venerdì 9 febbraio 2007

Una noticina a "Pasque di sangue" di Ariel Toaff

Osserva Ariel Toaff che «a proposito delle torture è bene ricordare che, almeno dagli inizi del Duecento, nei comuni dell'Italia settentrionale il loro uso era disciplinato non solo dai trattati, ma anche dagli statuti. Come strumento per l'accertamento della verità, la tortura era ammessa in presenza di indizi gravi e fondati e in casi considerati da podestà e giudici di reale necessità. Successivamente le confessioni estorte in questo modo per essere ritenute valide andavano confermate dall'inquisito in condizioni di normalità, cioè non sotto la costrizione del dolore o della minaccia dei tormenti». Capiamo che la scrupolosità formale sia cosa affascinante e ammirevole per le menti inclini all'ordine; ma l'idea che la tortura, se disciplinata da regole e trattati, diventi uno strumento legittimo e attendibile di formazione della prova è alquanto divertente. Tuttavia, sottolineare che le confessioni estorte con la tortura divenivano valide se e soltanto se confermate dall'inquisito in "condizioni di normalità", è davvero un capolavoro. Figuratevi voi in che condizioni di "normalità" sareste dopo che vi hanno cavato gli occhi, schiacchiato le dita e stirato la colonna vertebrale con la ruota e senza la minima garanzia che non ricomincino, salvo il fatto che, al momento non minacciano di farlo. A giudicare da quanto dice Toaff, rileggevi il verbale in braille e firmavi con le dita dei piedi dopo aver apportato alcune correzioni. Ritrattare non era consigliabile. Anche questo non rientrava nella "normalità". Vista questa base concettuale solida come il marmo, c'è da immaginare quale sia il rigore e l'obbiettività con cui è stata riesaminata l'attendibilità dei verbali dei processi. Di che sorprendersi? È la storiografia postmoderna, bellezza. Siamo nel genere di quella signora che ha "scoperto" che Dante si faceva le canne. Perché? Ma perchè anche ai suoi tempi l'erba esisteva, e quindi, vista la sua fantasia esuberante, non poteva non essersene fatta qualcuna.

Giorgio Israel

La lettera dei 130

Dunque, centotrenta “ebrei” inglesi hanno pubblicato sul “Guardian” un manifesto per commemorare i 40 anni di occupazione della Cisgiordania e di Gaza da parte di Israele. È una “dichiarazione d’indipendenza” che critica le posizioni ufficiali dell’ebraismo britannico solidali nei confronti di Israele e, in particolare quelle del rabbino capo Jonathan Sacks – che, peraltro, aveva anche espresso critiche per il “trattamento riservato ai palestinesi”. I nostri vogliono portare alla ribalta un’opinione presente nel mondo ebraico e non rappresentata dalle sue istituzioni: «l’appoggio a una potenza occupante è contrario ai principi ebraici di giustizia e compassione».
Se non fosse anche una faccenda seria, ci sarebbe da morire dalle risate. Immaginate che Piergiorgio Odifreddi, in quanto battezzato, criticasse il Papa in nome dei veri principi cristiani di carità e di perdono di cui lui è vero esponente, a differenza del Papa…
Francamente non sapevo che Eric Hobsbawm fosse ebreo. Di certo non ha mai fatto nulla per farlo sapere. Farà il giro del mondo la notizia che egli è un esperto di etica ebraica, oltre ad avere un lungo e onorato passato di mediocre storico portato sugli altari per il suo lungo e onorato passato di trombone stalinista. Ricordiamo quando esaltava le virtù del compagno Stalin e affermava che la storiografia si fa su basi di “simpatia”; per il comunismo, ovviamente. Ma non ricordiamo le sue battaglie per difendere il diritto del “suo popolo” a non essere perseguitato e detenuto a forza in Unione Sovietica. Non ricordiamo neppure che abbia mai detto una parola in difesa delle minoranze oppresse nell’ultimo mezzo secolo: per esempio, dei “suoi correligionari” privati di ogni diritto, perseguitati e scacciati da tanti paesi arabi. Ricordiamo invece la sua “lezione” in occasione del conferimento della laurea honoris causa all’Università di Torino nel 2000, in cui diede credito alle tesi del negazionista David Irving, lamentando che l’unica critica della carenza di standard storiografici professionali venisse da un ammiratore di Hitler. Difatti, secondo Hobsbawm era ora di demolire la rappresentazione hollywoodiana della Shoah in modo da impedire che diventi un «mito legittimante dello stato d’Israele».
Poiché di un altro Hobsbawm non v’è traccia, è evidente la credibilità dell’appello di un signore che ha dimestichezza con l’ebraismo quanto chi scrive con la danza classica (e di certo nutre per esso molto minore simpatia) e il cui unico interesse è demolire la legittimità di Israele, anche a costo di prendersela col “mito” della Shoah e trafficare col negazionismo.
Ma – si dirà – non c’è soltanto Hobsbawm. Certo. Se continuiamo nell’elenco verrà da credere che sia in atto un’ondata di riscoperta dell’ebraismo che ne infoltirà le fila. C’è il regista Mike Leigh, il cui profondo legame con l’ebraismo è riconducibile al primitivo cognome dei suoi genitori, Lieberman. C’è poi il noto letterato Harold Pinter: confessiamo di ignorarne i profondi studi talmudici. Non abbiamo però dimenticato il grottesco appello dell’estate scorsa – firmato da Pinter con altri noti ebrei e giudaizzanti – come John Berger, Noam Chomsky, Gore Vidal e José Saramago (quello che definì Jenin la nuova Auschwitz), in cui si spiegava il conflitto tra Israele e Palestina come dovuto al rapimento da parte degli israeliani di un “quidam”, un innominato medico di Gaza di cui non ci è stata data la grazia di conoscere alcunché, e si dipingeva il patetico quadro dell’incrociarsi in cielo dei poveri “razzi artigianali” con terribili “missili sofisticati”.
La figura dell’“ebreo di corte” nelle sue infinite varianti – inclusa quella dell’ebreo che si riscopre tale per poter meglio dare una mano agli antisemiti – è vecchia quanto la storia dell’Occidente. Negli anni 1930, un gruppo di ebrei fascisti torinesi, raccolti attorno al giornale “La nostra bandiera” riuscì quasi a spaccare l’ebraismo italiano per il servile atto di attaccare il sionismo nel pieno delle campagne antisemite dei vari Farinacci e Preziosi. La storia si ripete su altri versanti e questo non sorprende più di tanto. A condizione che figure come queste non vengano prese sul serio e vengano ricollocate nel loro “luogo naturale”, in senso aristotelico. Se invece si da loro credito per imbastire argomentazioni contro la legittimità di Israele o per creare spaccature artificiose e strumentali nell’ebraismo, allora la faccenda si fa seria. Perché vi è una evidente tentazione – illustrata da Emanuele Ottolenghi nel suo recente libro – di delegittimare gli ebrei che difendono il diritto di Israele all’esistenza e rigettano le critiche “a Israele” in quanto tale, anziché ai suoi governi, catalogandoli come “ebrei cattivi”, in contrapposizione a quelli “buoni”, magari inventati di sana pianta come i nostri centotrenta inglesi. È una tentazione da cui non ha saputo trattenersi neppure il nostro ministro degli esteri, speriamo per l’ultima volta.

Giorgio Israel

(pubblicato sul Foglio il 6 febbraio 2007)