«Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante Alighieri)
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venerdì 30 marzo 2012
martedì 27 marzo 2012
LUBIANKA EDUCATIVA IN SEDICESIMO
Confesso che la lettura dell’intervista della dott. Carmela Palumbo mi ha sconcertato. Potrei limitarmi a menzionare quel che ho trovato platealmente più sconcertante, e cioé l’affermazione che i docenti vanno “ri-formati” perché «nella loro generalità, hanno una formazione di matrice universitaria che non è mai stata impostata sull’insegnamento per competenze”, ovvero sull’insegnamento - cito - che mira alla soluzione di problemi sulla base delle conoscenze acquisite nella “normale” attività didattica.
Ora - come ho osservato in un primo commento a caldo - so bene che è ormai uno sport nazionale il “tiro all’università”, ma qui stiamo passando ogni limite e ci sarebbe anche di che offendersi. Ma come ci si permette di dire cose simili? Davvero all’università è sconosciuta la formazione a risolvere problemi mediante le conoscenze acquisite, al punto che non soltanto i docenti della scuola vanno rieducati, ma anche le università debbono adeguarsi? Non so dove la dott. Palumbo viva e quali realtà conosca, ma in un tempo ormai lontano ho appreso, da studente, che non aveva senso studiare una materia scientifica senza acquisire la capacità di risolvere problemi. Tanto che, avendo avuto risultato alquanto modesti al mio primo esame di fisica, mi si spiegò che dovevo fare esercizi su esercizi, risolvere problemi su problemi, altrimenti non avrei mai capito un acca di fisica, e così feci, e così appresi a studiare fisica e matematica. Potrei continuare con gli esempi, le testimonianze, le prove, ma lo troverei persino umiliante. Quantomeno in qualsiasi materia scientifica questa è la situazione, da sempre, per cui questo discorso della “didattica per competenze” è semplicemente la scoperta dell’ombrello. E non aiuta rivestirlo di un linguaggio ornato di gergo didattichese: «mettere i ragazzi in situazione di realtà»… Ma che diamine è la «situazione di realtà»? La cultura sarebbe una situazione di irrealtà e il problem solving una situazione di realtà? Che linguaggio avvilente, burocratico, in definitiva, insensato...
Su queste basi, un «noi» che immagino vada identificato con il Ministero – che naturalmente si trincera dietro i suoi esperti, scelti non si sa come, o piuttosto si sa bene come – ha deciso di lanciare un piano di rieducazione dei docenti di ogni ordine grado, dalle scuole materne alle università che fa pensare ai piani quinquennali di sovietica memoria.
Con esemplare modestia i “nostri” (dirigenti, funzionari ed esperti) si sentono in diritto di compiere una simile opera di rieducazione collettiva, degna di uno stato totalitario, nei confronti dei docenti che “non sono pronti".... Chi da loro questa autorità? Il potere che detengono. Altrimenti, non potrebbero reggere un minuto, se soltanto si trattasse di discutere nel merito e confrontarsi su un piede di parità.
Ho partecipato a una grande manifestazione di presentazione delle università agli studenti degli ultimi anni dei licei laziali: un grande meeting con la presenza di tanti docenti, del ministro e di migliaia di ragazzi sui prati di Tor Vergata. E tutti gli oratori - non soltanto il sottoscritto - hanno vivacemente criticato la contrapposizione tra “sapere” e “saper fare”, insistendo anzi che bisogna mettere il “sapere” avanti al “saper fare”. Tutti l’hanno detto – che occorre farla finita con questa pseudo-scoperta del "saper fare" – non soltanto docenti di materie umanistiche, ma scienziati, ingegneri, medici. Ma nessuno di costoro conta un acca, per quanto autorevole sia, perché qualcun altro che tiene il bastone di comando in mano ha deciso altrimenti.
«Intendiamo»…. dicono... "Intendono" rifarci le teste. Un verbo che è un capolavoro e che è coronato dalla promessa di sviluppare un'azione a lungo termine. Un piano quinquennale (o decennale?) di rieducazione, per meglio dire, di lavaggio dei cervelli.
Ogni giorno si ripete la trombonesca formula dell’autonomia scolastica. Ma in realtà è il dirigismo, il dirigismo più sfrenato a farla da padrone. Il Sussidiario – dove è comparsa questa intervista – ha dato molto spazio a uno scritto di Vittadini che esemplarmente incita i professori a non essere burocrati, ma maestri.
Ma quali maestri potranno mai essere compatibili con un simile dirigismo? Quali maestri non burocrati potranno mai esserci quando si parla addirittura di «modello nazionale» per la valutazione delle competenze e all’intervistatore, che timidamente chiede se non si dovrebbe lasciare un grado di libertà alle singole scuole, la risposta è no, niente da fare, altrimenti viene meno il requisito del “linguaggio comune”. Insomma, è la solita tiritera dell’oggettività. Solo che l’oggettività la decide il Ministero e con quali idee lo si vede chiaramente. «Modello nazionale» con tanto di «linee guida», come se il dirigismo non bastasse.
Come ha scritto Piero Ostellino, in questo paese i cambiamenti di governo, come quello che abbiamo avuto, non ci fanno passare dal collettivismo al liberalismo, ma da una forma di dirigismo a un’altra. È il male nazionale.
Che dire? Bisogna avere fiducia nelle persone, quantomeno nei tanti insegnanti intelligenti, volenterosi, preparati che ci sono, eccome. A costoro bisognerebbe dire: usate la vostra intelligenza per riempire il modello nazionale di competenze nel modo più semplice possibile, e coerente con le valutazioni che date nel modo più sensato possibile. Non perdeteci tempo sopra e compilatelo come ci si leva di torno una pratica burocratica insensata. Cercate in tutti i modi di farla in barba alla burocrazia dirigista, perché contro il totalitarismo l’unica risposta possibile è resistere sul fronte dell’intelligenza, della cultura, del buon senso, resistere in tutti i modi possibili. Sono convinto che saranno i docenti fannulloni, incapaci e impreparati i più solerti nel riempire le certificazioni nazionali di competenza secondo le linee guida. Li si lasci alla loro miseria. Il mondo dell’istruzione (scuola e università) alla fin fine è troppo vasto e ricco per essere irregimentato da una Lubianka in sedicesimo.
