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sabato 3 marzo 2012

Università e lavoro. No ai polli di batteria


L’ottima indagine che Marco Ferrante ha svolto per Il Messaggero sul rapporto tra università e mercato del lavoro offre molti spunti di riflessione che partono da un dato evidente: indirizzare le scelte del corso di laurea in modo che s’incontrino con l’offerta di lavoro resta un problema molto difficile e in buona parte irrisolto. È il caso di ricordare la conclusione del servizio: «Quello che sarà tra cinque o dieci anni è in parte una scommessa. La visibilità sul futuro del mercato del lavoro a medio termine resta limitata». La capacità di previsione dell’andamento generale dell’economia è ristretta spesso non al medio periodo – sul lungo periodo, per dirla con Keynes, siamo tutti morti – ma anche al breve periodo, per cui un eccesso di dirigismo in materia è sconsigliabile. Tentare di calcolare il fabbisogno di laureati nei vari settori per poi tentare di indirizzare le scelte formative degli studenti può rivelarsi un azzardo, non solo perché è problematico determinare il primo numero, o per la difficoltà di indirizzare le scelte, ma per i danni che possono provocare le rigidità derivanti da un approccio pianificatorio.
Vi sono situazioni in cui la questione può essere posta in termini diretti: il servizio menziona il dato di 117.000 posti di lavoro offerti nel settore tecnico-artigianale che sono andati deserti. Questo riguarda però la formazione tecnico-professionale, un settore che era di eccellenza nella tradizione italiana è che stato disastrato da pessime riforme. Ma l’università è un’altra cosa. L’università fornisce un tipo di formazione completamente differente, che non mira a creare forza lavoro specificamente indirizzata verso questo o quel settore, salvo casi particolari. Pertanto, il problema è culturale: si tratta di decidere quale modello si vuole dell’università. I tassi di disoccupazione dei laureati del 2005 – peraltro non così drammatici – oscillano tra un massimo del 14% e un minimo del 2%. È significativo il fatto che il minimo sia toccato dalla facoltà di Medicina che prevede uno sbocco occupazionale univoco; e che di poco superiori siano quelli di facoltà come Farmacia e Ingegneria. Soffrono di più le facoltà “generaliste” e non soltanto Scienze Politiche o Lettere e Filosofia ma anche Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali. Se ne potrebbe concludere che il male sta nella visione classica dell’università, come luogo di formazione e di cultura generale; e che il modello da adottare sia quello di una marcata specializzazione. Sono in molti a indicare questa come “la” soluzione, ma siamo certi che la ricetta non aggravi il male?
Nel servizio si mette in luce la differenza tra le università private e quelle statali. Non è solo una questione di numeri: le prime possono adottare un indirizzo preciso (commerciale, economico, manageriale) che conduce a determinati sbocchi occupazionali e a non ad altri (nessuno si iscriverà alla Bocconi per fare il filologo classico) mentre le seconde non possono farlo. E non perché un rettore eviti di indirizzare la scelta degli studenti verso una facoltà piuttosto che verso un’altra per non irritare qualche componente accademica, ma perché un simile modo di operare non corrisponde alla missione universitaria tradizionalmente intesa. L’approccio generalista è obsoleto e sbagliato? Per dirlo non basta limitarsi a deprecare i troppi letterati e avvocati. Bisogna dimostrare che la scienza di base non serve e che la facoltà di Scienze può essere riassorbita da quella di Ingegneria. È difatti evidente che la formazione di un laureato in fisica o in matematica, ma anche in biologia, non configura uno sbocco professionale preciso, per quanto possa essere specialistica la tesi di laurea scelta. Per far progredire le scienze applicate non servono più fisici teorici, chimici o matematici? Sarebbe una tesi avventata a fronte di quello che insegna la storia della tecnologia, termine che vuol dire proprio questo: tecnica fondata sulla scienza. È difficile immaginare che un paese avanzato, che non si accontenti di vegetare sulle scoperte altrui, possa avere un futuro senza scienza di base.
Peraltro, lo sviluppo della tecnologia si è sempre avvalso di un atteggiamento lungimirante da parte delle imprese, consistente nel privilegiare le persone aventi una formazione di base e generale solida, proprio in quanto capaci di autonomia e di flessibilità, riservandosi di fornire in azienda le competenze specifiche. È da augurarsi che non prevalga la visione miope di cercare persone formate per mansioni particolari invece che dotate di flessibilità e autonomia intellettuale, modellando l’università su questi scopi ristretti, come un servizio di formazione addetti. Si parla tanto dell’esigenza di “imparare a imparare” e poi rischiamo di chiedere all’università di venir meno a una delle sue funzioni principali, “insegnare a imparare”.
Va inoltre osservato che il fatto che molti giovani cambino indirizzo non va considerato a priori come un “errore”. La scelta di cosa fare nella vita – che può non essere affatto quel che si farà per sempre!  – è molto complessa e spesso il cambiare corso di laurea dopo un anno o due non è di per sé negativo, ma può essere il segnale di una maggiore consapevolezza che può condurre ad aggiustare efficacemente le proprie scelte.
Di certo, queste riserve non vogliono dire che il sistema universitario funzioni bene. Ma non convince che la via da seguire sia quella di un raccordo meccanico tra formazione e mercato del lavoro: una cinghia di trasmissione del genere, se troppo stretta, sarà dannosa per entrambi i settori. I mali dell’università sono ben noti e hanno origine nel modo sconsiderato con cui sono state fatte riforme che, in un diluvio di regolamentazioni minute e formalistiche, hanno mutato (e continuano a mutare) l’istituzione in un enorme, elefantiaco apparato burocratico in cui l’ultima delle funzioni è quella di insegnare e la prima quella di “gestire”. Oggi il percorso di uno studente non è quello di chi per cinque anni può pensare alla propria formazione, bensì quello di chi deve battersi per superare un percorso a ostacoli costituito da miriadi di esamini spezzettati in pochi crediti, in una parcellizzazione che disgrega qualsiasi valore culturale e non lascia spazio alla crescita di alcun autentico interesse. La vera riforma da fare è abbattere questa burocrazia e ripensare i contenuti culturali dell’università. Si lamenta tanto di avere troppi avvocati e troppi esperti in comunicazione e che la cultura scientifica sia trascurata? La via per valorizzare la cultura scientifica, di cui si proclama tanto la necessità, non è quella di trasformarla in percorsi direttamente applicativi, funzionali a uno sbocco professionale determinato a priori. Così non formeremo persone capaci e autonome, ma polli di batteria, per giunta spesso frustrati.
(Il Messaggero, 28 febbraio 2012)

