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venerdì 9 maggio 2014

L'Europa si salva valorizzando le identità e le culture nazionali

«Non vogliamo meno Europa, vogliamo più Europa, ma un’Europa diversa». È una formula che sentiamo ripetere continuamente ma che, allo stadio di vuoto slogan, è inefficace contro il dilagare di movimenti euroscettici o cosiddetti “populisti”. È vero che talora si specifica che s’intende togliere potere alle tecnocrazie di Bruxelles, che si vuole l’elezione diretta dei poteri politici europei da parte dei cittadini e dare potere alla Banca Centrale Europea di stampare moneta. Ma questo è quanto dare obbiettivi che, allo stato, sono di un irrealismo stratosferico se non si indica come realizzarli concretamente. Non è dando qualche pugno sul tavolo a Bruxelles che si toglieranno argomenti all’euroscetticismo montante che non ha poche frecce al suo arco.
Per essere concreti occorrerebbe affrontare davvero il tema del rapporto tra poteri degli stati nazionali e poteri europei, senza far credere alla favola che la soluzione consista in una semplice “devolution” politica: definire le modalità di una elezione democratica di poteri politici centrali dell’Unione è una pagina bianca che nessuno sa neanche come iniziare a riempire. Tutto questo accade perché per anni si è creduto di risolvere il problema spogliando progressivamente gli stati nazionali di poteri, a tutti i livelli, senza guardare dove andavano a finire, senza gestire la natura democratica di questo trasferimento; e si continua ciecamente nell’errore. Certo: questo è accaduto per la convinzione fondata che erano stati i nazionalismi a produrre i disastri del Novecento. Ma era anche una convinzione unilaterale che non ne aveva colto la matrice profonda, bene individuata dallo storico François Furet quando osservò che la catastrofe fabbricata dagli europei derivava dall’aver estremizzato le due figure delle democrazie: il nazionale e l’universale. I totalitarismi del Novecento sono stati la patologia del nazionale e dell’universale e la matrice della catastrofe è stata la combinazione di questi due fattori. I padri della costruzione europea erano consapevoli del fatto che non era possibile procedere semplicisticamente alla soppressione di dimensioni nazionali che, in Europa, hanno uno spessore storico enorme, e che bisognava procedere per passi. Poi, però, è prevalsa l’idea superficiale che l’unica via fosse curare la patologia del nazionale, con una versione corretta (politicamente corretta) della patologia dell’universale che attribuisce un ruolo salvifico alla gestione tecnica neutrale e meramente economicistica. Se non prendiamo atto una buona volta di dove ci abbia condotto questa visione unilaterale sarà vano opporsi alla deriva antieuropea.
È inutile e puerile parlare di democrazia europea e di elezioni dirette se non si capisce che il problema della democrazia non ha altri punti di riferimenti se non l’esperienza degli stati nazionali e, quindi, che è di qui che bisogna ripartire per pensare – faticosamente e lentamente – a qualcosa di unificante. È ignorare totalmente la storia dimenticare che l’idea democratica si è sviluppata in modo contestuale alla formazione degli stati nazionali moderni. È dalla fine del Settecento che il problema della rappresentanza politica della volontà popolare è divenuto un tema centrale, conducendo fino al suffragio universale, al ruolo determinante dei parlamenti. E che dire dell’introduzione dell’istruzione di massa, persino universale e obbligatoria, al ruolo assunto dalla scienza e dalla tecnologia nello sviluppo sociale ed economico? Tutti questi fattori – senza cui l’Europa sarebbe un continente irrilevante – sono legati indissolubilmente alla formazione degli stati nazionali. Questo è particolarmente vero per l’Italia che, se è ancora un paese rilevante a livello mondiale, è perché ha costruito con la fondazione dello stato nazionale istituzioni democratiche e un’istruzione unitaria di alto livello. Dimenticare tutto questo o, peggio, pensare di cancellarlo senza un’alternativa altrettanto chiara – e basata sulla democrazia – significa ritrovarsi sulla terra bruciata. Significa ritrovarsi dove stiamo finendo. Poiché nessuno può fare a meno di colpo, e neppure rapidamente, di identità culturali e istituzioni consolidate a profitto di poteri lontani, incontrollabili e al contempo pesantemente intrusivi, la risposta è il rifugio in un localismo sempre più frammentato: è il panorama che si profila con la prospettiva della drammatica disgregazione delle realtà nazionali a profitto di realtà locali deboli, mentre nessuno sa come sostituire un potere eurotecnocratico sempre meno credibile.
È né più né meno che il ritorno al panorama del Medioevo. Quel che è tragico e che, se si guarda a ciò che è stato fatto in tema di cultura e di istruzione – un tema centrale da troppi trascurato o trattato in modo superficiale – non si tratta di una battuta: proprio il modello medioevale è stato irresponsabilmente proposto. Nelle dichiarazioni di Sorbona e di Bologna si parlava allegramente delle università medioevali come un modello da seguire per gli scambi culturali, senza rendersi conto che indicare come riferimento per una società contemporanea istituzioni basate sulle scienze giuridiche, la teologia e la medicina era una pura e semplice pazzia. Certo, sappiamo bene che far dialogare culture nazionali forti, che hanno dietro secoli di letteratura, ruotanti attorno alle lingue tra le più strutturate del mondo, non è facile: ma questo è il passaggio inevitabile da affrontare che non si poteva, e non si può risolvere, riducendo miseramente la cultura alle otto “competenze chiave” di Lisbona che si limitano a stabilire criteri minimali per la circolazione della forza-lavoro. La riduzione del problema delle lingue a una mera questione di comunicazione – come se le lingue non fossero innanzitutto espressioni di culture – è tipico di un approccio demolitorio che ha come sbocco solo l’imbarbarimento. Senza dire che l’idea di definire con circolari burocratiche che cos’è la conoscenza (la matematica, la letteratura, le scienze naturali) è grottesca e dalle conseguenze devastanti. È accettando come regole prescrittive quelle che sono soltanto esortazioni burocratiche che si sono messe in mano le culture e i sistemi d’istruzione nazionali a gruppi che ne hanno una visione meramente tecnica e che sembrano mossi dal solo intento di demolirle.
Se non vogliamo essere costretti, prima o poi, ammettere amaramente che l’unica formula ragionevole era quella di De Gaulle dell’“Europa delle patrie”, occorrerà ripartire da una valorizzazione degli aspetti positivi delle identità e delle culture nazionali e da un rafforzamento della qualità delle istituzioni nazionali: da dove altrimenti potremo trarre idee ed energie per l’opera di creazione di un’Europa basata sulla democrazia, la politica, la cultura e l’istruzione?


