nei progetti di editoria digitale che prevedono l'introduzione dei videogiochi a scuola, o nella tendenza a imporre in modo coattivo all'insegnante l'uso di tecnologie informatiche.
Valutazione a posteriori, quindi, ma essendo consapevoli che non esistono regole meccaniche per eseguirla. Quando un ricercatore presenta un articolo a una rivista non viene giudicato da colleghi col "patentino" o con regole automatiche, bensì da "pari" che giudicano il contenuto, e possono sbagliare. Anzi, l'esperienza dice che il confronto che così nasce è fonte di miglioramento per tutti. Quindi, valutazione come processo interno al sistema, come processo di crescita scientifico-culturale. Nella ricerca si tratta di valutare nel merito la produzione scientifica, per la didattica è auspicabile operare con commissioni di ispezione composte da "pari". L'opinabilità e le contestazioni vi saranno comunque: sono di gran lunga preferibili quelle che fanno crescere nel confronto.
Sarebbe auspicabile che l'agenda del nuovo ministro fosse ispirata al principio di combattere il dirigismo a tutti i livelli, restituendo respiro e autonomia al sistema, costruendo processi di valutazione che valorizzino il merito costruito su autentici contenuti culturali, anziché sull'ossequio di regole amministrative.
Questo porta a una riflessione generale. È noto che quel che più rende difficile uscire dalla crisi è l'aver costruito, a livello europeo, un sistema che non ha vitalità perché ha messo il carro dell'economia davanti ai buoi della politica e della cultura; col risultato che la seconda non è pensata come l'interazione e, in prospettiva, la sintesi di grandi culture nazionali che, anche attraverso la scienza, hanno posto i fondamenti della società moderna. Le questioni culturali e dell'istruzione sono in mani amministrative, ridotte a problemi di facilitazione dello scambio di forza-lavoro e a liste burocratiche di "competenze". Se non si riuscirà a ridare slancio al sistema dell'istruzione e della ricerca, a restituire dignità alla funzione dell'insegnante ed entusiasmo ai giovani – e l'unica via a tal fine è valorizzare il processo della conoscenza, fare dell'istruzione un luogo in cui ha senso quel che si fa e non una macchina burocratico-amministrativa fondata sulla moltiplicazione delle regole, quella che il grande matematico italiano Bruno de Finetti chiamava "il culto dell'imbecillità" – i proclami contro il declino saranno vuote grida manzoniane.
(Il Messaggero, 18 novembre 2011)