lunedì 29 dicembre 2014

In Europa tira una gran brutta aria che si chiama 'antisionismo'

Non c’è nulla di più sbagliato che voler vedere sempre la parte vuota del bicchiere, essere programmaticamente pessimisti e piangersi addosso. Per questo non ci sfugge quanto di positivo rappresenti l’incontro avvenuto a Berlino alla conferenza internazionale dell’OCSE in occasione del decennale della dichiarazione dell’Organizzazione contro l’antisemitismo. L’intervento del ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier è stato franco e diretto. Egli ha sottolineato che l’invito della comunità internazionale a Berlino era dettato dalla constatazione che, a distanza di dieci anni, l’impegno contro l’antisemitismo è più necessario che mai. Ci sembrano particolarmente importanti queste affermazioni: «Non c’è alcun posto nella nostra società per chi minaccia con azioni e con manifestazioni propagandistiche la sicurezza dei cittadini ebrei e delle istituzioni ebraiche e spera in questo modo di suscitare gli orrori del passato, Così come non c’è spazio per chi cercando di sfruttare la crisi mediorientale spera di mascherare le proprie azioni antisemite sotto la copertura di un preteso dissenso dalle azioni del governo israeliano». Non meno importante è il vertice che Steinmeier ha avuto con i suoi colleghi ministri degli Esteri italiano, francese e spagnolo.
Qui iniziano le osservazioni di merito circa la situazione in cui ci troviamo a distanza di dieci anni dalla dichiarazione OCSE. Va detto che, in tempi in cui la Germania è oggetto di non poche critiche per il suo atteggiamento circa le politiche economiche dell’Eurozona, va riconosciuto che, sul tema specifico dell’antisemitismo, essa è uno dei paesi che ha le carte più in regola assieme all’Italia. Dando per scontato che una certa dose di antisemitismo è “fisiologica” (si fa per dire…), in Germania è stata esercitata con rigore una tolleranza zero nei confronti di queste manifestazioni. Ben altra è la situazione in paesi come la Francia, la Gran Bretagna e la Spagna, che hanno davvero molto lavoro da fare per estirpare un antisemitismo sempre più diffuso che si maschera nella seconda categoria indicata da Steinmeier (e più volte dal nostro presidente Napolitano) e cioè quella di chi per fare antisemitismo si maschera da “critico” delle politiche israeliane o da antisionista. Ed è proprio su questo terreno che si manifestano tutte le insufficienze – per non dire le ipocrisie e i tartufismi – delle politiche estere dell’Unione Europea e che rischiano di vanificare i generosi e (ne siamo certi) sinceri intenti dei ministri degli Esteri europei.
Prendiamo il caso dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini, fino a pochissimo tempo fa ministro degli Esteri italiano. Sembra che il cambiamento di ruoli l’abbia trasfigurata. Con tutti i problemi sul tappeto – tra cui dovrebbe il primo posto la questione dirompente dell’espansione del “califfato” fino a un paese di importanza nevralgica per l’Italia come la Libia – Mogherini non ha trovato di meglio che compiere, come uno dei suoi primi atti, un viaggio in Medio Oriente in cui ha patrocinato il riconoscimento dello “stato palestinese”, nella cornice della formula “due popoli, due stati”, inserendovi anche l’idea di fare di Gerusalemme la capitale di questi due stati. Non sa l’Alto rappresentante che l’entità che dovrebbe dar luogo allo stato palestinese è composta di due pezzi di cui uno è gestito da un’organizzazione riconosciuta come terroristica, che ha nel suo programma (sempre ribadito) la distruzione dello stato di Israele e che utilizza gli ingentissimi fondi che gli arrivano da ogni parte per riarmarsi ogni volta e provocare un conflitto? Non è consapevole l’Alto rappresentante che (casomai non fossero noti i sentimenti della dirigenza iraniana e i suoi legami con Hamas) circola ora anche un documento del supremo ayatollah Khamenei in cui egli spiega in nove punti come si deve e si può eliminare Israele, e che questi punti corrispondono puntualmente alle strategie di Hamas? Vi si indica l’opportunità di evitare scontri frontali che sarebbero perdenti e si consigliano conflitti di logoramento, notando che se i palestinesi del West Bank avessero soltanto una parte degli armamenti di cui dispone Gaza, Israele crollerebbe come un castello di carte. Non è consapevole che l’altro pezzo dell’entità che dovrebbe dar luogo allo stato palestinese è gestita da una dirigenza sempre più debole e in procinto di cadere in ginocchio di fronte a Hamas e che, comunque, non ha mai riconosciuto davvero la formula “due popoli, due stati”, propugnando piuttosto la formula “uno stato per due popoli e l’altro per uno soltanto”?
Le parole sono pietre e l’inevitabile rigetto da parte israeliana di una simile proposta di soluzione in un contesto in cui non si chiede nulla alla controparte palestinese (segnatamente a Hamas) in termini di riconoscimento dello stato di Israele, non può che essere benzina per chi nasconde il proprio antisemitismo dietro il rigetto delle “politiche” israeliane. Ecco come i nobili propositi enunciati in sede OCSE possono essere vanificati dall’inconsistenza e leggerezza della politica estera dell’Unione Europea.
(Shalom, dicembre 2014)

