martedì 18 ottobre 2005

Polemiche su Shoah e aborto

Alcuni giorni fa (14 ottobre) ho pubblicato un articolo su Il Foglio che interveniva nella polemica sul parallelo fra Shoah e aborto istituito da Giuliano Ferrara.
A questo articolo ha risposto sempre su Il Foglio, martedì 18 novembre, Luigi Manconi: il suo articolo si trova sul sito del giornale http://www.ilfoglio.it, dove si può scaricare in pdf.
Riporto sotto il mio articolo e una controrisposta a quella di Luigi Manconi.


Se ripeto – perché l’ho già scritto in un libro e su queste pagine – che la tesi dell’assoluta unicità e incomparabilità della Shoah, nel contesto di tutte le stragi di massa della storia, è un’idea assurda e devastante, spero che nessuno mi accusi di sacrilegio e di profanazione. Chi facesse questo meriterebbe soltanto la commiserazione da riservare ai miserabili. Occorre sapere che cosa significhi la solitudine che deriva dalla scomparsa di una famiglia numerosa, in parte sterminata, in parte disintegrata ai quattro angoli della terra. Occorre sapere che cosa significhi constatare che, nel ricostruire una nuova famiglia, ai tuoi figli non puoi fare a meno di gettare sulle spalle quel vuoto incolmabile, e che esso farà sentire i suoi effetti per alcune generazioni. E se sai questo non puoi sottovalutare l’orrore della Shoah. Ma allora devi anche sapere che non puoi neppure farne un fatto soltanto “tuo”, qualcosa che sta al di sopra e al di fuori della storia, e che non ha rapporti e metro di paragone con le tragedie, gli orrori e i crimini che hanno tormentato e tormentano l’umanità.
Un episodio mi ha segnato molti anni fa: non c’era ancora il Giorno della Memoria, ma si trattava comunque di una manifestazione per raccontare e spiegare la Shoah agli studenti. Un liceale ci chiese perché mai gli stermini nei Gulag non avessero diritto alla stessa considerazione degli stermini nei Lager. La risposta altezzosa del mio compagno al tavolo della presidenza fu che non c’era comparazione possibile, perché i secondi erano stermini per motivazioni razziali, i secondi per motivazioni politiche, e quindi meno gravi. Ancora oggi provo vergogna per non aver contestato pubblicamente quell’affermazione sciagurata.
Ma non si tratta soltanto di una questione morale, che vieta di stabilire una graduatoria di rispetto tra i massacrati. Se si vuole che la Shoah sia patrimonio di tutti, che ognuno sia coinvolto nell’intento di prevenire il ripetersi di altri drammi del genere, occorre che la Shoah sia pensata nella storia, sia commisurata agli eventi analoghi, che divenga uno strumento per capire e non qualcosa che non può essere capito per definizione.
All’isolamento della Shoah come evento incomprensibile e fuori della storia ha contribuito la sventurata tesi della “banalità del male” di Hannah Arendt – anche i grandi intellettuali hanno le loro cadute –, un mediocre slogan, come lo definì Scholem. Al contrario, uno dei contributi più imponenti del pensiero religioso ebraico – dal Libro di Giobbe in poi – è proprio l’aver cercato di esplorare il mistero profondo del male: da dove nasce il male, e perché i giusti e gli innocenti ne sono vittime, e quale ne è il senso? Altro che “banalità”, qualcosa senza spessore, dietro cui non c’è nulla da scoprire!