11 commenti:

Luca P. ha detto...

Ha ragione lei, professore.

Io da parte mia preferirei mille volte collaboratori con una solida formazione di base invece di ottimi pratici con basi fragili. Il contrario è inutile e pericoloso. Inutile, perché la formazione universitaria pratica è inferiore a quella aziendale.
Pericoloso, perché al minimo problema serio mancano gli strumenti e l'attitudine data dalla disciplina scientifica di base.

Questa insistenza sulla formazione pratica forse è anche dovuta a una scarsa conoscenza, in molti politici e accademici, della produzione aziendale oppure a complessi di inferiorità (una delle espressioni buffe che usano è "il mondo del lavoro").

Ludwig Van Molleam ha detto...

Sono d'accordo con la sua impostazione. Credo però che criticheranno i dati sulla disoccupazione del laureati perchè in mezzo metteranno anche i lavori "squalificanti". Questo però rileva un problema di fondo, che è più culturale ed è responsabilità dei singoli laureati.

E' innegabilmente vero che le materie più "tecnologiche" permettono maggiore impiego dopo la laurea, mentre altre materie hanno effettivamente il problema di non offrire un immediato sbocco professionale e lavorativo.
A mio parere però il nocciolo della questione sta nella autoillusione da parte dei laureati di credere che la Laurea sia una sorta di lasciapassare per il mondo del lavoro, indipendentemente dalla professionalità acquisita nel corso degli studi (varrebbe la pena ricordare il lungo discorso di Luigi Einaudi sul valore legale del titolo di studio e sulle aspettative che tale legislazione genera).