La memoria? Né serbatoio, né mappa
Intervista per i Quaderni di Libertà di Educazione, n. 29, febbraio 2012, pp. 12-14.
Cosa fare perché questi “basta”, denunciati da Lucio Lombardo anni fa, siano definitivamente sconfitti ed esiliati dall’insegnamento? Cosa dovrebbe diventare, per esempio, l’ora di lezione perché la memoria non sia più guardata come un tiranno?
Secondo Lombardo Radice quel che deve essere sconfitto ed esiliato dall’insegnamento non sono le date, le successioni cronologiche e le periodizzazioni storiche. Va ricordato che Lombardo Radice – che ho frequentato direttamente anche perché facevamo parte dello stesso dipartimento universitario – era un fautore di un insegnamento aperto e non convenzionale e di quelli che egli chiamava allora “metodi attivi” nell’insegnamento. Tuttavia, in questo brano di qualche decennio fa, si scagliava contro quella concezione antisistematica che vuole trasformare la scuola in un gioco perpetuo e difendeva a spada tratta la scienza classificatoria, lo studio sistematico, rigoroso. Il suo era un “basta” a quei “basta”. E vale la pena citare un passaggio successivo del suo discorso: «Si va anzi molto al di là della confusione tra due momenti educativi: si arriva ad annullarne uno, quello basilare, riducendo la scuola a escursione, esercitazione, libera ricerca, lettura occasionale o così via. […] Vogliamo sottolineare che un momento non eliminabile, per un solido sviluppo intellettuale in una direzione quale che sia, per la acquisizione di un permanente patrimonio culturale comunque configurato, è lo studio-lavoro, la lettura-riflessione, lo sforzo di comprensione tenace, l’applicazione disciplinata, organica, paziente, la faticosa organizzazione della propria mente e del proprio sapere». Bene, condivido in toto questa visione. Comprendo perfettamente l’esigenza di rendere l’ora di lezione accattivante, gradevole. Ma questo desiderio ha assunto i connotati di una pessima pedagogia che sta dando frutti molto peggiori di quelli che denunciava Lombardo Radice. Si potrebbe chiudere la questione dicendo che è inutile girarci attorno: la scuola ha una componente di sforzo e di impegno e volerla eliminare è quanto distruggere la scuola. Ma si può dire di più: una scuola dove non si fa niente o poco è massimamente avvilente per lo studente, produce frustrazione, sbandamento e disinteresse, vuoto mentale e spirituale. Nel merito poi, una scuola dove la geografia sia ridotta allo studio astratto della spazialità e a questioni politicamente corrette come l’inquinamento e in cui non si insegna neppure dove sta il lago di Como, spegne la mente dei bambini: lo vedo bene con mio figlio che si appassiona proprio alle questioni che i cattivi pedagogisti definiscono “nozionismo”. Lo stesso discorso vale per la storia, ovvero per la memoria. Non ci si rende conto che l’assurda trasformazione della storia in un sapere formale, prescritta dalle Indicazioni nazionali Fioroni per il primo ciclo, in cui si studia il “prima” e il “dopo”, si fanno cronologie di eventi personali o addirittura schemi astratti di successioni temporali, invece di studiare la storia propriamente detta, è la cosa più vuota di interesse per un bambino? I piccoli si appassionano alla storia come racconto, come narrazione, ai personaggi, agli eventi, e non ai vacui formalismi sulla “temporalità”. Quante volte ho sentito dire da bambini, figli di amici, frequentanti le elementari: «le materie che detesto di più sono la storia e la geografia». La memoria non è un tiranno se è “racconto”, se parla di vicende reali, che dicono qualcosa per noi, per la nostra vita, se consente di collocarci nella storia reale che precede e situa la fase della nostra esistenza e ci fornisce i materiali per intenderne il senso.
- L’uso della metafora per lo studio della memoria è molto diffuso anche nella ricerca scientifica. Estremizzando potremmo dire che si oscilla tra un’immagine della memoria come magazzino e memoria come mappa. Quale delle due metafore le sembra più adeguata? Il rapporto della memoria con l’apprendimento e la conoscenza è di tipo passivo -recettivo, quasi privo di intelligenza, intuito …?
La memoria umana non è certamente un magazzino. Se così fosse non perderemmo mai una sola informazione relativamente al passato se non in caso di lesioni cerebrali. L’esempio tipico di memoria magazzino è un calcolatore, che conserva la memoria nel disco rigido o nella memoria flash e la perde soltanto in caso di guasto. Tutto è sempre disponibile in quel magazzino mentre noi sappiamo bene che questo non accade affatto per la memoria umana. Si potrebbe rispondere che perdiamo memoria a causa della perdita di neuroni e sinapsi. Ma il cervello è un organo plastico e ricostituisce continuamente connessioni nuove. Il fatto più sorprendente della memoria è il fatto che ricordi apparentemente perduti possano essere recuperati, anche attraverso una ricostruzione mediante ricordi connessi, che segue vie molto complesse e oscure. La metafora della memoria come mappa non serve certamente a spiegare questa capacità. Francamente, nessuna delle due metafore mi interessa e mi sembra adeguata. Il discorso è estremamente complesso e non affrontabile in un’intervista. Mi limiterò a dire che non sono affatto d’accordo con una visione riduzionista che cerca di spiegare tutti i processi del pensiero attraverso meccanismi cerebrali. Sono convinto che dobbiamo restare all’idea di un’interazione mente-cervello senza la quale, appunto, la conoscenza diventa un processo di tipo passivo e meccanico.
- Quale rapporto c’è tra matematica e memoria?