(Il Messaggero, 7 maggio 2014)

10 commenti:

Bhrihskwobhloukstroy ha detto...

Coltivare le specificità nazionali e persino regionali è uno dei modi di uscire dal declino. La storia è una continuità: ogni volta che la continuità viene interrotta ci vogliono anche centinaia d'anni per recuperare il perduto. Il "darwinismo" nell'istruzione non paga: abolire per poi dover subito trovare un rimedio ai danni prodotti dall'abolizione è profondamente stupido. Pensate che in Inghilterra per studiare il latino i ragazzini poveri si affidano alla buona volontà dei pastori anglicani, mentre fino agli anni Sessanta la materia era curricolare. Non parliamo poi del greco: si puà studiare comodamente a Eton pagando 30000 sterline l'anno: ai comuni mortali non è consentito.

Luigi Sammartino ha detto...

C'è però da dire che la crisi dell'euro ha messo in risalto come gli interessi nazionali si siano mostrati ancora preponderanti rispetto ai bisogni generali.
A me poi viene in mente il patriottismo di fine Ottocento che prese una via degenerativa (sempre espressione degli interessi nazionali) e il cui prezzo è stato atroce.
Per me l'Europa unita è un bel principio. Bisognerebbe però prendere ciò che di buono la cultura europea ci ha tramandato e tentare di raschiare via quanto di tremendo è stato fatto.
Per quanto riguarda la scuola, io credo che l'istruzione pubblica obbligatoria andrebbe unificata anch'essa a livello europeo e che la storia dovrebbe essere una delle discipline più importanti in un tale sistema unificato.
So che con questa opinione genero delle polemiche. Tuttavia chi, se non lo storico, può educare le nuove generazioni a conoscere bene gli altri paesi europei e a valorizzare ciò che di buono ciascuno di essi è stato in grado di apportare?
Cordialmente.