venerdì 19 dicembre 2014

"TEDIO" contro scholé: il fallimento del merito della “buona scuola"

È usuale ripetere che Silvio Berlusconi non è riuscito a realizzare nessuno dei progetti che ha avanzato nel corso di un ventennio. Ma non è vero. Perché vi è un ambito in cui ha vinto, stravinto e anzi ha travolto qualsiasi opposizione: ed è quello dell’istruzione con lo slogan della “scuola delle tre i” (internet, inglese, impresa), vittoria che si estesa anche all’università. Non soltanto tutto il centrodestra si è allineato a questa formula, con l’emarginazione di residui ambienti di conservatorismo tradizionale; ma essa è dilagata in larga parte della sinistra che l’ha fatta propria e persino interiorizzata sul piano ideologico, mentre la derideva e protestava salendo sui tetti contro le politiche dell’istruzione dei governi berlusconiani.
Così abbiamo assistito all’invasione patrocinata con complicità trasversale di strumenti come le Lim (Lavagne interattive multimediali), ormai persino obsolete e spesso inutilizzabili in scuole che non hanno neppure i mezzi per riparare i gabinetti; mentre si prepara, con un coro di consensi, l’invasione dei tablet, in scuole che quasi mai hanno la banda larga, senza il minimo interesse per i contenuti che debbono trasmettere, tanto questa è l’ultima cosa che conta, e chi solleva il tema viene gratificato da sorrisini di sufficienza.
Così stiamo assistendo al dilagare delle lezioni in inglese, spesso tenute da docenti che non ne controllano più di qualche centinaio di parole, e non soltanto in materie tecniche. Si racconta di scene esilaranti di lezioni universitarie di estetica o storia dell’arte tenute a studenti dell’estremo oriente, che non conoscono l’inglese e sono venuti qui per studiare l’italiano e i beni artistici e culturali del nostro paese. Intanto si prepara la valanga dei corsi in lingua inglese nei licei per tenere i quali non esiste neppure una quota accettabile del personale qualificato necessario.
Quanto all’ideologia dell’impresa come modello universale, anche qui il trionfo è andato oltre ogni aspettativa. Non si tratta davvero di rimpiangere certi atteggiamenti ostili al mondo imprenditoriale in voga nell’estrema sinistra, ma di qui a bere la favola che l’impresa sia un modello perfetto di promozione del merito ne corre: basta guardarsi attorno e pensare alla crisi che stiamo attraversando. Ma neppure questo è il punto ed è penoso dover ripetere un concetto di elementare evidenza, rischiando di far la figura degli smemorati. Il mondo non è unidimensionale. Il criterio che presiede alla promozione del merito nell’impresa è intrinsecamente e radicalmente diverso da quello che presiede alla valutazione e promozione dei meriti intellettuali e culturali. È evidente che nel primo caso il criterio debba essere quello della soddisfazione del consumatore (“customer satisfaction”): se acquisto uno smartphone e non funziona, una scatola di alimenti che risultano guasti, ho il pieno diritto di protestare, essere rimborsato e poi rivolgermi alla concorrenza. In questo ambito sono utili quei confronti del rapporto qualità/prezzo che possono orientare il consumatore verso la scelta migliore. Ma se il ragazzo torna a casa con un 4 in matematica non è detto affatto, anzi è assai improbabile, che l’interessato e la famiglia abbiano il diritto di protestare con l’istituzione o il professore. Il 4 può, e spesso è, frutto di nullafacenza, trasandatezza, cattivo modo di studiare, e questo non può essere imputato alla scuola o università che sia. Lo