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sabato 27 ottobre 2012

Un ricordo di Marcello Cini


Il ricordo più vivo che ho di Marcello Cini è di una cena a tre con mia moglie, qualche anno fa, in un piccolo ristorante di un paesino maremmano. Per un uomo di apparenza altera – un gran signore nei modi – e in realtà profondamente timido, era il clima giusto per aprirsi. Raccontò della sua giovinezza, di com’era stato un fisico fortunato, in un periodo in cui per un giovane ricercatore brillante era possibile trovarsi accanto ai grandissimi della fisica, in un mondo della ricerca che sembrava marciare senza posa di scoperta in scoperta. Ma l’amata fisica era divenuta una delusione per Cini, che aveva ormai compreso che troppe erano le interrelazioni, troppi gli elementi in gioco perché il modello riduzionista potesse reggere. Questa consapevolezza lo aveva indotto a esplorare nuovi approcci come quello della complessità, suscitando le ironie dei suoi colleghi ancorati al paradigma tradizionale – ironie sussurrate nei corridoi, perché troppo era il suo prestigio – che tendevano a dare di lui l’immagine di un fisico “pentito”, che si era lasciato sedurre da fumisterie tra il filosofico e il letterario. Invece era proprio questa la marcia in più di Marcello Cini: essere più ancora che un fisico, un intellettuale a tutto tondo, che non riusciva a pensare la  scienza se non in un contesto che includeva storia, filosofia, politica, società.
La sua presenza ha accompagnato tutta la mia vita universitaria, dagli anni post-sessantottini, quando, da poco laureato, entrai nel Seminario di Storia della Scienza di cui era l’animatore, fino alla collaborazione nel Centro di Metodologia delle Scienze dell’Università “La Sapienza” in cui gli subentrai nell’incarico di direttore. Era una presenza che intimidiva, malgrado il suo eloquio incespicante e un po’ freddo. Ed era un rapporto non facile, perché Cini era tanto capace di cambiare opinioni con la massima libertà di pensiero quanto intransigente. Non so quanti siano riusciti a non litigare qualche volta con lui. Per parte mia, ricordo l’ira con cui accolse la mia recensione critica del celebre L’Ape e l’architetto e, in tempi recenti, il dissenso sull’appello contro la visita di Benedetto XVI alla Sapienza. Le sue scelte politiche furono sempre molto nette e radicali. Ma chi si occupa di scienza e la cultura italiana in generale deve a Marcello Cini molte cose importanti.
In primo luogo, gli si deve la diffusione di una letteratura – tra cui le opere di Thomas Kuhn, Paul Feyerabend e Imre Lakatos – cui allora i guardiani del più piatto scientismo opponevano una feroce scomunica, tacciandole di essere roba da maghi e fattucchiere. Le sue visioni critiche della scienza ebbero una funzione esplosiva nella sinistra cristallizzata in uno scientismo oscillante tra una sorta di crocianesimo marxista e l’ortodossia materialistico dialettica di Ludovico Geymonat.
Tanti furono i suoi progetti e molte le disillusioni, come ammise con franchezza. Il titolo di uno dei suoi ultimi libri, Il paradiso perduto parla da solo circa la sua disillusione nei confronti della fisica. S’interessò alle teorie della “complessità” ma ammise trattarsi di un concetto ambiguo. Si aprì sempre più all’interesse per la biologia in una prospettiva non riduzionista.
Della sua opposizione al dogmatismo scientista voglio ricordare un episodio per cui ho un debito di riconoscenza: l’energia con cui patrocinò la pubblicazione del mio La macchina vivente di fronte ai rifiuti editoriali che lo tacciavano di opera “spiritualista”. Ho condiviso poco del suo percorso politico ma condivido in pieno l’idea – che abbia o no accenti marxisti, poco importa – che la fonte di tutti i guai presenti sia la tendenza a ridurre l’immateriale a merce. Lo si vede proprio nel momento della sua scomparsa, quando la figura di un grande intellettuale risalta in un deserto culturale in cui il movente della scienza non è più identificato nella conoscenza ma nella manipolazione dell’umano.
(Il Foglio, 25 ottobre 2012)

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