Raffaella ha detto...

Cosa ne pensate del liceo classico europeo, cioè l’ indirizzo di studi che affianca alle discipline proprie del liceo italiano una dimensione europea, anche se ciò significa approfondire di meno lo studio del greco e del latino a vantaggio dei temi economici, giuridici e dello studio (serio) dell’inglese e del tedesco? Non si può non prendere in considerazione che i livelli attuali di disoccupazione potrebbero mantenersi molto a lungo (se non addirittura peggiorare) e che un numero crescente di giovani diplomati/laureati potrebbe essere costretti a cercare un’occupazione al di fuori del nostro Paese; a meno che questi ragazzi non siano particolarmente brillanti o appartengano a famiglie colte e benestanti, oppure assoggettate al feudatario di turno, è bene prepararli affinchè non affrontino sprovveduti tale eventualità. Il liceo classico europeo mi pare risponda bene a questa esigenza.

Giorgio Israel ha detto...

È un controsenso che un continente la cui cultura è tutta radicata nella matrice greca e latina faccia un liceo classico in cui se ne fa di meno, e – come al solito - la butti tutto sull'economico e il giuridico (e poi perché inglese e tedesco e non francese?). Esiste uno spazio enorme di occupazione sul terreno dei beni culturali in un continente che ne raccoglie la maggior parte del mondo, ma di valorizzare questo non importa un fico a nessuno. E se uno vuole trovare un altro tipo di occupazione non c'è bisogno che faccia il liceo classico. Lasciamo perdere le trovate inventate dai burocrati di turno.

Raffaella ha detto...

Professore, Lei ha ragione, a nessuno importa sfruttare il nostro patrimonio culturale per creare posti di lavoro; ma visto che anche altri settori occupazionali non brillano per abbondanza di opportunità, andare all’estero potrebbe diventare una necessità; in tal caso, conoscere bene la lingua del paese ospitate è sicuramente un vantaggio. Abito in Friuli (per questo ho menzionato il tedesco) e uno dei pochissimi istituiti superiori dove le lingue straniere si apprendono molto bene è proprio il liceo linguistico europeo.

Fausto di Biase ha detto...

C'e` una proposta concreta che NON e` di un "irrealismo stratosferico":

lo smantellamento controllato dell'eurozona, articolato nel Manifesto di Solidarieta` Europea [1], firmato da economisti come anche da personalita` del mondo politico e finanziario (ad esempio Fritz Bolkestein, che e` stato membro della Commissione Europea).

E` ormai chiaro [2] che smantellare l'eurozona e` condizione necessaria (ma non sufficiente [3]) per risolvere la gravissima crisi in atto, che sta facendo evaporare tutti i progressi compiuti gradualmente negli ultimi anni in Europa.

Farlo sarebbe certamente un segnale di solidarieta` e di concretezza politica. Continuare a parlare di massimi sistemi e di "Europa", confondendo l'euro con l'Europa, come continuano a fare i nostri politici (ma ci sono o ci fanno?), significa purtroppo nascondere la testa sotto la sabbia.

Riferimenti.

[1]. http://www.european-solidarity.eu/index.php

[2] http://www.european-solidarity.eu/importantlinks.php

[3] Cf. il libro "Il tramonto dell'Euro", di Alberto Bagnai.

Pat Z ha detto...