slogan del “successo formativo garantito” è una solenne sciocchezza che mira alla formazione di persone tutte uguali, e chi lo avanza nel contesto di una società liberale è fautore di un grottesco connubio tra le ideologie del turbocapitalismo e del vecchio comunismo sovietico. La scuola può e deve tendere a far andare avanti tutti, però nella consapevolezza che si tratta di un principio orientativo, non conseguibile in modo pieno nella realtà, e che promozione del merito significa appunto premiare i migliori a svantaggio dei peggiori, che esistono, piaccia o no. Per questo, chi si straccia le vesti quando si dice che impresa e istruzione non possono essere accostati (e propone di omologare la seconda alla prima) sbaglia e di grosso. Anzi, non fa che propugnare un punto di vista che è all’origine dell’impossibilità di un’autentica promozione del merito nel campo dei beni immateriali e della conoscenza.
Difatti, il risultato è che l’insegnante deve diventare un passacarte e un “facilitatore” preposto all’esecuzione di ricette predisposte dalla tecnocrazia di turno; e il dirigente scolastico può essere bravo quanto si vuole, ma è plasmato dal ruolo istituzionale di rispondere alla “customer satisfaction” in una maniera che va bene per una ditta che produce seggiole ma non per un’istituzione che forma le persone e crea conoscenza e capacità. Costretto in quel ruolo imprenditoriale al dirigente scolastico non resta che premere sui docenti perché non diano voti bassi e non boccino troppo e predisporre un’offerta formativa accattivante e questo, più che prestare attenzione alla qualità dei corsi nelle materie fondamentali, significa proporre un contorno di attività collaterali che vanno dai corsi di danza a quelli di cucito o di yoga, in cui talora traspare l’affarismo. In certi casi le liste di queste proposte sono dignitose, in non pochi sono vergognose.
Questa lunga premessa conduce a spiegare perché il timido tentativo del piano della “buona scuola” di introdurre una progressione stipendiale degli insegnanti legata alla valutazione del merito stia miseramente fallendo. Nessuno può seriamente contestare la validità di un simile approccio rispetto a quello della progressione per anzianità, ma l’approccio di tipo imprenditoriale ha vanificato tutto. Se deve essere il dirigente scolastico, coadiuvato da una commissione, a valutare il merito, costui non dovrebbe essere un manager (magari neppure laureato) ma un preside, nel senso pieno del termine, ovvero il migliore tra tutti gli insegnanti. Tuttavia non un passo è stato proposto in questa direzione. Né ha senso stabilire delle quote prefissate di destinati alla progressione. Ma, soprattutto, è devastante l’idea che il merito non consista nell’essere un buon professore di italiano, di storia o di matematica, bensì nell’essere abile a mettere in piedi progetti “alternativi” che senza dubbio possono far pubblicità alla scuola ma per qualsiasi motivo eccetto che per quelli istituzionali. Del resto, come stupirsi che prevalga un andazzo verso il principio del TEDIO – Tutto Eccetto la Didattica Ordinaria, il contrario del greco “scholé” che significa ozio, ovvero spazio per l’autentica riappropriazione della propria identità e libertà – visto che abbiamo un sottosegretario che proclama la superiorità della didattica autogestita nelle occupazioni a quella ordinaria? È da chiedersi se egli abbia letto certe proposte circolanti da parte dell’“utenza” in tema di didattica autogestita, perché, se le avesse lette, la cosa sarebbe ancor più grave.

