giovedì 30 settembre 2010

L'università che vorrei


Quale università vorrei? Niente nostalgie. L’università di un tempo non è riproponibile oggi e non mi tenta affatto la parte del “laudator temporis acti”, figura inutile oltre che patetica. Ma c’è qualcosa che vorrei tornasse al centro della vita universitaria: l’interesse prioritario per l’insegnamento e per la ricerca. Non che questo interesse non sia vivo e presente: non sono disponibile ad unirmi al coro falso e ipocrita di coloro che cercano di far credere che l’università sia la sentina di tutti i mali italiani, e soprattutto del cinismo e del disinteresse. Ma oggi nella vita universitaria non sono i contenuti – contenuti dei corsi, tematiche della ricerca – che occupano lo spazio più importante nell’attività dei docenti. Come frutto di riforme dissennate che passati ministri continuano temerariamente a difendere, lo spazio più importante, o quantomeno tendente a sottrarre spazi al resto, è rappresentato dalla gestione, dall’organizzazione, dalla burocrazia, dagli adempimenti amministrativi.
Interminabili conteggi e contrattazioni sulla ripartizione dei crediti tra i vari corsi, continuo riassetto dei corsi di laurea, innumerevoli moduli da compilare – non basta più il programma del corso, bisogna indicare “conoscenze” e “competenze”, bisogna compilare moduli di programmazione didattica –, proliferazione di organi e di riunioni. La nuova e sacrosanta esigenza di valutare l’attività didattica e di ricerca non comporta affatto, come sarebbe auspicabile, discussioni di contenuto su quel che ciascuno insegna o sulle ricerche che ha fatto. No. Comporta la compilazioni di altri moduli, la trasmissione di dati sulle pubblicazioni che una commissione valuta numericamente sulla base di algoritmi elaborati nel corso di estenuanti riunioni. Che una pubblicazione abbia come tema il teorema di Archimede Pitagorico non interessa a nessuno: il suo “valore” risulta da una serie di parametri (citation index, impact factor, carattere nazionale o internazionale, ecc.). Casomai, se l’esito della valutazione si rivelerà demenziale la commissione si riunirà per rivedere l’algoritmo… L’idea che la valutazione sia in primo luogo un processo culturale è vista con un sorrisino supponente da chi, poco capace sul piano didattico e scientifico e molto esperto di gestione e di traffici di potere, domina in un’università del genere.
Quindi, vorrei che l’università tornasse ad essere un luogo in cui i protagonisti siano l’insegnamento, la ricerca scientifica, la cultura. Sarà dura. C’è voluto un emendamento specifico per reintrodurre il termine «conoscenza» nell’articolo 1 del ddl in corso di approvazione, laddove si parlava invece di « libera formazione e circolazione dei saperi». “Saperi” è il termine-vessillo che un certo pedagogismo ha contrapposto a “conoscenza” e “discipline”, per marcare la necessità di scardinare l’assetto disciplinare tradizionale troppo basato sui contenuti anziché sulle “pratiche”. Ed è l’ossessione pragmatista il pericolo peggiore, che emerge soprattutto nell’assetto della “governance” – la parte più discutibile del ddl, mentre la migliore è quella del reclutamento. La forte presenza di manager esterni nella “governance” riflette un’idea dell’università non come sede di formazione culturale ma come sede di apprendistato per soggetti destinati al lavoro in azienda, una sorta di ufficio studi confindustriale. Neanche le università private statunitensi hanno statuti affetti da una visione così praticona. E oltretutto là gli industriali mettono i quattrini, non si limitano a cercare di accaparrare per i propri fini un bene pubblico, in conformità al modello italiano dell’industria assistita dallo stato.
(Tempi, 29 settembre 2010)

domenica 12 settembre 2010

BESTIARIO MATEMATICO n. 8

Una collezione di manifestazioni di cultura matematica da parte di futuri insegnanti:

Il matematico greco Eulero, vissuto nel I° secolo a.C. scrisse il suo famoso trattato, gli Elementi, nel 300 a.C.