Con ciò non si vuol dire (e qui concordo che molta della pubblicistica travisa in maniera interessata certe parole) che una laurea in Storia Antica o in Matematica Teorica sia priva di valore! Quello che operò non va nascosto è che lo sbocco professionale "naturale" di quelle lauree sta quasi sempre nella ricerca o nell'insegnamento, settori che sono però saturi e di "nicchia".

Il nocciolo del problema culturale sta, a mio avviso, nella incapacità, da parte di studenti e laureati, di vedere e immaginare usi professionalmente qualificanti per le competenze e conoscenze acquisite nel corso degli studi, o in alternativa, nella capacità di collegare altri tipi di professionalità con i propri studi.

E su questo punto, purtroppo, v'è un muro culturale ed ideologico che è parecchio faticoso abbattere.

Giorgio Israel ha detto...

Quando mi sono laureato, su un argomento iperastratto come la definizione algebrica di molteplicità, ho trovato due offerte di lavoro dell'IBM e dell'Italsiel. Difatti, una visione intelligente dell'impresa sta nel cercare gente che mostra capacità generali che implicano l'autonomia, creatività e flessibilità: le tecniche specifiche si apprendono in azienda. Non è vero che lo sbocco di quelle lauree deve essere per forza l'insegnamento o la ricerca. Conosco laureati in filosofia o filologia che lavorano in aziende informatiche in modo brillante. È l'azienda che si è immiserita nel suo modo di procedere. Negli USA era usuale che le aziende inviassero delle persone ad ascoltare dei seminari nelle università per ricavare idee (e non il contrario). Ora si sta invertendo l'andazzo, soprattutto da noi, come pretende Confindustria o il rettore della Luiss che vuol far fare gli stages in azienda ai docenti. Il risultato sarà un disastro, sia per le università, ridotte a servizio studi per Confindustria, sia per le aziende. Le grandi idee non nascono dal bricolage tecnologico.Il computer digitale è frutto di un modello teorico, e non di manipolazioni tecniche. Ma qui in Italia ormai "ricerca" è sinonimo di "innovazione tecnologica". Miseria culturale infinita.

Raffaella ha detto...

Sarà che l'azienda si è immiserita, ma per quella che è la mia esperienza, le aspettative che i datori di lavoro hanno nei confronti dei collaboratori laureati relativamente a quell’apertura mentale, autonomia, creatività e flessibilità che la loro formazione dovrebbe dare vengono, purtroppo, troppo spesso deluse; accade che giovani laureati non abbiano affatto “imparato a imparare”, dimostrandosi, come se non bastasse, anche poco disponibili ad iniziare dalla cosiddetta “gavetta”.
Così, da noi, finisce che la maggior parte delle assunzioni riguardi collaboratori che – benché privi di laurea – almeno si portano in dote una solida esperienza maturata in altre aziende. Eppure la nostra è un azienda che funziona benissimo, di piccole dimensioni (come la maggior parte delle imprese italiane) ma molto conosciuta anche a livello internazionale, che in periodi di crisi come questo continua a produrre profitto e a garantire lo stipendio a un discreto numero di famiglie.
Ma ripeto, questa è solo la mia esperienza, può darsi che sia l’eccezione che conferma la regola.

Pat Z ha detto...