Nella matematica si presentano precisamente i problemi anzidetti. Memorizzare la conoscenza matematica, nella sua enorme complicazione e con la massa di dettagli di cui è costituita sarebbe semplicemente impossibile. Il matematico capace è colui che sa ricostituire gli elementi che servono nella sua disciplina mediante il ragionamento. Le dimostrazioni matematiche non si ricordano – non avrebbe senso – bensì si ricostruiscono volta per volta, o addirittura se ne costruiscono di nuove, in base alla logica del risultato da dimostrare, al contesto dei concetti di cui è intessuto, alle tecniche cui fa ricorso. Inoltre, nella matematica gioca in modo essenziale l’intuizione: suggerisco al riguardo la lettura del bel libro di un grande matematico, Jacques Hadamard, “La psicologia dell’invenzione in matematica”. Aggiungo che neppure l’apprendimento delle tavole pitagoriche è un fatto mnemonico: esse si stabilizzano nella memoria come sottoprodotto dell’acquisizione delle regole della moltiplicazione. Tempo fa ho dovuto discutere accanitamente con uno psicologo che sosteneva che le tavole pitagoriche sono sequenze ordinate di parole, e quindi soltanto memorizzabili in modo meccanico. È un piccolo esempio di come circoli tanta incompetenza e incomprensione sul ragionamento matematico da parte di persone che credono di poter parlare di tutto.
- In un suo recente articolo Il "Capitale umano che i test ignorano” (Il Messaggero, 9 gennaio 2012) lei evidenzia come certe prove internazionali sembrano preparate e svolte per indurre ad un tipo di scuola e di insegnamento fondato sulle competenze, nemico dei contenuti e dei loro nessi profondi. Quale rapporto tra valutazione e memoria? La memoria è misurabile solo con i test cosiddetti oggettivi? È possibile arricchire “il capitale umano” senza promuovere la memoria?
Certamente la memoria è una delle poche cose valutabili in termini oggettivi. Ma, sia ben chiaro, parliamo della memoria meccanica, ovvero della mera accumulazione di ricordi. In tal senso, i test misurerebbero proprio quel che si considera deteriore nella scuola: l’acquisizione meccanica e passiva di nozioni. Se invece si tratta di valutare il livello di comprensione profonda dei concetti i test sono precisamente un modo per oscurare questa valutazione. I concetti non si misurano, il significato non si misura. Arricchire l’uomo, la persona – francamente comincio a non poterne più di questa terminologia economicista e aziendalista dilagante (“capitale umano”) – si fa promuovendo la capacità di approfondire il “senso” e a questo non contribuisce la memoria meccanica, ma un altro tipo di memoria, ovvero la memoria storica, che non si limita a registrare i fatti ma cerca di coglierne il significato, anche come lezione etica e morale, oltre che come espressione della forma più alta di razionalità.
- Un recente libro di Nicholas Carr propone una domanda provocatoria molto attuale: “Internet rende stupidi”? Lei cosa risponderebbe? Potremmo dire che “rende stupidi” perché indebolisce la memoria?
Non credo che di per sé Internet renda stupidi e neppure perché indebolisca la memoria. Internet può rendere stupidi se si trascorrono ore e ore a ingurgitare informazioni in modo caotico, se ci lasciamo inondare da un’overdose di informazioni e di messaggi senza fermarci mai a riflettere e pensare, a selezionare. È un ridursi allo stato di macchina – simulando appunto il comportamento del computer, che immagazzina passivamente informazioni – e quindi è una forma di abbrutimento. Pare che alla morte di Spinoza si siano trovati nella sua biblioteca meno di duecento volumi. I libri e i testi che hanno un ruolo effettivamente importante nel costituire il nostro pensiero sono, in definitiva, molto pochi. È bene che oggi sia disponibile un deposito di informazioni quanto più possibile vasto e accessibile, purché lo si usi in funzione di qualcosa e non per assoggettarsi ad esso, altrimenti sì, si finisce con l’instupidirsi.
- Si parla di sapere condiviso o “memoria collettiva” nel magazzino del web opponendola a “memoria personale” frutto di ricerca e riflessione nello studio. Cosa ne pensa?
La memoria collettiva esiste soltanto come magazzino. E, ripeto, che esista una memoria collettiva quanto più possibile vasta e accessibile (sul web) è un fatto positivo e utilissimo. Ma l’idea che attraverso il web si formi una sorta di conoscenza o di cultura collettiva è – non riesco a non essere franco – una delle più grandi sciocchezze circolanti. Oltretutto le visioni che tendono ad annullare il valore dell’individuo, della persona a favore di “coscienze collettive” sono sempre espressione di ideologie totalitarie. Proprio oggi leggo di una ricerca statunitense su api e formiche che andrebbero considerate come un modello di “superorganismo” che si collocherebbe a un livello intermedio tra l’individuo e l’ecosistema. Insomma, l’insetto parte di un superorganismo sarebbe un modello di “eusocialità”. Commenta bene Piero Ostellino: «chi pretende di ridurre l’umanità a un superorganismo sociale tende a costruire un inferno concentrazionario dentro il quale rinchiudere chi rifiuta di essere formica o ape». Anche Marx ha spiegato chiaramente la superiorià dell’architetto sull’ape, ma oggi il progressismo scientista ci fa tornare indietro verso visioni adatte al totalitarismo del Novecento, e quel che è desolante è assistere al modo con cui, forse per timidezza di fronte alla “scienza”, queste teorie vengono supinamente accettata anche da molti che erano marxisti e rinunciano persino a quel po’ di umanesimo che vi era ancora nel marxismo.
- Un’ultima domanda sul rapporto “Memoria e storia”. Serve celebrare la “Giornata della memoria” in una società in cui la scuola sembra diventare sempre di più il deserto dei ricordi del vero, del bello, del giusto? Cosa occorre perché il “fare memoria” del passato diventi risorsa dell’educare istruendo?
