giovedì 29 giugno 2006

Dite quel che volete ma lasciate perdere questa farsa dell’ “equivicinanza”

Quando si iniziò a parlare di “kamikaze”, Luciano Tas scrisse una lettera al Corriere della Sera per dissuadere dall’uso di questo termine improprio. I kamikaze giapponesi erano militari, che si suicidavano contro obbiettivi strettamente militari. Nulla a che fare con gli “shahid” del terrorismo islamico e palestinese. Niente da fare. Tornava comodo dire “kamikaze” e l’uso della parola si è malauguratamente affermato.

Qualcosa di analogo sta per succedere con il termine “equivicinanza” coniato – se ben ricordiamo – da Giulio Andreotti, e che rischia, nelle circostanze presenti, di suonare come una via di mezzo tra una beffa e una pomposa insulsaggine. Difatti, quel che si dimentica sistematicamente di precisare è che, se è concepibile essere “equivicini” al popolo palestinese e al popolo israeliano, essere “equivicini” a un governo democratico e a un’associazione di terroristi – poco importa se eletta: anche Hitler fu eletto – implica una sordità morale la cui inevitabile conseguenza è di schierarsi al fianco della seconda. Casomai non fosse ancora chiaro, proviamo a cimentarci con questa domanda: si può essere “equivicini” a un membro delle Brigate Rosse e ad una sua vittima?

Ma il presente governo è costellato di soloni che, per sostenere la teoria dell’equivicinanza, avanzano ogni sorta di argomenti; e quanto più sono inconsistenti tanto più è reboante la retorica con cui li propongono.

Dichiara Ugo Intini sul Corriere della Sera che Israele non può essere sicuro senza uno Stato palestinese… Tenuto conto di questi chiari di luna e dei figuri che compongono il governo palestinese, un povero di spirito penserà che si tratta di una battuta spiritosa. Ma no. Perché Intini ci spiega che questo lo ha già dimostrato la Storia (con la S maiuscola): si disse per anni che Arafat era il capo dei terroristi e poi ci furono gli accordi di Oslo. Peccato che gli accordi di Oslo siano falliti, che Arafat abbia scatenato la seconda intifada, che abbia esaltato gli assassini di massa degli “shahid” innumerevoli volte (per chi voleva sentire), peccato che era proprio lui il “capo dei terroristi”.

Poi Intini scomoda ancora la Storia (con la S maiuscola) che – ahimé – non insegna mai nulla e invece dovrebbe convincere Hamas a riconoscere lo Stato di Israele “come ha fatto l’Olp di Arafat”. Peccato che l’Olp di Arafat Israele non l’abbia riconosciuto mai, come ancora può constatarsi leggendo la sua carta in rete, e che Israele sia stato così ingenuo da accontentarsi di quattro bofonchiamenti verbali del Rais.

Se ci affidiamo a gente con questa memoria Storica, stiamo freschi. Se per loro “riconoscere” uno Stato significa questo, come stupirsi che accolgano con ammirato fervore il “documento dei prigionieri” che riconoscerebbe “implicitamente” Israele? Dopo più di mezzo secolo, uno stato sovrano che siede all’ONU deve baciare per terra perché un gruppo di terroristi lo riconosce “implicitamente”… E lo riconosce con un documento che serve soltanto a ricomporre le loro fratture interne e ripropone senza varianti il programma di Hamas: una “hudna” lunga in cambio del ritiro sui confini del 1967 e del rientro di 5 milioni di profughi… Poi dopo la hudna, si riprende il discorso sulle briciole restanti…

Questi sono gli “equivicini”. Gli “equivicini” sono persone che dicono che il Muro d’Israele è peggio di quello di Berlino “perché quello era costruito al confine tra i due Stati e questo invece è costruito dentro il territorio altrui”. Salvo il piccolo dettaglio che il muro di Berlino divideva in due lo stesso popolo (tedesco) e la sua capitale, mentre questo divide due popoli diversi. Salvo il piccolo dettaglio che, anche quando il muro passa esattamente sui confini del 1967, c’è chi spara al di sopra di esso missili sulle città israeliane, o vi passa sotto per uccidere e rapire.