E il problema ormai sta scoppiando in tutta la sua gravità, ancora più a monte: non sono solo le facoltà come Lettere o Matematica che soffrono, è lo stesso Liceo classico che deve sempre più giustificare la sua esistenza come scuola che fornisce una solida preparazione di base di fronte a studenti e famiglie che chiedono sempre più spesso: "A che serve studiare il greco antico, e il latino?" "A che serve la filosofia?" Una volta l'importanza di una formazione di questo tipo era considerata ovvia: era scontato che chi si apprestasse a svolgere professioni di un certo tipo dovesse una solida preparazione di base in certe discipline. Noi formavamo generazioni di medici, ma anche di ingegneri, al liceo classico: ed erano medici e ingegneri straordinari, che sapevano fare il loro mestiere, perché avevano basato le loro competenze professionali su una cultura più vasta, più completa, più aperta. Ora non succede più questo. Nel liceo classico dove insegno, quest'anno abbiamo avuto 25 iscrizioni "secche" in meno, cioè formiamo due classi e non tre, per la prima volta dopo vent'anni. Ci si è messa anche la riforma Gelmini a ridurre le ore di matematica, che già non erano molte (avevamo una meritoria sperimentazione che le aumentava, abolita dal nuovo ordinamento). Risultato: il liceo classico, che prima era una scuola che nell'opinione pubblica preparava a qualsiasi tipo di carriera, adesso è un antro per filologi e classicisti. Non abbiamo quasi più aspiranti medici tra i nostri studenti, perché le facoltà di medicina fanno dei test d'ammissione a quiz (mnemonici) da cui è stata da un paio d'anni eliminata anche la parte di cultura generale, in cui i nostri andavano forte. Abbiamo alunni che si sono trasferiti dal classico all'istituto tecnico biologico-sanitario sperando di entrare a medicina. E il bello è che poi ci riescono anche: certo, se fai 30 ore di biologia e 1 di italiano, forse ricorderai a memoria qualche formuletta in più, ma questo fa di te una persona culturalmente matura? Io dico che se le facoltà di medicina selezionano così i loro iscritti, a preoccuparsi devono essere le facoltà di medicina e non noi al liceo. Se la immagina, professore, la tragedia di una classe medica proveniente dagli istituti tecnici, del tutto priva di una formazione umanistica? Se lo immagina un medico così che le mette le mani addosso o fa una diagnosi? Ormai a quelli che mi chiedono a cosa serve il greco antico sa cosa rispondo? "A niente: il greco antico non serve A NIENTE, così come non servono a niente l'amore, la cura dei figli, la comprensione verso chi soffre, la rugiada, le albe, i tramonti, i libri che ci commuovono e ci fanno pensare e tutte le altre cose che ci rendono felici e rendono la nostra vita meritevole di essere vissuta. Tutte queste sono cose che non SERVONO a niente, perché hanno valore PER SE'. Ma chi non lo capisce è padronissimo di infischiarsene e di vivere la vita degli esseri bruti, "veluti pecora, quae natura prona atque ventri oboedientia finxit", che la natura ha plasmato proni a terra e obbedienti solo al loro ventre, come diceva, tanto per farvi un esempio, lo storico romano Sallustio". E a questo punto, quando parto con la frase latina, o mi prendono definitivamente per matta o cominciano a farsi qualche domanda sensata. Ma sono pochi, sempre di meno, i secondi.

Massimiliano ha detto...

Discussione ed interventi interessanti ...

Collaboratori laureati
Nella mia esperienza, una parte significativa, ma direi preponderante, della presunta delusione nei confronti dei laureati deriva in prima fase da un’errata analisi dei requisiti aziendali (serve veramente un laureato? Se l’azienda taglia tomaie per scarpe, ha bisogno di un Ph.D. in ingegneria meccanica, o sarebbe più utile un tecnico di manutenzione?) ed in seconda, qualora la figura sia effettivamente adeguata, alla riluttanza al riconoscimento economico del livello professionale: un ingegnere che per due anni redige progetti strutturali per uno stipendio di poco superiore (p.e. cento euro netti o giù di lì) a quello della segretaria amministrativa (lavoro degno quanto il suo, ma che richiede un investimento di gran lunga inferiore), tenderà nel medio termine, diciamo due anni, a cercare qualcos’altro o a ridurre il suo impegno.
Proprio per questo sarei veramente curioso, anche se comprendo che una tradizione di riservatezza impedisce di parlarne apertamente, di conoscere i dettagli e le specifiche modalità operative di questa delusione aziendale nei confronti dei collaboratori laureati. Anche perché, se devo essere sincero, io non ho mai capito cosa sia l’eccezione che conferma la regola.