La Giornata della Memoria sta diventando un rito vuoto, stanco e retorico che rischia di sortire effetti opposti a quelli per cui è stata istituita. Nella scuola – che, come lei dice giustamente sta diventando il deserto del vero, del bello e del giusto, e il luogo della più vuota e arida tecnocrazia – la Giornata della Memoria sta diventando un semplice componente del piano di offerta formativa. Mi raccontava un insegnante che addirittura è spuntato fuori l’uso del termine “festa della Shoah”. Non credo vi sia bisogno di commenti. Il fare memoria del passato come risorsa educativa ha senso soltanto come educazione storica, e quindi all’interno del processo formativo ordinario. La nostra scuola è ormai un susseguirsi di iniziative “accessorie” e straordinarie, un immenso bazar di attività alternative. L’insegnamento ordinario (serio, qualificato, profondo) sdella storia è la sola autentica base per una formazione consapevole della memoria.
domenica 25 marzo 2012
APPELLO ALLE DIMISSIONI DI CATHERINE ASHTON
Per firmare:
http:// www.petitionpublique.fr/ ?pi=P2012N22386
http://
Per informazione, dalle agenzie di stampa:
«Quando pensiamo a quanto accaduto oggi a Tolosa, quando vediamo che cosa sta succedendo a Gaza e in diverse parti del mondo, noi commemoriamo giovani e bambini che hanno perso la loro vita», ha dichiarato ieri l’Alto rappresentante Ue Catherine Ashton.
I bimbi (palestinesi) di Gaza come quelli (ebrei) uccisi a Tolosa? Ancora una volta la Baronessa che riveste l’incarico di Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione europea è riuscita a inanellare un’ennesima gaffe, se mai ci fosse bisogno di dimostrare che se nell’Ue c’è una persona sbagliata al posto sbagliato è proprio lei.
martedì 20 marzo 2012
TOULOUSE
Scritto prima del massacro di Tolosa e quindi non "aggiornato", ma cade a proposito: ovvero della tragica inutilità della Giornata della Memoria in un'Europa che, oltre a tollerare l'antisemitismo del fondamentalismo islamico, tollera il risorgere dell'antisemitismo neonazista
Proprio perché è passato del tempo uno sguardo a distanza sulla Giornata della Memoria 2012 può offrire un’immagine più chiara. Si è scritto che quest’anno la Giornata si sarebbe caratterizzata per minore retorica, più razionalità e sentimenti meno superficiali. Non si capisce bene su che basi questo possa dirsi. Le iniziative hanno continuato a moltiplicarsi esponenzialmente e già questo non è un bene. Mi ha scritto un professore che la Giornata è ormai un “must” nell’emporio di attività collaterali cui è ridotta la scuola italiana, al punto che, nell’offerta formativa di qualche insegnante è spuntata la locuzione freudiana di “Festa della Shoah”… Altri parlano di crescente disinteresse e fastidio da overdose da parte degli studenti. Si aggiunga il fatto che, dove la “Festa della Shoah” non si fa, è soprattutto per le resistenze di quegli ambienti scolastici che storcono il naso ricordando «quello che gli israeliani fanno ai palestinesi». Sono anni che ci si ripromette di fare il punto della situazione e di pensare a una gestione più oculata e mirata, ma sembra invece che si sia messo in moto un processo inarrestabile che, di anno in anno, si gonfia come una valanga, al pari dei sentimenti antisemiti di cui parlano le statistiche e tanti episodi.
C’è chi coltiva l’illusione di fare della Giornata della Memoria sempre più un’occasione per guardare al passato senza stabilire connessioni con il presente, se non nei termini del ritornello “affinché la storia non si ripeta”; soprattutto senza stabilire connessioni con le vicende di Israele. Non ci si rende conto che proprio questo è quel che vuole chi accetta la Giornata della Memoria come occasione per celebrare i soli ebrei accettabili – quelli morti – per poter liberamente parlar male degli ebrei vivi, in nome del motto “affinché gli israeliani non ripetano la storia in Palestina.
Valentina Pisanty, nel suo libro “Abusi di memoria”, stigmatizza le banalizzazioni della Shoah, ma si rifiuta di includervi l’abuso del “Se non ora quando?” di Primo Levi da parte delle “partigiane” antiberlusconiane. E anzi classifica come “sacralizzatori” della Shoah Alberto Cavaglion e il sottoscritto per aver condannato quella banalizzazione. Come se non bastasse, mi attribuisce l’identificazione della Shoah con Masada e con il mito “Scontro Eroico contro un Nemico Potente». Anche se ammette che questo non l’ho scritto da nessuna parte, ma si dedurrebbe dal mio impianto argomentativo «ricostruendo gli spazi vuoti di cui il discorso è intessuto»…
A tanto siamo. E quindi sarebbe bene rendersi conto delle nubi minacciose che si addensano in questo 2012 che rischia di essere l’anno della resa dei conti sulla questione iraniana, che non è soltanto la questione della bomba atomica della ayatollah, ma della bomba atomica in mano ai paladini del più sfrenato negazionismo della Shoah e della cancellazione di Israele dalla carta geografica. Ma di questo pochi vogliono parlare.
Sarebbe bene rendersi conto di cosa sono gravide quelle nubi. Dati i tempi tecnici, la questione dell’atomica iraniana potrebbe precipitare proprio quest’anno in una crisi internazionale dai molteplici volti – incluso quello di un intervento militare israeliano – e con esiti imprevedibili. Se si dovessero verificare scenari del genere non ci vuole molta fantasia per immaginare quale sarà il clima della Giornata della Memoria 2013: una messa in stato di accusa. Molti rivendicano la libertà di essere ebrei senza che questo implichi sostenere acriticamente qualsiasi cosa faccia un governo israeliano. Questa protesta andrebbe rivolta a chi rende difficile questa libertà; visto che basta criticare gli insegnanti che si appuntano la stella gialla sul petto come vittime dell’“olocausto della Gelmini”, per essere accusati di sostenere il mito di Masada (senza peraltro aver nominato né Israele né Masada). Non è in questione la libertà di opinione. Se i milioni di ebrei sterminati si fossero messi a discutere tra loro, chissà quante liti… Ma oggi sull’ebraismo mondiale grava una nuova agenda di sterminio da parte di un paese dell’ONU che ribadisce impunemente il progetto di cancellare un altro paese dell’ONU in quanto abitato da ebrei. Inutile nascondere la testa sotto la sabbia: questo dovrebbe essere il tema centrale di una Giornata della Memoria che miri a che la storia non si ripeta.