In conclusione, non è da stupirsi se un timido passo nella direzione della promozione del merito sia affondato di fronte all’opposizione di chi ha facilmente preso in mano la bandiera di critiche giuste, anche se non sempre con il migliore degli intenti: prova ne è che si sta tornando alla progressione stipendiale per anzianità. Così, l’unica lezione che occorre amaramente trarre da questa vicenda è che il dilagare di un approccio tecnocratico e anticulturale sta distruggendo persino la residua consapevolezza di cosa debba essere la verifica delle capacità di uno studente e di un insegnante nel sistema dell’istruzione. In una parola, ci riempiamo ogni giorno di più della parola “merito” allontanandoci sempre di più dal suo autentico significato.
(Il Mattino, 19 dicembre 2014)

martedì 2 dicembre 2014

Dissolution of the Long Parliament by Oliver Cromwell given to the House of Commons, 20 April 1653


It is high time for me to put an end to your sitting in this place, which you have dishonored by your contempt of all virtue, and defiled by your practice of every vice; ye are a factious crew, and enemies to all good government; ye are a pack of mercenary wretches, and would like Esau sell your country for a mess of pottage, and like Judas betray your God for a few pieces of money.
Is there a single virtue now remaining amongst you? Is there one vice you do not possess? Ye have no more religion than my horse; gold is your God; which of you have not barter'd your conscience for bribes? Is there a man amongst you that has the least care for the good of the Commonwealth?
Ye sordid prostitutes have you not defil'd this sacred place, and turn'd the Lord's temple into a den of thieves, by your immoral principles and wicked practices? Ye are grown intolerably odious to the whole nation; you were deputed here by the people to get grievances redress'd, are yourselves gone! So! Take away that shining bauble there, and lock up the doors.
In the name of God, go!

IL FARAONE DEI SACCHI A PELO A SCUOLA (l'unica cosa seria che dovrebbe fare è dimettersi e andare a fare una vacanza in sacco a pelo)

PER CHI VUOLE CHIEDERNE LE DIMISSIONI:
https://www.change.org/p/matteo-renzi-chiediamo-le-dimissioni-del-sottosegretario-davide-faraone-che-ha-elogiato-le-occupazioni-studentesche-per-grave-inadeguatezza-al-suo-ruolo-istituzionale