Liceo classico
Anche qui, sulla base della mia esperienza, la relazione tra liceo classico (che a suo tempo ho frequentato con alto rendimento e perfino con qualche divertimento, giusto per escludere risentimenti) e prestazioni prima universitarie e poi professionali rimane tutta da dimostrare: sarei incerto su classificarla tra nulla o negativa (ma quest’ultima valutazione è influenzata dal corso universitario, Fisica, in cui la mortalità studentesca fu maggiore tra i provenienti dal liceo classico), e considerarla comunque una leggenda metropolitana. Poi, è vero che se una scuola, come accadeva all’epoca dei miei studi liceali, tende in qualche modo (per fama di durezza o simili passaparola) a selezionare gli studenti che già hanno conseguito i migliori risultati, è ovvio che questi avranno una maggiore probabilità di distinguersi in seguito.

Raffaella ha detto...

Ci si aspetta che il Ph .D. di ingegneria meccanica, accettando di collaborare con l’azienda che lo ha contattato o c/o la quale si è candidato, abbia senz’altro valutato se il ruolo offerto nel reparto di taglio delle tomaie è in linea con le sue aspettative e formazione. Accanto alle errate analisi dei requisiti aziendali mettiamoci quindi anche le errate valutazioni da parte di candidati con idee non proprio chiarissime sul loro futuro; ed aggiungiamo i casi di giovani laureati che, per sbarcare il lunario, sono costretti purtroppo, loro malgrado, ad accettare consapevolmente anche ruoli inadatti.
Questi deficit di motivazione (che ben presto si trasformeranno in motivo di delusione per entrambe le parti) vengono mascherati molto bene durante i colloqui iniziali ed è facile non accorgersene subito; nelle piccole aziende chi si occupa del recruitment molte volte è il titolare stesso, che sceglie i collaboratori fidandosi molto (evidentemente anche sbagliando) più del proprio intuito che dei consulenti esperti in selezione del personale.
Ci sono poi i casi di quelli che si sentono frustrati nell'affrontare la normale "gavetta” e non capiscono che, se c’è un vantaggio nel lavorare in un contesto di piccole dimensioni, è quello di riuscire con molta facilità a distinguersi (se si hanno le capacità) e perciò ad emergerne in brevissimo tempo.
Infine (li metto per ultimi per ordine di casi riscontrati nella nostra realtà) ci sono coloro che, nonostante gli anni di studio, non sanno produrre un testo minimamente complesso che sia comprensibile e corretto.
Quanto agli stipendi, il titolare della piccola azienda valuta i collaboratori non tanto dai titoli accademici o dalla complessità delle mansioni che svolgono, quanto dall’utilità che PER LUI rivestono; generalmente, i collaboratori ritenuti indispensabili (o quasi) vengono anche molto bene retribuiti, dalla segretaria amministrativa zelante e metodica che conosce ogni anfratto contabile dell’azienda al tecnico della manutenzione che fa funzionare il reparto con la precisione di un orologio svizzero.

Luigi Sammartino ha detto...

Negli ultimi 15 anni il livello medio degli ingegneri é molto sceso. Il perché di questo non lo so, e molte volte mi domando addirittura come abbiano fatto ad arrivare alla laurea. Se un'azienda perció assume un ingegnere e poi ne rimane delusa non me ne stupisco.

Al tempo stesso peró l'imprenditoria italiana ha da molti anni smesso di investire in ricerca e produzione di tecnologia. Di conseguenza, un brillante neolaureato in discipline scientifiche e tecnologiche, se vuole dedicarsi ad un lavoro che stimola il cervello, deve necessariamente andare fuori cofine.

Infine, vorrei sapere da dove esce fuori questa storia che per i matematici non c'e lavoro. Non mi risulta proprio...anzi!!! E lo dico con estrema invidia.