Diminuire le ore di latino e greco al liceo classico significa demolire l'insegnamento, come già ampiamente dimostrato da ciò che sta succedendo allo scientifico, dove aver tolto un'ora di latino e una d'italiano (questo lo hanno fatto anche da noi!) ha portato i loro programmi a sviluppare in quarta quello che io faccio in prima. A parte il fatto che le lingue moderne già si studiano abbondantemente grazie ai lettori e ai vari corsi di decine di ore fatti nel pomeriggio e finanziati dalle regioni e dalle istituzioni europee (tant'è vero che poi si fatica a far studiare i pargoli al mattino), e i nostri alunni ormai escono tutti dal liceo col livello di conoscenza B2 o talora anche C1; a parte questo, comunque, il vero problema è che la perdita di cultura che un simile trattamento dimagrante per il greco e il latino (purtroppo già attuato in molti posti e in molti modi) comporta è catastrofica. Si diplomano generazioni completamente ignare di chi siano e da dove vengano, che non hanno la più pallida idea di cosa ci sia scritto nell'Iliade e nell'Odissea, per non parlare dell'Eneide e di una valanga di altre opere fondamentali che hanno costruito la cultura e l'identità occidentale in secoli e secoli. Io faccio salti mortali per riuscire a dare nell'arco del triennio, col poco tempo che ho a disposizione, un bagaglio culturale dignitoso ai miei alunni, che poi si rendono conto da grandi di quanto è stato prezioso; e posso assicurare che tornano a ringraziarci dopo anni. Nei miei programmi di latino e greco, che partono dalla civiltà micenea e dal lapis niger, arrivo fino al cristianesimo, all'apologetica e alla patristica, e non sono certo l'unica. Studiamo la tradizione e la critica del testo, la nozione di letteratura e il suo variare nella storia, collaboriamo coi docenti di filosofia e di materie scientifiche, traduciamo la Fisica di Aristotele. I nostri alunni, se li riteniamo in grado di farlo, partecipano a certamina qualificati e sempre con buoni risultati. D'estate prendiamo parte a scavi archeologici con le università aperti agli studenti che lo desiderano. Sono tutte attività altamente formative. Perché c'è tanta gente che pensa che non servano a niente? Non ce l'ho con lei, Raffaella, ma a volte è facile, non standoci proprio dentro, sottostimare l'immenso valore del lavoro che continuiamo a fare nonostante tutto. Nonostante mille, enormi difficoltà. Ma è sempre più difficile, è sempre più difficile insegnare davvero (e non semplicemente fare finta, perché quello lo fanno in molti ed è proprio ciò verso cui si cerca di indirizzarci). Onestamente non so per quanto ci riusciremo ancora.

Bhrihskwobhloukstroy ha detto...

Gli studenti di beni culturali che non conoscono le lingue classiche forse sanno fare le fotografie digitali a un vaso, ma se sopra c'è scritto "dilectae puellae" ritengono che sia una lingua sconosciuta. Purtroppo ne stiamo producendo molti così. Anche questo è declino: pensate a un laureato analogo nel campo della matematica o dell'ingegneria.

Raffaella ha detto...

Grazie Pat Z per il Suo commento; non è che io approvi la diminuzione delle ore di greco e latino, tutt’altro; sarei davvero felice se mia figlia decidesse di frequentare il liceo classico “tradizionale”, e poi l’università; lo sarei ancora di più se incontrasse docenti come Lei o altri che intervengono in questo blog; tuttavia, nonostante sia una bimba sveglia e anche brava, non è detto che sia questo il percorso che sceglierà, né che avrà sufficienti capacità e motivazione per intraprenderlo; mi chiedevo quindi se il liceo classico europeo potesse essere una valida alternativa qualora anche lei, come tanti giovani, volesse (o dovesse) cercare opportunità all’estero.
Comunque, per ora mi accontenterei che la figlia in questione uscisse dalla primaria senza troppe lacune: sarebbe quasi un miracolo, visti i primi tre anni disastrosi caratterizzati dal continuo susseguirsi di supplenti allo sbaraglio e “perdenti posto” a ogni primavera.

Bhrihskwobhloukstroy ha detto...

I genitori non devono aver paura di far studiare i figli in modo tradizionale. Io ho fatto il classico e coltivato tre lingue "vive" in corsi pomeridiani lungo gli anni. Il computer l'ho imparato con calma, dopo tutto il resto. Nella formazione pàgano il tempo, la lentezza e la ripetizione periodica. La fretta e l'accumulo di ore sono uno dei motivi per cui la qualità degli studenti declina, un metodo pedagogicamente e didatticamente assurdo.

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