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venerdì 24 maggio 2013

Asportazione preventiva degli organi, la resa della medicina


Dopo il caso di Angelina Jolie ecco quello di un cinquantenne inglese che si è fatto asportare preventivamente la prostata avendo scoperto di essere portatore del gene difettoso BRCA2. Chi difende questo andazzo fa appello al severo monito delle certezze scientifiche. Ma la scienza offre raramente certezze e il vero spirito scientifico è soprattutto una pratica del dubbio critico. Quando, da studente, chiesi a un noto matematico consigli sul modo migliore di studiare mi rispose: «Tenti di dimostrare in tutti i modi che quel che legge o le viene detto è falso». Le certezze sono un materiale altamente pericoloso. Nel campo medico, i casi in cui uno stato genetico implica con certezza il prodursi di una malattia sono pochissimi. Per il resto, si possono fare solo stime di probabilità e il calcolo delle probabilità è una delle scienze più irte di trabocchetti.
È evidente a chiunque che, se lancio una moneta non truccata, la probabilità che esca testa (o croce) è il 50%, anche se, nella realtà, la moneta potrebbe spaccarsi o restare in bilico. È una stima basata sul ragionamento, che trova conferma solo dopo migliaia di lanci, quando il numero di teste o croci è quasi uguale. Ma le situazioni non sono quasi mai così semplici e la determinazione delle probabilità di contrarre il cancro perché si è portatori del gene BRCA1 o BRCA2 è ben più complicata. La difficoltà con le probabilità ricavate da dati empirici è che si basano su campioni che debbono essere rappresentativi della popolazione globale. Nel nostro caso, l’unico modo attendibile sarebbe di fare uno “screening” genetico su un campione numeroso e ben miscelato di individui sani e seguire negli anni l’evoluzione della loro salute. Poiché questo è praticamente impossibile si procede stimando quanti tra i malati sono portatori del difetto genetico. Pur ammettendo che i campioni di malati siano rappresentativi, non lo sono della popolazione totale. Se anche si scoprisse che un terzo di questi malati è geneticamente difettoso, non si può escludere che lo sia anche un terzo o più della popolazione totale (inclusi quindi coloro che non contrarranno la malattia). Se poi – stando alle dichiarazioni degli oncologi – le percentuali sono nettamente più basse, parlare di interventi chirurgici preventivi è a dir poco avventato. Dal punto di vista scientifico si tratta di correlazioni troppo deboli per determinare scelte di vita di enorme portata. Una visione seria dovrebbe considerare assieme tutti gli altri fattori di malattia per non dire il rischio di finire sotto un’automobile o di morire di infarto per un dispiacere. Eliminarli tutti –unico atto davvero scientifico – equivarebbe a decidere di non vivere. Comunque, una donna che proceda alla mastectomia o un uomo alla prostatectomia, preventivamente e non per malattia conclamata, potrebbero non ammalarsi mai; o forse si ammaleranno, ma non essendosi negata la possibilità di avere figli e di vivere una vita piena, invece di mutilarla in omaggio a un dubbio calcolo di probabilità.
I dissesti sociali e psicologici derivanti da un simile approccio sono evidenti e si legano a un male delle nostre società: la considerazione della malattie, e soprattutto delle malattie mortali, come eventi terrificanti e vergognosi da sopprimere con ogni mezzo, nell’illusione che possano essere cancellati del tutto dal panorama della vita umana.
Tutto ciò conduce al tema dello statuto della medicina. Un tempo essa si limitava a una funzione meramente palliativa nei confronti di colui che si rivolgeva al medico “sentendosi” malato. L’enorme progresso della medicina scientifica è di aver costruito gli strumenti per analizzare oggettivamente la malattia, non solo per curarla più efficacemente ma per scoprire la sua presenza ai primi stadi in cui il malato “non sa di esserlo”. Il passo successivo ha messo in gioco la prevenzione e l’obbiettivo più ambizioso: scoprire il “potenziale malato inconsapevole”. La prevenzione è il tema più importante di tutti. Esso riguarda la relazione tra malattie e stili di vita e richiede un grande impegno per la complessità dei problemi in gioco. Il secondo è assai più problematico: non solo perché è avventato ridurre a tutto a cause genetiche, o anche considerarle preponderanti, ma per la leggerezza con cui si pretende di fare previsioni esatte in un campo come quello biologico enormemente più complesso di altri ambiti in cui pure la previsione affanna. Sarebbe una perdita drammatica se un’attività complessa come la medicina – che mette in gioco tecnica, scienza e molte altre conoscenze e “arti” – perdesse il nucleo della sua ricchezza, la clinica, per ridursi a un dipartimento della genetica. La medicina ha in primo luogo come oggetto le persone, e non particelle materiali determinate da leggi cieche. E le persone vanno pensate nella loro individualità soggettiva che rappresenta ciascuna un caso a sé stante che coinvolge una molteplicità di aspetti di cui quello genetico è solo uno, e forse neppure il più importante.

(Il Messaggero, 23 maggio 2013)

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