Il nuovo sottosegretario all’Istruzione Davide Faraone entra nel dibattito sulle occupazioni scolastiche e lo fa senza mezzi termini. Non nasconde quanto gli piacciano le occupazioni e quanto detesti i «ragazzi seduti e la cattedra di fronte». Fosse per lui istituzionalizzerebbe le occupazioni ma ciò rischierebbe di svilirne il valore. Eleva un peana alle dormite in sacchi a pelo nelle aule che finalmente diventavano calde e umane e vedevano il consumarsi di amori e incontri con l’anima gemella. Concede – bontà sua – che scuola è didattica e studio ma, ha ricavato dalle sue esperienze di occupante la convinzione che le occupazioni sono una palestra del far politica e aggiunge che tanti hanno scoperto la politica e la passione civile in quelle esperienze, che tanti sono diventati leader di un’azienda dopo essere stati leader di un’occupazione studentesca. Insomma, è anche in quelle fucine che «si seleziona la classe dirigente».
Che dire? Ha ragione. Ha perfettamente ragione, almeno sul piano storico. E ciò è ancor più chiaro a chi ha più anni di lui e conosce il lunghissimo percorso che ci ha condotto dalle mitologie sessantottine a queste pratiche che si ripropongono in modo estenuante, sostenute da chi ancora è legato a quelle mitologie e le ha accuratamente trasmesse a figli e nipoti. Ha ragione perché è proprio vero che in quelle pratiche si sono create complicità e, in certi casi, autentiche congreghe che hanno continuato a frequentarsi per anni. Perché sono stati (e sono) in tanti ad apprendere come si diventa leader dopo aver fatto l’esperienza di capetto di un’occupazione, ad apprendere come si ottiene un facile avanzamento intimidendo i superiori e a spese dei “fessi”. Insomma, Faraone ha ragione perché questa è stata (ed è) una modalità di formazione di una parte (fortunatamente non tutta!) della classe dirigente di questo paese. Ed è qui che risiede la spiegazione del pozzo senza fondo in cui precipitiamo, la spiacevole sensazione di un paese diviso in due, di cui una parte ancora resiste ancorata a principi di rigore, di merito, all’idea che è giusto andar avanti soltanto se ci si impegna e si acquisiscono le competenze necessarie; e l’altra che ha imparato come far fuori i “fessi”, arrivare rapidamente in alto, intimidire qualsiasi principio d’autorità, a partire da quelli basati sulla competenza e sul merito.
Il sottosegretario Faraone può legittimamente difendere l’idea di una scuola aperta, in cui esista un dialogo profondo tra insegnanti e studenti, ma non può farci bere la favola che il fondamento della struttura dell’istruzione – ovvero l’esistenza di chi sa e di chi apprende – possa essere sostituito dall’autogestione programmata. Dice di aver partecipato alle occupazioni e di ricordarle come «esperienze di grande partecipazione democratica». Ma gli sfuggono due punti cruciali. Il primo è che anche la partecipazione democratica ha senso se si svolge entro regole estremamente rigorose, che rispettino i diritti di tutti. È quindi grave, molto grave che, in un momento in cui sono all’ordine del giorno le illegalità commesse durante le occupazioni, gli ingentissimi danni materiali e i furti che gettano allo stremo un’istituzione già senza fiato in un paese che ha sempre meno risorse per porre rimedio a questi danni, in cui l’autorità degli insegnanti e dei dirigenti scolastici è spesso sbeffeggiata e derisa, uno dei massimi responsabili della politica dell’istruzione non solo non condanni questi fatti ma non ne faccia neppure menzione, producendosi invece in una arringa in difesa delle occupazioni. Perché non basta dire teoricamente che le violenze non sono accettabili. Le violenze e le devastazioni sono avvenute e sono in corso e su questi fatti assai concreti occorre prendere posizione. Forse il sottosegretario Faraone non sa in quale sconforto hanno gettato le sue parole migliaia di insegnanti che tentano ogni giorno (eroicamente, è il caso di dirlo) di tenere in piedi la baracca e domani rischiano di essere presi in giro come antiquati professor Aristogitone da capi e capetti di occupazioni senza capo né coda e dai peggiori tra i loro colleghi, quelli che vogliono evitare grane. Il sottosegretario non ha percepito che qui è in gioco una grande questione nazionale, che riguarda il tema della legalità, della coscienza di cittadino, del senso del dovere, del rispetto delle istituzioni, incluse le sue strutture materiali pagate con le tasse di tutti i cittadini, che è inutile difendere con retorici corsi alla cittadinanza e poi distruggere con l’altra mano.
Quanto poi all’auspicata sostituzione della didattica dei «ragazzi seduti e la cattedra di fronte» con l’autogestione programmata, va detto chiaro e tondo che non c’è bisogno di arrivare alle tesi di Gramsci – secondo cui per abituarsi a studiare occorre imparare a soffrire fisicamente, restando ore e ore inchiodati alla sedia – per sapere che qualsiasi conoscenza o competenza si acquisisce soltanto con l’applicazione, col metodo, col seguire un percorso ben preciso, definito da anni (diciamo pure da secoli) di esperienze culturali e didattiche e di cui il professore deve essere la guida (beninteso secondo principi di rigore anch’essi da verificare). Faraone non è stato l’unico a partecipare ad autogestioni programmate, ma evidentemente ha preferito occuparsi dei sacchi a pelo. Altrimenti, avrebbe capito che anche quando gli occupanti chiedono, con le migliori intenzioni, a esterni di venire a fare seminari e lezioni, tutto finisce in una gigantesca buffonata, se non esistono regole, e accade che, mentre dieci studenti escono altri dieci entrano, in qualsiasi momento dell’incontro, e ogni tentativo di instaurare un dialogo sensato è difficile con chi è entrato mezz’ora dopo, e impossibile con chi è uscito. Figuriamoci poi quando lo studio autogestito è totalmente in mano a un gruppetto di studenti che non sanno neppure di cosa si parli, o se ne hanno, si tratta di idee abborracciate e senza alcuna verifica con un competente. Non solo per apprendere un teorema di matematica, un capitolo di storia, una legge di fisica o il pensiero di un filosofo occorre precisione, basi certe su cui costruire, un metodo che non esce dalla testa da solo e deve pazientemente essere appreso; ma anche per fare qualsiasi mestiere, dall’elettronica, all’idraulica alla panetteria.