Massimiliano ha detto...

Sempre riferendomi alla mia esperienza (si può discuterne la significatività statistica o la correttezza di interpretazione, ma si riferisce ad eventi reali) mi sento di affermare che non di rado questa valutazione il laureato (o anche il dottorato, che la difficoltà della carriera accademica rende una figura meno rara anche in ambito aziendale) non è in grado di farla, sia per asimmetria informativa che per le specifiche modalità di realizzazione dell’attività. Quando poi, per avvedutezza intrinseca o per esperienza acquisita, è invece in grado di prevedere simili rischi, in genere non si presenta nemmeno al colloquio. Se devo essere sincero, il cumulo di deficit motivazionali, stato di necessità (condizioni che non sono comunque peculiari dei soli laureati) ed inadeguatezza manifestata, lascia spazio al dubbio che la posizione non sia in grado di attirare le candidature più qualificate. È sempre bene interrogarsi su questo punto, tuttavia, non conoscendo i dettagli, e non potendo quindi stimare costi e benefici, mi limito a registrare quest’evenienza come mera possibilità. Inidoneità del personale (laureato e non) da una parte e inadeguatezza aziendale nella formulazione dei requisiti dei candidati di profilo professionale dall’altra sono situazioni comuni, ma (sempre in base alla mia esperienza, giova ripeterlo) se esiste una volontà precisa (i.e. se esiste la convenienza di farlo), il secondo problema è sempre risolvibile: il problema è che un buon ingegnere, o buon professionista in generale, dalla capacità evidente e dalla preparazione dimostrabile, costa, anche in tempi di crisi; se non si vuole affrontare questo costo e si privilegiano altre logiche, il rischio è lo stesso che si corre quando si compra un’auto usata.
Su mansioni operative, ovviamente, un buon dipendente è sempre meglio di un cattivo dipendente, la produttività può variare anche di un fattore 30, ma le differenze di retribuzione sono molto più contenute (spesso nulle: si applicano i CCNL e basta). Non escludo che possa capitare che siano “molto bene retribuiti”, ma anche se non ho una profonda conoscenza del mondo PMI, conosco diversa gente che vi lavora e mi risulta una realtà ben diversa. Le figure menzionate (segretaria amministrativa e tecnico di manutenzione) nella mia esperienza (ancora? Preferisco ripetermi: non pretendo di eleggerla a legge universale, è però maturata nell’azienda medio-grande, non nella piccola impresa, può darsi che sia una differenza sostanziale: i problemi spesso sono gli stessi, ma i motivi di base molto diversi) richiedevano (parlo al passato, si tratta di anni fa) tre mesi, tra formazione di base e tirocinio in linea, per essere rese produttive, e l’”indispensabilità” diventa relativa: non so dire molto sui “meandri amministrativi”, ma dal tecnico di manutenzione ci si aspettava esattamente che, almeno nell’ordinario, facesse funzionare i dispositivi come orologi svizzeri (seguendo nei casi più complessi le specifiche di messa a punto redatte dall’ingegnere e riportandogli prontamente qualsiasi anomalia). Anche se la successiva esperienza aggiungeva molto, non è mai capitato che zelo od abilità portassero oltre la fascia dei livelli retributivi contrattuali previsti. Forse nella piccola impresa può capitare che la segretaria svolga il lavoro del commercialista, ed il tecnico diventi un meccanico di precisione od un supervisore, ma sono operativamente altri profili.
Mi accorgo di essermi dilungato, ma il rapporto tra formazione universitaria ed attività lavorativa/professionale è un problema che mi trovo tuttora ad affrontare, ed una delle maggiori difficoltà che incontro è la vaghezza con cui le situazioni attinenti vengono descritte e l'inaffidabilità delle fonti istituzionali (p.e. il presunto fabbisogno insoddisfatto di personale specializzato spesso riferito dai giornali), che limitano la visibilità alla propria esperienza diretta.

Raffaella ha detto...

Fornisco qualche dettaglio di quanto osservato, senza voler attribuire a ciò alcun valore statistico, naturalmente, al pari di Massimiliano.