Il principio di induzione è un principio tale che qualsiasi regola matematica può essere dimostrata, sia che essa sia vera o falsa.

Il concetto di funzione che viene oggi insegnato nei corsi universitari fu formulato per la prima volta dai mesopotamici del IV secolo a.C. come testimoniano le tavolette di argilla ritrovate dagli archeologi.

Per la paternità del calcolo infinitesimale ci fu una delle più accese dispute tra matematici e loro discepoli, che arrivò addirittura a macchiarsi di sangue, che la storia ricordi.

In matematica deve essere tutto dimostrato n volte prima di sostenere la validità di una legge o di una teoria, a differenza delle scienze naturali in cui attraverso un esperimento ripetuto anche solo 2 volte si può dimostrare un risultato.

Nel XVIII secolo dominò il concetto di funzione rappresentata da un'espressione analitica, finita o infinita. Successivamente venne data la definizione di funzione come la conosciamo noi oggi, ovvero di una legge che associa ad una x un valore indicato con y.

Il prof. di matematica Newton

L'aspirale

L'odierna definizione di funzione è come luogo di punti che soddisfa un'equazione razionale

«La scuola del futuro dovrà insegnare come pensare e non cosa pensare» (McKinsey dixit).

lunedì 6 settembre 2010

La lotteria dei test

A un politico che elogiava l’utilità dei test nei procedimenti di selezione chiesi: «Se lei dovesse scegliere un collaboratore di assoluta fiducia cosa preferirebbe? Selezionarlo mediante test, oppure mediante un colloquio, guardandolo negli occhi, studiando le sue reazioni mentre risponde alle domande?». Dopo una breve esitazione, la risposta fu: «Indubbiamente nel secondo modo». Ho posto domande analoghe in varie occasioni e la risposta è stata sempre la stessa, a meno che l’interlocutore non fosse uno specialista o un venditore di test.
E allora perché questo sistema si è diffuso così tanto? Forse perché il numero dei candidati in ogni ambito è elevato? Così sarebbe se il livello medio dei candidati fosse molto alto. Ma noi siamo a livelli in cui uno studente universitario dell’ultimo anno di matematica scrive «l’aspirale» invece che «la spirale» e, se glielo fai notare, risponde: «Embè, che problema c’è?». Basterebbe introdurre dei test di base elementarissimi, che verifichino le capacità minime sul piano grammaticale, linguistico, aritmetico e la consapevolezza del luogo e del tempo in cui si vive, per scremare almeno il 90% dei candidati. Dopodiché si potrebbe procedere con la valutazione del curriculum scolastico, con prove scritte e un colloquio. Se invece si pretende di giudicare l’idoneità a frequentare la facoltà di medicina chiedendo qual è il valore più probabile della corrente circolante in una batteria da 12 volt collegata a due resistenze in parallelo di 60 e 120 ohm e ad una di 40 ohm, escludendo dalla valutazione la carriera scolastica, sarebbe più serio procedere con un sorteggio.
Il motivo che spinge a selezionare mediante test non è pratico bensì teorico, diciamo pure ideologico: si tratta dell’idea secondo cui i test consentirebbero una valutazione “oggettiva”, indipendente dalla soggettività dell’esaminatore, e una misurazione esatta della qualità del candidato. Una serie di domande a risposta chiusa cui rispondere con una crocetta sulla casella giusta, un numero che risulta dalla somma delle risposte corrette che definisce in modo “esatto” e “oggettivo” la qualità del candidato, e il gioco è fatto. Si tratta di una grande illusione. Poiché il nostro paese è, come al solito, l’ultimo a recepire le “novità”, sarebbe bene sfruttare il vantaggio di ascoltare le critiche di chi, all’estero, ha già sperimentato il sistema delle cosiddette “valutazioni oggettive” e ne sta verificando i limiti.