(Shalom, marzo 2012)
lunedì 12 marzo 2012
LO SCIPPO DEL LIBERO ARBITRIO
Gran parte della storia dell’umanità si è ispirata a una visione dualistica che distingue tra la sfera naturale e la sfera mentale e spirituale. È una visione che ha permeato la struttura del sistema della conoscenza, già nel mondo pagano. Il pensiero di Aristotele è articolato nella considerazione della fisica, della metafisica, della logica, dell’etica e dell’estetica, e non mira a ridurre l’una all’altra. Anche la distinzione medioevale tra “trivio” e “quadrivio”, pur non riconducibile direttamente a quel dualismo, riflette la distinzione tra saperi “scientifici” e saperi “letterari”, senza ordinarli gerarchicamente. Una siffatta gerarchia venne invece introdotta da Galileo quando additò l’Iliade e l’Orlando Furioso come opere di fantasia in cui la verità di quel che vi è scritto è la cosa meno importante. L’attribuzione di un valore di verità alle sole scienze naturali, e la negazione di un valore di conoscenza razionale all’esplorazione letteraria dell’animo umano, riflettono l’entusiasmo suscitato dagli straordinari successi delle scienze fisico-matematiche. Ma, nonostante tutto, siamo ben lontani dalla negazione del dualismo. Per i grandi fondatori della scienza moderna – come Galileo, Descartes, Newton, Leibniz, Keplero – non è in discussione che esista una sfera naturale, esplorata con successo dal metodo matematico-sperimentale, e una sfera spirituale che è dominio della filosofia, della religione, della letteratura e dell’arte. Il monismo materialista ha lontani antecedenti, ma il suo pieno ingresso sulla scena avviene con le teorie settecentesche dell’uomo-macchina di Lamettrie e con la medicina materialista di Cabanis. Si trattò di una parentesi perché il pensiero dominante dell’Ottocento fu prevalentemente dualista. Anche un matematico come Cauchy sosteneva che non bisognava «ostentare le scienze matematiche al di là del loro dominio» e non ci si doveva illudere «che si possa affrontare la storia con delle formule, e sanzionare la morale con dei teoremi». Sono frasi in cui traspare una tensione. La sortita del materialismo settecentesco, se pur in momentanea ritirata, aveva aperto una ferita insanabile. Era di fatto solo una tregua. Agli inizi del Novecento si ripresentò un riduzionismo materialista più agguerrito che mai che trasformò la distinzione tra le due sfere del pensiero in una condizione di conflitto permanente.
Circa mezzo secolo fa, il termine “le due culture” fu coniato da C. P. Snow nell’omonimo saggio in cui denunciava l’incomprensione crescente tra scienziati e umanisti: «trent’anni fa le due culture non si rivolgevano la parola, ma almeno si sorridevano freddamente. Ora la cortesia è venuta meno, e si fanno le boccacce». Allo scienziato che condanna come una perdita di tempo la lettura di un romanzo, si oppone la sprezzante vanteria dell’umanista di non saper fare neppure una moltiplicazione. Tuttavia il conflitto non si pone in termini astrattamente equivalenti. Non esiste un tentativo riduzionista delle scienze umane. Esiste invece un riduzionismo naturalistico sempre più pervasivo. L’unico progetto in campo è quello che mira a superare il dualismo tra le due culture riducendo l’una all’altra, riassorbendo la sfera umana entro la sfera naturale, riducendo l’uomo a fisica e biologia. Tutto il complesso delle scienze umane consolidato nei secoli deve essere riscritto nel linguaggio delle scienze naturali, ed eventualmente matematico. In attesa che il progetto si realizzi quel complesso è messo in mora, come privo di valore e interesse.
La problematica conoscitiva si salda strettamente con una tematica metafisica: difatti, il progetto riduzionistico non è scientifico, bensì metafisico. L’obbiettivo non è più quello di studiare la natura, bensì di dimostrare che tutto si riduce a processi materiali. Gli sviluppi contemporanei della scienza ne forniscono la conferma più evidente. In un periodo in cui la fisica conosce una stasi, il ruolo di “big science” è assunto dalla biologia, o meglio dalla genetica e dalle neuroscienze; che si ripartiscono in due filoni: uno di direttamente tecnologico e l’altro volto a “dimostrare” l’assunto metafisico di cui si diceva. La dimensione teorica della biologia – già di per sé esile, perché non esiste una biologia teorica analoga alla fisica teorica – è sparita e si è trasformata in una metafisica materialistica che gioca il ruolo di supporto teorico della pratica manipolativa. Come ha osservato Gilbert Hottois, caratteristica della tecnoscienza è l’abbandono dell’approccio “logoteorico” della scienza classica, a favore dell’operatività. Eppure mai come ora la tecnoscienza ambisce a dare risposte metafisiche, proprio mentre predica la fine della filosofia. In realtà, vuole sostituirsi ad essa e fornire risposte alle classiche domande della filosofia gabellandole come risultati scientifici.
Lo scopo è di dissolvere la questione antropologica naturalizzando la sfera umana, riducendo l’uomo a un complesso biofisico contingente e modificabile nel genoma e nel cervello. La natura simbolica dell’uomo sparisce e viene ridotta ad altro, a processi materiali: la mente è cervello e null’altro; l’essere è genoma e null’altro; la sfera simbolica è un prodotto tecnobiofisico; la vita e la morte sono l’accensione e lo spegnimento di una macchina; l’uomo-macchina è interamente manipolabile. Con la questione antropologica è dissolta la questione morale, ridotta a una questione di conformazioni neuronali. La religione viene dissolta nella neuroteologia.
Si potrebbe obiettare che tutto ciò sarebbe legittimo se fosse scientificamente dimostrabile; se la scienza contemporanea avesse realizzato il miracolo di trasformare i classici problemi della metafisica in problemi scientifici risolubili in termini positivi.