Indispensabilità e applicazione CCNL
Nella grande azienda, l’efficientissimo sistema di CRM si avvaleva di una serie di programmi automatizzati supportati da un database contenente le informazioni di tutti i clienti; si avvaleva inoltre di una serie di precise procedure dove erano stabilite le regole con le quali i clienti ed il personale dell’azienda dovevano interagire, affinché queste interazioni potessero essere registrate ed analizzate.
La sostituzione di un addetto dell’ufficio commerciale o marketing non richiedeva più di qualche mese di addestramento, perché alla sua “dipartita” sopravvivevano le procedure, il software e la supervisione del responsabile di area.
Nella piccola azienda il CRM si avvale delle informazioni registrate….. nella testa dei collaboratori; idem per le procedure. Il titolare ha un incontro importante? Anche se sei in ferie, ti chiama e ti chiede di fornirgli tutte le informazioni che gli possono essere utili, dall’incidenza che le varie promozioni hanno sul fatturato, al nome del figlio che gli è nato 1 settimana prima. In questo senso si realizza “l’indispensabilità”. Ci vorranno molti più mesi e forse anni per ricostruire il patrimonio di informazioni che si porta via un collaboratore di una piccola azienda che eventualmente decidesse di andarsene. Ecco perché in diversi casi si va oltre la retribuzione minima prevista dal CCNL

Flessibilità
Si deve decidere quanto investire per un’attività pubblicitaria? Si chiede alla zelante addetta amministrativa un analisi sui bilanci degli ultimi 5 anni; la stessa addetta preparerà le fotocopie e durante la riunione porterà i caffè. Le potrà capitare di andare in posta a ritirare le raccomandate perché la centralinista è ammalata, oppure di dare assistenza al personale dell’ufficio delle entrate che all’improvviso viene in azienda per un controllo. Nella grande azienda probabilmente si sarebbe occupata unicamente di registrare i pagamenti dei fornitori.
Non tutti i laureati che entrano nelle piccole realtà accettano anche compiti non all’altezza delle loro aspettative o qualifiche.
I migliori ambiranno certamente alle aziende più blasonate, grandi e strutturate (sperando però di non finire in un ufficio tecnico a far copie di disegni tutto il giorno), ma il 90% delle imprese italiane è di tutt’altro tipo; aziende che peraltro, come dice Luigi Sammartino, hanno generalmente smesso di investire in ricerca e produzione di tecnologia.

Concordo con Luigi Sammartino anche quando osserva come il livello medio delle lauree (parlava però degli ingegneri) sia molto sceso negli ultimi anni; e posso immaginare pure perché. Basta vedere dov’è caduto il livello della scuola primaria odierna. Così, quando mi capita di chiedere ad un collaboratore (diplomato o laureato che sia) di scorporare l’I.V.A da un prezzo, non mi stupisco più quando la risposta è “prendi il prezzo e togli il 21%”.

Massimiliano ha detto...

Le esperienze riferite sono decisamente interessanti, ma ho ancora difficoltà a rappresentarmi con qualche precisione quali siano i bisogni che il 90% delle aziende italiane possa avere di laureati. Per quel poco che ho avuto a che fare con le PMI, spesso vengono assunti senza una nemmeno vaga idea di impiego (non che sia raro anche nella grande azienda), e, se devo essere sincero, gli interventi sembrano confermare questa impressione.
Sul livello medio dei laureati, non sono al momento in grado di dedurre considerazioni generali dalle mie singole esperienze, ma per quanto riguarda la fascia medio-alta degli studenti in Fisica (ed intendo con questo coloro che hanno un pur minimo interesse e talento per l’ambito disciplinare, e non sono pochi, anzi sono in grande eccesso sul mercato), le loro conoscenze, anche grazie alla moltiplicazione dei testi e dei materiali di supporto, soprattutto alla loro immediata disponibilità in rete, sono sensibilmente superiori rispetto ai tempi dei miei studi.

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