A ben vedere i due punti che abbiamo sottolineato non sono una cosa diversa. Perché entrambi riguardano la necessaria, indispensabile figura di insegnanti competenti e appassionati della loro professione. Invece qui salta fuori il dramma profondo di questo paese: e cioè che mentre si parla e straparla di merito non soltanto non si fa nulla per affermarlo, che mentre si parla e straparla di valutare gli insegnanti si proclama l’inutilità della loro funzione, e si insinua che la cattedra va abbattuta e la classe dirigente del paese va formata con l’autogestione programmata. E invece di dire che finora la colpa più grave è stata formare una parte della classe dirigente in questo modo (distruggendo la coscienza della legalità e del merito), si fa capire che questa deve diventare la modalità prediletta nel futuro. Se siamo a questo punto, l’accelerazione verso lo sfascio è garantita.
(Il Mattino, 2 dicembre 2014)

lunedì 1 dicembre 2014

Un'autentica vergogna

Ecco. Siccome il ministro dell’istruzione Giannini non conta più niente - è il ministro montiano dello 0.7% – le è stato prontamente messo accanto un uomo di fiducia del presidente del Consiglio, il sottosegretario Faraone, il quale ha presentato subito la sua carta da visita. Persino i più canuti reduci del ’68 si vergognerebbero di dire le cose che lui ha detto circa le occupazioni: http://http://is.gd/2KjRDM Un luogo migliore delle lezioni ordinarie, un luogo meraviglioso dove lui ha imparato a far carriera politica (proprio così, e si vede, dati gli esiti), dove ha imparato a dormire in un sacco a pelo e a far l’amore e dove sono iniziate tante carriere imprenditoriali e aziendali.
Non ci sono parole. Queste sono le mani in cui è la scuola italiana. Tanto per confermare il detto che al peggio non c’è mai un limite.