Ognuno ha diritto di dire quel che vuole, ma poi si adonti se, autodefinendosi “equivicino”, suscita il riso.


Giorgio Israel

sabato 24 giugno 2006

Una domanda

Al Direttore de Il Foglio

Non crede che sarebbe opportuno evitare la definizione di "equivicinanza" per la politica del nuovo ministro degli esteri, prima che si consolidi nell'uso? Difatti, pare una definizione del tutto inappropriata.
Assistiamo per strada alla seguente scenetta. Un tizio investe una persona di sanguinosi insulti rivolti a lui e ai suoi antenati e dichiara di volerlo uccidere. Interviene un paciere che procede così. Evita accuratamente di far riferimento alle ingiurie e alle minacce e invita l'energumeno ad affidarsi ai suoi buoni uffici: una persona eccezionale come lui merita la massima stima e, se seguirà i suoi consigli, non potrà che ricavare una considerazione molto maggiore di quella che ha avuto fino ad ora, come è giusto che sia. Poi ammicca ai presenti osservando che è meglio non contrariare il soggetto, perché possiede dei bicipiti tali da mandare in poltiglia il setto nasale.
Un paciere così lo definireste "equivicino"? O non piuttosto un "vicino"?

Giorgio Israel

giovedì 1 giugno 2006

Un appello alla coerenza

Abbiamo visto grandi intellettuali, giornalisti di primo piano, ex-presidenti dell’Unione delle Comunità ebraiche e tanti altri sezionare rigo per rigo il discorso di Benedetto XVI ad Auschwitz ed emettere una severa sentenza: il Papa ha minimizzato la Shoah, ha assolto il popolo tedesco dalle sue responsabilità, è fuggito nelle nebbie dell’escatologia, ha nascosto le colpe della Chiesa. Fino alla condanna più terribile e infamante: il Papa è revisionista.
Lasciamo per un momento da parte le diversità di valutazione. Tanta spasmodica attenzione per la Shoah, tanta occhiuta vigilanza affinché nessuno osi sfiorarla in forme non perfettamente confacenti a quelle codificate dalle sue vestali, commuove profondamente. Davvero la memoria ha elevato un impenetrabile ombrello di difesa.
E allora non sarà troppo chiedere un piccolo gesto di coerenza, nient’altro che un banale corollario di tanto rigore.
Siamo di fronte al più grande negazionista vivente, il Presidente iraniano Ahmadinejad. Costui nega la Shoah e la ridicolizza come una montatura, chiede all’Europa di accogliere sul suo suolo sei milioni di ebrei di Israele, altrimenti lui li farà fuori non appena disporrà dell’atomica. Si appresta a venire in Europa per l’inaugurazione dei campionati del mondo di calcio, accolto da un comitato d’onore composto anche da gruppi neonazisti. Il ministro dell’interno tedesco ha detto che non si potrà non accogliere Ahmadinejad, se vorrà venire, per questioni di “ospitalità”.
Non possiamo credere che i paladini della memoria della Shoah di cui sopra taceranno di fronte a un simile affronto, e si limiteranno a guardare lo spettacolo in televisione, distesi in poltrona con un bicchiere di birra in mano, mentre la mente stanca viene attraversata dall’idea di una puntuta freccia polemica che – peccato! – avrebbero potuto aggiungere alla loro requisitoria contro il Papa.
Siamo certi che vorranno farsi promotori di un appello vibrato, con tutta l’autorità di cui dispongono, per chiedere che un simile affronto venga evitato all’Europa, vigile custode della memoria della Shoah. Potremmo chiedere molte altre cose. Per esempio, che, prima di promuovere iniziative di dialogo con Hamas, si chieda con pari vigore la cancellazione dalla sua carta costitutiva delle efferate dichiarazioni antisemite e negazioniste di cui è farcita. Ma, una cosa per volta.
Per ora ci accontenteremmo dell’iniziativa sul presidente iraniano. Per ragioni di coerenza, si diceva. Oseremmo dire: per ragioni di decenza.

Giorgio Israel