Le conseguenze di questa elevazione a una sfera intoccabile sono state e sono devastanti. Perché così la Shoah diventa una faccenda degli ebrei e non dell’umanità in generale e, alla lunga, insopportabile, se il più timido tentativo di parlarne in relazione a qualcos’altro suscita reazioni irate e la riaffermazione che soltanto essa rappresenta il male assoluto e senza termini di paragone. Peggio. L’effetto straordinariamente paradossale è che, in tal modo, viene stimolata la più perversa tentazione a ogni tipo di comparazione, anche le più assurde. L’ha notato Finkielkraut venti anni fa, ma nessuno gli ha dato retta. Se la Shoah è un “unicum”, il prototipo del male supremo, quale maggior privilegio di essere la vittima di “una” Shoah? E così da tempo ormai, come effetto della tesi dell’unicità della Shoah, le Shoah proliferano in ogni contesto. L’ultima delirante affermazione in tale ordine di idee è di ieri: il centro di accoglienza degli immigrati clandestini di Lampedusa sarebbe un “lager nazista”… La quintessenza della demagogia: che cosa più di questa parola può evocare il male supremo?
È pieno diritto del senatore Debenedetti ritenere che il confronto fra aborto e sterminio degli ebrei d’Europa istituito da Giuliano Ferrara appartenga a questo genere di affermazioni infondate. Ma egli chiede di “lasciar stare” la Shoah non perché “il rapporto non regge all’analisi”, bensì perché “la terribilità della Shoah sta in se stessa, non è né simbolo né misura né termine di paragone per altri orrori, palesi o nascosti”. È chiaro che con una tesi del genere sono in totale disaccordo. Inoltre, mi chiedo: perché mai, se così stanno le cose, non si chiede l’abolizione del Giorno della Memoria? Perché mai dedicare una giornata a parlare di qualcosa che è indicibile, imparagonabile, senza relazione con alcunché? Cos’altro si potrà fare, in quella giornata, di fronte a un evento la cui terribilità è assolutamente trascendente, se non inginocchiarsi in silenzio e piangere per il dolore che ne è scaturito? Suvvia, lo sappiamo tutti che durante il Giorno della Memoria, si fanno paragoni a non finire, e che anzi la “paragonite” è direttamente proporzionale al grado di trascendenza in cui viene collocata la Shoah. Fare paragoni è cosa inevitabile, naturale, giusta. Il problema, per l’appunto, è proprio la fondatezza dei paragoni e degli accostamenti. Prendiamo il genocidio rwandese: non è forse stato abbondantemente provato che lo sterminio degli ebrei ne è stato il modello costitutivo? Al contrario, è una cialtroneria asserire che in Palestina è in corso una Shoah e che il centro di Lampedusa è un lager nazista. Tanto più quando coloro che fanno questi accostamenti sono gli stessi che dicono che il Gulag non può essere confrontato al male supremo e inconfrontabile della Shoah: era cosa molto meno grave, perché – udito in un convegno di storici – almeno il Gulag aveva una finalità positiva: lavorare…
Venendo ora alla questione dell’aborto, sbaglia chi continua a considerarla come si poteva fare un tempo: e cioè come una scelta drammatica individuale, fatta nella propria coscienza e spesso in solitudine. Da anni ha preso corpo la tendenza a considerare l’aborto come una pratica socialmente riconosciuta e a cancellarne i connotati negativi. Non è più qualcosa da evitare, il fine sociale primario non sembra più essere quello di limitarne l’incidenza ma, al contrario, di farne uso come strumento di programmazione della procreazione, fino a configurare le caratteristiche di una nuova eugenetica. L’aborto è sempre più presentato come uno strumento di programmazione delle nascite, in funzione delle nostre esigenze personali, anche di quelle più futili ed egoistiche, e persino in funzione della selezione dei figli geneticamente “migliori”. Separare la questione dell’aborto come pratica di massa dai progetti di ingegneria genetica