venerdì 28 novembre 2014

TEPPISMO A SCUOLA

Napoli è una città difficile e tutto il meridione ha non pochi problemi: sarebbe ipocrita ignorarlo. Ma di qui a dire – come ha fatto il ministro Giannini di fronte agli episodi al Galiani di Napoli – che non si vedono indizi nazionali che facciano allarmare, ne corre. Chiunque sia un minimo a contatto con il mondo della scuola sa che il degrado fisico e il teppismo da cui sono investiti gli istituti è un fenomeno nazionale che ha dei picchi in certi luoghi, ma non è appannaggio di questi soltanto. Chiunque sia informato sa che i fenomeni di teppismo “interno” – il minimo è lo scasso dei sanitari – è all’ordine del giorno, come lo è il teppismo “esterno” di bande che, facendosi beffe di sistemi di sorveglianza e sicurezza inesistenti o fragili, entra per rubare computer e attrezzature informatiche, svaligiare l’incasso dei distributori di bevande, lasciando la “firma” di mura imbrattate ed escrementi sui pavimenti. È di questi giorni la situazione esplosiva di alcune scuole romane (non napoletane) sottoposte all’intrusione di personaggi provenienti da un campo Rom, con lanci di sassi e bottigliate, scorribande con i motorini, furti di cellulari agli studenti minacciati con i coltelli, roghi tossici che infestano le aule, fino a ipotizzare un legame con la criminalità organizzata. Altro che indizi: qui siamo di fronte a una realtà che va avanti da anni e di fronte alla quale ci si volta dall’altra parte, fino a che scoppia un caso particolarmente odioso e allora si preferisce presentarlo come una patologia isolata.
Del resto, come potrebbe andare in modo diverso in un’istituzione sempre più trascurata, come tante altre istituzioni o servizi pubblici? I passeggeri non ancora assuefatti hanno assistito sgomenti all’arrivo dei primi treni inaugurali della nuova linea C della metropolitana romana, già imbrattati dai writer. La scuola è da tempo a uno dei livelli più bassi di questo degrado. Nessuno si cura di difenderla dalle aggressioni esterne con efficaci sistemi di sicurezza, di difenderla dal degrado derivante da inaccettabili comportamenti di alcuni gruppi di studenti, imponendo un rigore disciplinare che, almeno in certi casi, è assolutamente necessario. Si straparla della scuola come centro di formazione sociale, aperto a tutti, e mirante a creare una coscienza da cittadino. Se ne straparla a spese del comparto disciplinare, proponendo continuamente nuove materie di educazione alla cittadinanza, e persino educazione all’affettività. Non si capisce bene che cosa si faccia in questi nuovi comparti curriculari visti gli effetti: basta assistere allo sciamare dalle scuole di studenti che lasciano le cartacce della pizza sui marciapiedi o si affollano sui mezzi pubblici senza pagare il biglietto. Forse andava meglio quando si facevano più materie disciplinari e si instillava il senso del dovere attraverso il rigore dello studio, invece di un profluvio di prediche fumose che destano negli studenti una comprensibile reazione di scetticismo e derisione che serve solo ad alimentare il cinismo. Perciò concordiamo con il ministro Giannini quando dice che occorre smettere di alimentare il rito delle occupazioni, per cui – qualsiasi cosa accada – il mese di novembre è dedicato a questa ripetitiva sceneggiata. Ne ha fatto le spese il ministro, che si è sentita punta sul vivo per l’accusa di voler “privatizzare”. Avrebbe dovuto ricordare che una simile accusa è stata rivolta a tutti i ministri prima di lei, sempre a novembre, e ascoltare meglio per sapere che se ne sentono di ben più ridicole, come la presentazione dell’alternanza scuola-lavoro come una “deportazione” in fabbrica. Noi, che siamo molto critici del piano della “buona” scuola, ci sentiamo liberi di dire che certe questioni delicate e complesse non debbono essere lasciate agli slogan assembleari. Ma meno liberi di dirlo sono i politici che da decenni hanno lisciato il pelo della “contestazione” in nome di un giovanilismo d’accatto che ora si ripropone nella formula della “rottamazione”.