Proprio su questo occorre misurarsi senza reticenze. I “risultati” che sosterrebbero queste “scoperte” offrono un panorama di edifici pieni di crepe e la cui stabilità è a dir poco precaria. Non sono in discussione i singoli risultati sperimentali bensì le deduzioni arbitrarie che ne vengono tratte. Quale risultato sperimentale avvalla la tesi secondo cui «tutto è genetico»? Come osservò il biologo Henri Atlan, proprio il successo (pur fortunoso) della clonazione ha demolito conclusivamente quella tesi. Eppure essa viene riproposta come un truismo, tanto che è divenuta un luogo comune.
Consideriamo tre esempi relativi all’ossessione dominante nell’ambito delle ricerche neuronali e genetiche: dimostrare che il libero arbitrio non esiste.
Esiste un ampio filone di ricerche in tal senso che può essere rappresentato dal libro Mind Time di Benjamin Libet. Si tratta di esperimenti volti a dimostrare che l’esperienza soggettiva della libertà è un’illusione e che le nostre azioni sono prodotte da processi cerebrali inconsci che agiscono prima che noi si sia consapevoli delle nostre intenzioni. Tali esperimenti consistono nel misurare l’attività elettrica cerebrale che si manifesterebbe in concomitanza con l’assunzione di una decisione e nel confrontare l’istante d’inizio di tale attività cerebrale con il momento in cui la decisione viene presa, segnalato dal soggetto mediante la pressione su un bottone, o con un atto analogo. Si sarebbe mostrato che l’attività cerebrale ha inizio prima della pressione del bottone: lo scarto varia tra qualche millisecondo e un decimo di secondo. I ricercatori più scrupolosi, rendendosi conto che un simile esile scarto potrebbe rientrare negli errori di misura, hanno seguito un’altra via: fare una ricerca e uno studio delle aree del cervello che «predeterminano le intenzioni consapevoli», misurarne l’attività con tecniche di risonanza magnetica individuando l’inizio della «fase preparatoria della decisione». In tal caso, lo scarto salirebbe ad alcuni secondi.
Non è difficile vedere i vizi di questa procedura. In primo luogo, dare per scontato che esistano aree che «predeterminano» le intenzioni consapevoli indica che la tesi dell’inesistenza del libero arbitrio viene data per dimostrata prima di averlo fatto, anzi viene usata per dimostrarla. Inoltre, è chiaro che è improprio chiedere a una persona di annunciare l’istante in cui egli assume una decisione per confrontarlo con un istante di natura totalmente diversa: quello in cui ha inizio una vaga «attività preparatoria» nel corso della quale viene elaborata la decisione: è evidente che il momento in cui rifletto se uscire o no di casa viene prima del momento in cui decido di uscire. Ma c’è un vizio ancor più grave. Da un lato si misurano grandezze fisiche, osservabili misurabili con apparecchi di laboratorio: intensità di correnti, flussi sanguigni. Dall’altro lato si ha a che fare con qualcosa di diverso, ovvero con un rapporto con cui il soggetto dichiara l’esistenza di uno stato mentale: “premo il bottone o indico una lettera, e così informo di aver compiuto la scelta”. È qualcosa di analogo ai rapporti verbali (un “racconto”) in cui il soggetto descrive quel che prova soggettivamente. È del tutto arbitrario considerarlo come la determinazione esatta dell’istante temporale della presa di decisione, analoga alla misurazione diretta con un apparecchio. Qui vengono identificate cose diversissime: un rapporto dichiarativo e uno stato mentale. Per controllare la coincidenza della “dichiarazione” con lo stato mentale occorrerebbe penetrare direttamente in questo. Ma il rapporto dichiarativo può essere verificato soltanto con altri rapporti dichiarativi, in un’impossibile regressione all’infinito verso il “foro interiore” della persona senza che sia possibile mettere in atto qualcosa di simile alla misurazione diretta di una corrente elettrica. Pertanto mettere a confronto quelle due “misurazioni” del tempo è un grave errore metodologico indotto dalla pressione dell’assunto metafisico.
Una situazione analoga si presenta nella teoria dei neuroni specchio, che M. Jacoboni nel suo Neuroni specchio definisce come gli elementi neurali determinanti per il comportamento sociale. Anche qui l’identificazione di aree che si attivano nei rapporti sociali e nelle situazioni di “empatia” non autorizza a considerarle come un fattore causale, come il fattore materiale che «colma il divario tra il sé e l’altro». Soprattutto se si ammette che «sembra esservi nel cervello, oltre al sistema dei neuroni specchio, un altro sistema neurale, il sistema della condizione di default, implicato sia con il sé sia con l’altro, nel quale il sé e l’altro sono interdipendenti». Mentre i neuroni specchio hanno a che fare con gli aspetti fisici del sé e dell’altro, il sistema della condizione di default dovrebbe «concernere aspetti più astratti della relazioni tra il sé e l’altro: i loro rispettivi ruoli nella società o comunità cui appartengono».
In attesa di capire di cosa si tratti, l’indimostrata riduzione dell’empatia a neurobiologia deve far fronte al problema del perché talora l’empatia non si manifesti e vi siano piuttosto manifestazioni di insofferenza persino atroci. S’invoca allora l’ipotesi che gli stessi meccanismi che provocano l’empatia diano luogo alla violenza imitativa. La legislazione dovrebbe tenerne conto e modellarsi sui codici sociali descritti dalla neurobiologia. Si lamenta al riguardo che il riconoscimento del ruolo di guida della scienza nell’etica pubblica sia ostacolato dai pregiudizi, in particolare dalla credenza nel libero arbitrio, così svelando che il vero obbiettivo è quello di distruggere questo “pregiudizio” e non di attenersi a risultati positivamente dimostrati. Sorge inoltre il problema di come dovrebbe avvenire la riorganizzazione sociale basata sull’accettazione ufficiale del determinismo biologico.