delle specie umana è ormai sempre più difficile. Difatti, la progettazione genetica è basata sul ricorso sistematico all’aborto artificiale. E che la riprogettazione genetica della specie umana abbia contatti con il programma eugenetico nazista non c’è bisogno neppure che lo spieghi Fukuyama. Basta lasciar parlare i protagonisti, come il genetista Gregory Stock, il cui libro ho commentato su queste pagine. Egli ammette a più riprese che questo collegamento esiste. E in che modo se ne difende? In un caso osservando che si tratta di una sensibilità prettamente “europea” ma che gli ipersensibili si debbono rendere conto che “abbiamo sborsato miliardi per migliorare le nostre vite e non abbiamo intenzione di allontanarci da questa direzione”. In un altro caso, ammettendo che vi possono essere certamente abusi di tipo nazista, ma che forse non avranno troppo peso perché i tiranni possono far peggio con mezzi più tradizionali…
Se c’è una caratteristica distintiva del male del Novecento, e di cui il Lager (ma anche il Gulag) sono il simbolo, l’espressione suprema e il modello, è l’idea di plasmare ex novo il corpo sociale con qualsiasi mezzo, fino alla soppressione di parti intere di esso ricorrendo a principi e metodi scientifici e secondo criteri di massima efficienza. È il perseguimento del mito della palingenesi sociale realizzato – come anticipò profeticamente Dostoevskij – con “misure oltremodo ammirevoli, fondate sui dati delle scienze naturali e perfettamente logiche”. Ora, se l’aborto non è più un dramma consumato di fronte alla propria coscienza, ma un mezzo disinvoltamente usato per programmare la nascita di un figlio in modo che essa non interferisca con i nostri programmi (“desiderio di incontrare il mio eventuale compagno di vita senza l’ingombro di un figlio, resistenza a dover abbreviare la mia permanenza in Europa”, come scrive Naomi Wolf su Il Foglio del 6 ottobre); e se l’aborto è addirittura un mezzo per eliminare un soggetto che appare “difettoso” o non ha il sesso che vogliamo, ebbene, è difficile sostenere che non abbiamo a che fare con qualcosa che incide sui fondamenti etici della nostra vita associata. È ovvio che qui non vi sono camere a gas e, sotto questo profilo, il paragone non regge. Ma c’è qualcosa di comunque terribile: un cinismo profondo, una disumanizzazione radicale, un crollo del rispetto per la vita umana. Nessuno può ritenersi così insopportabilmente arrogante da “giudicare e mandare” chi patisca il dramma dell’aborto. Purché non si dimentichi che la scelta di abortire è il frutto di un dilemma drammatico che può anche distruggerti l’esistenza, scatenarti addosso le furie (sempre per dirla con Naomi Wolf); è una scelta in cui è in gioco il sì o il no a una vita, e non il decidere se togliersi o no una verruca. Se l’aborto è stato così banalizzato non è perché la gente sia diventata intrinsecamente perversa. Questo è il risultato di un’immensa pressione sociale che induce a considerare primari la progettazione ottimale della procreazione e il perseguimento dell’edonismo individuale: è la miscela efferata di un’ambizione di programmazione sociale efficiente e dell’ideologia del “politically correct”. Ed è più che lecito ritenere che, sulle basi di simili “ideali”, la negazione dell’umanità si stia ripresentando davanti a noi con il suo ghigno perverso. Fortunatamente la resistenza a quella pressione sociale appare sempre più diffusa: certamente non per merito di chi tende a minimizzare.


Giorgio Israel


Risposta all'articolo di Luigi Manconi dal titolo “I paragoni traballanti tra lager e Ctp, tra Shoah e aborto (polemica con Giorgio Israel) (v. il sito del Foglio)


Leggendo la risposta di Luigi Manconi mi sono chiesto – tanto per ricorrere a uno stile simile al suo – se egli ci è o ci fa. E, siccome so che Manconi è un uomo intelligente, ho deciso senza esitazione che ci fa.