 Perché un’istituzione venga rispettata occorre renderla rispettabile e far capire a chiare note che nessuno ha il diritto di degradarla e farne strame, magari proponendo di trasformare istituti allo stremo in centri sociali multifunzionali. Il primo dovere è renderla rispettabile sul piano fisico. Quale rispetto si può mai avere di un edificio che si presenta con le mura esterne sbrecciate e cadenti e con una bandiera italiana a brandelli? Eppure, se vi rivolgete a un dirigente scolastico, offrendogli di tasca vostra una bandiera nuova di zecca, è probabile che rifiuti perché il pennone è un tale rottame che l’operazione di sostituzione rischia di accelerare una caduta con conseguenze penali. Per questo, in tanti abbiamo salutato con favore il piano di edilizia scolastica annunciato dal presidente del Consiglio. Ma a distanza di mesi non se ne sa più nulla e tutto sembra arenato in una fase pre-preliminare.
Per rendere rispettabile la scuola occorre ridare dignità alla funzione docente, non a chiacchiere, chiedendo quel rigore nei comportamenti e nella qualità dell’insegnamento e offrendo un accettabile trattamento economico, che giustificano una rigorosa valutazione sia degli istituti che delle persone. Questo non può essere fatto con una valutazione da burletta in cui non viene premiato chi insegna meglio la matematica o la storia, bensì chi s’inventa attività collaterali, magari le più disparate e prive di senso.
Ora siamo di fronte alla necessità dell’immissione in ruolo dei precari, non solo perché lo dice il piano della “buona” scuola, ma perché lo impone l’Europa. È un passaggio assai delicato perché se vi è chi, a buon diritto, insegna da anni, e anche bene, e mal tollera di dover subire un controllo dopo che per tanto tempo si è accettato senza fiatare il suo lavoro, vi è chi ha acquisito diritti avendo insegnato poco e tanto tempo fa. Il problema esiste, i guai passati si scontano, e il ministro non può scrollare le spalle nel timore dei soliti problemi di un processo di selezione. Dice di non conoscere l’emendamento che propone una verifica delle competenze dei precari in inglese e informatica. Avrebbe dovuto dire che quell’emendamento è una follia. Dovremmo piuttosto essere certi che il nuovo assunto conosca l’italiano (la lingua che si usa tutti i giorni in classe), che conosca i rudimenti della storia (almeno non creda che Aristotele sia vissuto nel quindicesimo secolo ed Eulero sia stato un matematico greco), che abbia qualche conoscenza di base di scienze. Ma pensare che l’alternativa a non verificare niente sia constatare se uno sa dire “good evening” e pasticciare sulla tastiera di un computer (magari per fare il registro elettronico) è un’assurdità che non merita commenti.
Purtroppo questi sono i parti del rigore all’italiana. Tra pochi giorni si svolgerà un convegno per celebrare (l’unico verbo appropriato, dato il tenore della manifestazione) il decennale dell’Istituto Nazionale di Valutazione dell’Istruzione (Invalsi) e lanciare il nuovo Sistema Nazionale di Valutazione. Frattanto si apprende che l’Invalsi ha pubblicato il 10 novembre un bando per assumere un certo numero di esperti di “alta qualificazione” che per un triennio costruiranno i test dell’ente. La scadenza improrogabile per la presentazione delle domande era il 20 novembre, dieci giorni… Ci si chiede se procedendo in questo modo si può pretendere rispetto per una valutazione che si autoproclama rigorosa e “oggettiva”, conquistare il rispetto della classe docente e di chi frequenta la scuola.
Sembra che abbiamo trattato di temi diversi. E invece no. Siamo di fronte a comportamenti che vanno in direzione opposta a ciò che potrebbe e dovrebbe essere fatto per riqualificare la condizione materiale dell’istituzione, la qualità della classe insegnante e dell’insegnamento. Occorrerebbe tenere sempre a mente l’aforisma del celebre premio Nobel Albert Szent-Györgyi: «Il futuro sarà come sono le scuole oggi». Al momento, a rileggerlo c’è da sentirsi male.
(Il Mattino, 28 novembre 2014)