Un indizio lo fornisce il nostro terzo esempio. Esso è dato da una serie di ricerche sui ratti effettuate dal neuroscienziato statunitense Jean Decety. Egli ha constatato che un ratto cui viene offerto un pezzo di cioccolato davanti a un suo simile imprigionato preferisce spesso liberarlo e dividere con lui il cioccolato anziché comportarsi in modo egoistico. Massimo Piattelli Palmarini riferisce che, secondo Decety, i circuiti cerebrali coinvolti in questi processi sono gli stessi che nell’uomo e così gli ormoni legati all’attivazione di questi circuiti. Il neurofilosofo Peter Singer si è posto allora il problema del manifestarsi di casi reali opposti, e cioè di persone totalmente indifferenti al dolore altrui. Sarebbe un buon motivo per concludere che il libero arbitrio esiste… E invece no. Dando ancora una volta per scontato quel che andrebbe dimostrato, e cioè che l’empatia sia un processo cerebrale, determinato da una struttura neuronale (con meccanismi non univoci o meccanismi sconosciuti, visto che essa può esservi o no), Singer si chiede se non sia possibile fabbricare una pillola dell’empatia che la susciti in chi ne è sprovvisto. Siamo di fronte alla patente alleanza tra metafisica materialista e tecnoscienza manipolatoria.
Piattelli Palmarini si ribella di fronte a questa deriva e denuncia la presenza di una «crescente neuromania» e «genetomania», aggiungendo che non è bene assumere «un atteggiamento scientista e potenzialmente manipolatore»: «il libero arbitrio è un peso ma dobbiamo sopportarlo».
Non credo che il libero arbitrio sia un peso da sopportare. Penso, al contrario, che sia ciò che rappresenta il fattore distintivo (e nobile) dell’uomo. Ma la pressione del riduzionismo scientista è tale che termini come “libero arbitrio”, “libertà”, “persona” e “dignità della persona” sono visti come relitti di un passato oscurantista. Eppure la fragilità di queste costruzioni pseudoscientifiche non giustifica alcuna soggezione nei loro confronti e tantomeno l’accettare che tutta la conoscenza venga assoggettata al prefisso “neuro-”. È vergognoso dirsi spiritualisti? In verità, per un religioso, che crede in un Dio creatore diverso da un Giove tonante, e che crede che l’uomo porti in sé una scintilla dello spirito divino, non dirsi tale è negare sé stesso. E non esistono scoperte scientifiche che dimostrino la metafisica materialista. Occorre avere il coraggio di dirlo. Anche per il bene della scienza.
(L'Osservatore Romano, 4 marzo 2012)
mercoledì 7 marzo 2012
UN'OPERA MERITORIA
Complimenti davvero a ROARS (cliccare sul titolo), e sia detto senza l'ombra di ironia ma in modo sincero e con grande stima. Perché è davvero meritorio che ci sia qualcuno che ha l'energia e la voglia di combattere nel merito questo diluvio di cialtronerie della peggior specie.
Vorrei soltanto dire che sarebbe forse il caso di esercitare un certo distacco e osservare con un minimo di prospettiva il precipizio di follia in cui stiamo cadendo: il trionfo orgiastico della metodologia, quella che Colletti chiamava la "scienza dei nullatenenti".
Mi permetto al riguardo di riproporre una testimonianza di mezzo secolo fa:
Leo Szilard (Budapest 1898, La Jolla 1964) è stato uno dei fisici più brillanti del XX secolo. Alla fine della sua vita si dedicò alla scrittura di racconti. In uno di questi "The Mark Gable Foundation" un miliardario chiede al personaggio principale, un ricercatore, come si potrebbe rallentare l'avanzata della scienza, a suo avviso troppo veloce.
Il ricercatore risponde: «Si potrebbe mettere in piedi una fondazione dotata annualmente di 30 milioni di dollari. I ricercatori che hanno bisogno di denaro potrebbero fare domanda, mostrandosi convincenti. Calcoliamo per esaminare i dossier dieci comitati, ciascuno composto da una dozzina di ricercatori. Consideriamo i ricercatori più attivi e nominiamoli membri di questi comitati. In primo luogo, i migliori ricercatori sarebbero sottratti ai loro laboratori e occupati a valutare i dossier. In secondo luogo, i ricercatori alla ricerca di denaro si concentrerebbero sulle questioni ritenute promettenti, e sulle quali sarebbero quasi sicuri di poter pubblicare rapidamente. I primi anni, si avrebbe certamente un aumento notevole della produzione scientifica; ma a forza di ricercare cose evidenti, la scienza presto si sterilizzerebbe. Vi sarebbero delle mode e coloro che le seguissero avrebbero dei crediti. Quelli che non le seguissero non ne avrebbero e apprenderebbero rapidamente a seguire a loro volta le mode».
Il povero Szilard non avrebbe mai potuto immaginare che la fantasia fosse così modesta rispetto alla realtà e che centinaia di ricercatori sarebbero stati sterilizzati non alla ricerca di cose evidenti e alla valutazione di dossier, ma ricerche nell'ambito di una pseudoscienza ridicola e avvilente rispetto alla quale la tarda scolastica medioevale fa la figura di un pensiero nobile, elevato e pieno di contenuti. Mi ritengo una persona fortunata perché mi manca poco alla pensione e compiango i più giovani: difatti, me ne posso infischiare di questa follia e avere il privilegio di poter continuare a studiare, pensare e far ricerca.
sabato 3 marzo 2012
Università e lavoro. No ai polli di batteria
L’ottima indagine che Marco Ferrante ha svolto per Il Messaggero sul rapporto tra università e mercato del lavoro offre molti spunti di riflessione che partono da un dato evidente: indirizzare le scelte del corso di laurea in modo che s’incontrino con l’offerta di lavoro resta un problema molto difficile e in buona parte irrisolto. È il caso di ricordare la conclusione del servizio: «Quello che sarà tra cinque o dieci anni è in parte una scommessa. La visibilità sul futuro del mercato del lavoro a medio termine resta limitata». La capacità di previsione dell’andamento generale dell’economia è ristretta spesso non al medio periodo – sul lungo periodo, per dirla con Keynes, siamo tutti morti – ma anche al breve periodo, per cui un eccesso di dirigismo in materia è sconsigliabile. Tentare di calcolare il fabbisogno di laureati nei vari settori per poi tentare di indirizzare le scelte formative degli studenti può rivelarsi un azzardo, non solo perché è problematico determinare il primo numero, o per la difficoltà di indirizzare le scelte, ma per i danni che possono provocare le rigidità derivanti da un approccio pianificatorio.