Naturalmente, i più restii ad ammettere tali limiti sono i teorici e i praticanti delle “valutazioni oggettive”, alcuni dei quali vivono di questa attività. Difatti, è bene ricordare (o informare chi non lo sa) che la preparazione dei test non compete ai docenti, e neppure sempre a funzionari ministeriali. Essa è sempre più di frequente affidata a “ditte” esterne che si presentano – non si capisce bene con quali credenziali e senza essere sottoposte a verifica permanente – come “specialiste” della valutazione mediante test. Insomma, sempre più i test sono preparati da “specialisti” o “manager” della valutazione, il cui atteggiamento è unilaterale e incontrollato.
Come ha osservato un rapporto redatto dalla International Mathematical Union assieme ad altre prestigiose associazioni scientifiche internazionali, gli specialisti di valutazione, «essendo incapaci di misurare la qualità, sostituiscono la qualità con dei numeri che possono misurare», e ciò – prosegue il rapporto – non ha alcun serio fondamento. La valutazione classica consiste nel fare un esame e tradurre il giudizio dell’esaminatore in un voto, il quale è soltanto una rappresentazione di quel giudizio su una scala numerica. I valutatori “oggettivi” sostituiscono all’esame un test, che avrebbe il pregio di escludere gli umori “soggettivi” dell’esaminatore e di produrre un risultato numerico indipendente da questi umori e, come tale, indiscutibile. Ma non è difficile intendere che così il problema è soltanto spostato, anzi è stato nascosto sotto il tappeto: la soggettività è ancora ben presente, nella preparazione e nella scelta dei test. È la soggettività di chi ha compiuto tale operazione – funzionari, specialisti o ditte – e che, per giunta, resta anonimo e non risponde neanche per un centesimo di quanto è chiamata a rispondere una commissione di esame.
Tutto deriva dall’idea insensata e antiscientifica che si possano “misurare” le qualità. Per misurare occorre disporre di un’unità di misura universalmente accettata e quindi oggettiva. Per misurare la larghezza di questo giornale basta  un metro non truccato: il risultato sarà lo stesso, indipendentemente da chi faccia questa operazione senza imbrogli e con scrupolo. «Qual è l’unità di misura della qualità di un candidato?», chiesi una volta a un patito della valutazione oggettiva. Dopo una certa esitazione la risposta fu: «Il test». Una risposta insensata e antiscientifica, perché è come se pretendessi di misurare le lunghezze con un metro da me fabbricato con criteri personali, mentre altri operano con altri metri fabbricati con criteri diversi.
Il fine più devastante di queste teorie “oggettiviste” è di sottrarre ai protagonisti dell’istruzione – essenzialmente gli insegnanti – la funzione di giudicare, trasferendola ai “manager” della valutazione, che magari non sanno un acca della materia in oggetto ma avrebbero la “competenza” di fabbricare test, con l’ausilio di “esperti” scelti non si sa come. Ecco perché stiamo assistendo a un incredibile fenomeno: e cioè che sono i professori, i presidi di facoltà, i rettori, i chirurghi di fama a protestare, a dire che loro non saprebbero mai superare quei test e che si sta rischiando di scartare i migliori studenti. Protestano perché non c’entrano nulla: questa operazione passa sulle loro teste.
È un andazzo che conduce allo svilimento e alla distruzione del sistema dell’istruzione. Senza contare – e questa è l’osservazione più importante – che queste tecniche di valutazione mediante test sono state mutuate da quelle da tempo in uso nelle aziende, in particolare per la selezione del personale; dove però – lo riconoscono ormai anche molti autorevoli specialisti del settore – hanno rivelato la loro inefficacia. Figuriamoci se possono funzionare nell’ambito del sistema dell’istruzione.
(Il Giornale, 2 settembre 2010)