Non si poteva fare una polemica più incapace di cogliere la struttura logica del mio articolo; il quale partiva dalla considerazione che l’idea dell’unicità della Shoah è sbagliata e perniciosa. Su questa considerazione, a metà della sua replica, Manconi si dichiara d’accordo. Quindi, spiegavo la perniciosità di quell’idea dicendo che l’asserzione dell’incomparabilità della Shoah produce l’effetto contrario: una “paragonite” senza freni e delle analogie assurde. Esempi: il considerare i Cpt come lager o dire che in Palestina è in corso un genocidio. Manconi trascura il secondo esempio (cosa pensa in proposito resta a noi ignoto), e si butta sul primo asserendo che io avrei costruito il mio intero ragionamento sull’assunto che c’è chi dice che i Cpt sono lager. Ma di parla Manconi? Non conosce la differenza tra un esempio e un “assunto”? Peraltro, si tratta di un esempio documentatissimo e non di un “assunto”. Se Manconi leggesse i giornali non direbbe che “se” c’è qualcuno che dice ecc. è uno “sciocco”. Perché saprebbe che questo qualcuno c’è eccome, e saprebbe di aver dato dello sciocco ad almeno due dei segretari dei partiti dell’Unione. Quindi, invece di prendersela con me in questo modo scombiccherato, farebbe meglio a chiedere al capo ormai riconosciuto dell’Unione di trasmettere l’epiteto di “sciocco” ai detti esponenti politici. Guarda caso, quei signori sono proprio quelli che non amano che si dica che il Gulag è paragonabile al Lager, perché nel primo almeno si lavorava (e, di conseguenza, sono doppiamente sciocchi, oltre che privi di qualsiasi senso morale). Il problema è che domani questi sciocchi potrebbero diventare ministri o sottosegretari. Perciò il mio esempio non è un assunto ma un fatto, e un bel po’ pesante.
Per il resto, Manconi continua a far finta di non capire. Non percepisce nulla del mio discorso circa la natura delle stragi del Novecento e si ferma soltanto sulla questione se l’aborto sia o no diventato una pratica sociale diffusa che si collega sempre di più alla procreazione programmata, e lo nega con un brillante argomento: “Eeeelamadonna”. Aggiunge che non do dati, né ricerche, né analisi, salvo citare un libro. Ma si da il caso che come quel libro ce ne siano, di libri e articoli, a centinaia che parlano così, e anche Manconi, sebbene scriva sul Foglio non legge a un centimetro dai suoi articoli se non ha letto quanto pubblicato nei giorni e mesi precedenti. Né gli passa per la mente il fatto che la Fiv ha introdotto la possibilità di eseguire quella che è né più né meno una pratica abortiva di massa, ovvero qualcosa che ai tempi del referendum sull’aborto non era nemmeno pensabile. Abbiamo creduto in tanti a certe cose allora, forse ora dovremmo rivedere i nostri pensieri guardando alla realtà mutata e ricordando il celebre detto: “la coerenza è la virtù degli imbecilli”.
Per il resto, ovvero per quelli che vengono considerati gli aborti veri e propri, mi limiterò a dare qualche “dato” per chi abbia voglia di sentirne parlare - Manconi certamente non ne vuol sapere per principio.
Qualche mese fa il caso di una donna ventenne originaria dell’Est europeo e abitante a Londra, e che ha avuto sei aborti legali in un anno, ha scatenato una polemica feroce attorno al sistema sanitario inglese. Ne è venuto fuori che molte donne hanno fatto ricorso per abortire, fino a quattro volte l’anno, al British Pregnancy Advisory Service (BPAS). In un anno il BPAS ha eseguito circa 50.000 aborti, di cui l'83% dopo la ventesima settimana. Il BPAS dichiara senza problemi che “i metodi contraccettivi attualmente disponibili non possono prevenire tutte le gravidanze indesiderate, e che l'aborto legale è necessario alle donne per regolare la propria fertilitá”. E il già Direttore Esecutivo della BPAS Ian Jones, in un convegno organizzato nel gennaio 1999 dichiarava: “Talvolta la contraccezione fallisce e a volte noi sbagliamo nell'usarla con efficacia. Se la societá crede che le persone debbano pianificare le proprie famiglie, deve consentire alle donne di terminare le gravidanze non volute in aborti”. Non vado oltre, perché lo scandalo rivelato dal Sunday Telegraph è stato raccontato da Il Foglio, a qualche centimetro dagli occhi di Manconi. E, siccome tutto è raccontato molto bene nel sito http://www.stranocristiano.it/ rinvio a questo per maggiori dettagli. Naturalmente per chi abbia voglia di documentarsi e di ragionare con la propria testa.