Vi sono situazioni in cui la questione può essere posta in termini diretti: il servizio menziona il dato di 117.000 posti di lavoro offerti nel settore tecnico-artigianale che sono andati deserti. Questo riguarda però la formazione tecnico-professionale, un settore che era di eccellenza nella tradizione italiana è che stato disastrato da pessime riforme. Ma l’università è un’altra cosa. L’università fornisce un tipo di formazione completamente differente, che non mira a creare forza lavoro specificamente indirizzata verso questo o quel settore, salvo casi particolari. Pertanto, il problema è culturale: si tratta di decidere quale modello si vuole dell’università. I tassi di disoccupazione dei laureati del 2005 – peraltro non così drammatici – oscillano tra un massimo del 14% e un minimo del 2%. È significativo il fatto che il minimo sia toccato dalla facoltà di Medicina che prevede uno sbocco occupazionale univoco; e che di poco superiori siano quelli di facoltà come Farmacia e Ingegneria. Soffrono di più le facoltà “generaliste” e non soltanto Scienze Politiche o Lettere e Filosofia ma anche Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali. Se ne potrebbe concludere che il male sta nella visione classica dell’università, come luogo di formazione e di cultura generale; e che il modello da adottare sia quello di una marcata specializzazione. Sono in molti a indicare questa come “la” soluzione, ma siamo certi che la ricetta non aggravi il male?
Nel servizio si mette in luce la differenza tra le università private e quelle statali. Non è solo una questione di numeri: le prime possono adottare un indirizzo preciso (commerciale, economico, manageriale) che conduce a determinati sbocchi occupazionali e a non ad altri (nessuno si iscriverà alla Bocconi per fare il filologo classico) mentre le seconde non possono farlo. E non perché un rettore eviti di indirizzare la scelta degli studenti verso una facoltà piuttosto che verso un’altra per non irritare qualche componente accademica, ma perché un simile modo di operare non corrisponde alla missione universitaria tradizionalmente intesa. L’approccio generalista è obsoleto e sbagliato? Per dirlo non basta limitarsi a deprecare i troppi letterati e avvocati. Bisogna dimostrare che la scienza di base non serve e che la facoltà di Scienze può essere riassorbita da quella di Ingegneria. È difatti evidente che la formazione di un laureato in fisica o in matematica, ma anche in biologia, non configura uno sbocco professionale preciso, per quanto possa essere specialistica la tesi di laurea scelta. Per far progredire le scienze applicate non servono più fisici teorici, chimici o matematici? Sarebbe una tesi avventata a fronte di quello che insegna la storia della tecnologia, termine che vuol dire proprio questo: tecnica fondata sulla scienza. È difficile immaginare che un paese avanzato, che non si accontenti di vegetare sulle scoperte altrui, possa avere un futuro senza scienza di base.
Peraltro, lo sviluppo della tecnologia si è sempre avvalso di un atteggiamento lungimirante da parte delle imprese, consistente nel privilegiare le persone aventi una formazione di base e generale solida, proprio in quanto capaci di autonomia e di flessibilità, riservandosi di fornire in azienda le competenze specifiche. È da augurarsi che non prevalga la visione miope di cercare persone formate per mansioni particolari invece che dotate di flessibilità e autonomia intellettuale, modellando l’università su questi scopi ristretti, come un servizio di formazione addetti. Si parla tanto dell’esigenza di “imparare a imparare” e poi rischiamo di chiedere all’università di venir meno a una delle sue funzioni principali, “insegnare a imparare”.
Va inoltre osservato che il fatto che molti giovani cambino indirizzo non va considerato a priori come un “errore”. La scelta di cosa fare nella vita – che può non essere affatto quel che si farà per sempre! – è molto complessa e spesso il cambiare corso di laurea dopo un anno o due non è di per sé negativo, ma può essere il segnale di una maggiore consapevolezza che può condurre ad aggiustare efficacemente le proprie scelte.
Di certo, queste riserve non vogliono dire che il sistema universitario funzioni bene. Ma non convince che la via da seguire sia quella di un raccordo meccanico tra formazione e mercato del lavoro: una cinghia di trasmissione del genere, se troppo stretta, sarà dannosa per entrambi i settori. I mali dell’università sono ben noti e hanno origine nel modo sconsiderato con cui sono state fatte riforme che, in un diluvio di regolamentazioni minute e formalistiche, hanno mutato (e continuano a mutare) l’istituzione in un enorme, elefantiaco apparato burocratico in cui l’ultima delle funzioni è quella di insegnare e la prima quella di “gestire”. Oggi il percorso di uno studente non è quello di chi per cinque anni può pensare alla propria formazione, bensì quello di chi deve battersi per superare un percorso a ostacoli costituito da miriadi di esamini spezzettati in pochi crediti, in una parcellizzazione che disgrega qualsiasi valore culturale e non lascia spazio alla crescita di alcun autentico interesse. La vera riforma da fare è abbattere questa burocrazia e ripensare i contenuti culturali dell’università. Si lamenta tanto di avere troppi avvocati e troppi esperti in comunicazione e che la cultura scientifica sia trascurata? La via per valorizzare la cultura scientifica, di cui si proclama tanto la necessità, non è quella di trasformarla in percorsi direttamente applicativi, funzionali a uno sbocco professionale determinato a priori. Così non formeremo persone capaci e autonome, ma polli di batteria, per giunta spesso frustrati.
(Il Messaggero, 28 febbraio 2012)