domenica 27 agosto 2006

LA BIOETICA E LA RICERCA DELLA FELICITA'



Meeting di Rimini - Martedì 22 agosto 2006 - ore 17

Perché si dice tanto spesso che le biotecnologie contemporanee hanno un carattere disumano e addirittura si evoca il nazismo in relazione ad esse? Non è forse esagerato accostare pratiche che hanno come scopo dichiarato la felicità dell’uomo con le pratiche dello sterminio di massa? È vero, c’è un tratto di collegamento tra queste due pratiche. Esso è rappresentato dal programma dell’eugenetica e non è un caso se questo fastidioso fantasma costringe i fautori meno acritici delle biotecnologie contemporanee a sottolineare ciò che le separa dalla vecchia eugenetica. Essi sottolineano che questo tratto di collegamento è lungo, molto lungo, talmente lungo da rendere eccessivo e persino arbitrario l’accostamento.
Per questo molti protestano contro quell’accostamento e dichiarano che esso costituisce una vera e propria offesa e aggressione alla scienza ed alla ragione scientifica.
Per parte mia voglio limitarmi a dare un solo indizio che mostra perché sia legittimo temere l’affacciarsi di una nuova eugenetica, non meno pericolosa di quella di un tempo. Mi limiterò a indicare come quel tratto di collegamento sia costituito da un aspetto molto grave e pesante, e cioè la disumanizzazione. Per spiegarmi, invece di sviluppare analisi articolate, mi baserò su una citazione letteraria, tratto da uno dei romanzi più straordinari dei nostri tempi: Vita e destino di Vassili Grossman.
Così descrive Grossman l’apparire di un campo di concentramento:
«Il recinto del campo uscì dalla nebbia…. Gli allineamenti delle baracche formavano strade larghe e rettilinee. La loro uniformità esprimeva il carattere inumano del campo. Fra i milioni di isbe russe non ve n’è e non ve ne possono essere due perfettamente simili. Ogni vita è inimitabile. L’identità di due esseri umani, di due cespugli fioriti è impensabile… La vita diventa impossibile quando si cancellano con la forza le differenze e le particolarità».

Ebbene, potrà – a prima vista – sembrare un accostamento forzato, ma a me pare la questione cruciale. Il principio della disumanizzazione – da cui può derivare ogni sorta di deviazione e anche di nefandezza – si ha quando non si concepisce più l’uomo come qualcosa di unico, come una persona, ma quando lo si concepisce alla stregua di una macchina.
Per questo penso che una sorgente fondamentale di danni e persino di tragedie stia nella concezione dell’uomo come una macchina, che ci viene proposta dal materialismo scientista da qualche secolo, e con crescente insistenza.
La scienza ha conseguito i suoi più grandi successi nel campo dei fenomeni inanimati e il centro di questi successi è proprio l’idea di poter considerare delle classi di oggetti e di fenomeni come identici e quindi applicare ad essi un principio di ripetibilità: se faccio questo e questo, accadrà sempre questo e questo. La tecnologia e i suoi successi si basano proprio su questo principio. Come potrei costruire una macchina (e venderla senza suscitare lo scontento degli acquirenti), come potrei lanciare un razzo verso un obbiettivo, senza essere certo che, almeno entro un margine ragionevole di errore, quel che ho previsto e garantito, accadrà davvero?
Il guaio è iniziato quando – sotto l’influsso dell’esaltazione per i successi conseguiti da questo metodo – si è pensato di applicarlo ad altri contesti, in particolare a quello dei fenomeni della vita.
Della medicina si è a lungo detto che non è una scienza vera e propria, ma un’arte, perché coniuga l’applicazione di principi generali e regole di una certa uniformità a un ambito in cui l’aspetto individuale è ineliminabile. Ma da qualche tempo, la medicina è cominciata a divenire qualcos’altro, qualcosa di molto simile alla fisico-chimica e la sua pratica rassomiglia sempre di più a quella della riparazione delle macchine guaste.
Eppure è facile constatare quanto questa china presa dalla medicina sia sbagliata, fuorviante e pericolosa.
La nostra conversazione ruota attorno al tema della felicità. E allora chiediamoci: che cos’è la felicità di una macchina? Per esempio della nostra automobile? È semplice: funzionare bene, secondo i parametri descritti nel libretto di garanzia e di manutenzione. Funzionare bene significa che il motore è efficiente in tutte le sue parti, che la carrozzeria non è sconnessa, che le ruote hanno una buona aderenza, e così via. Se qualcosa non va, per esempio se la carburazione non funziona bene, sappiamo bene cosa fare: una serie di operazioni di sostituzione mirate riporteranno la nostra macchina al suo stato precedente. Almeno per quella funzione, sarà come se la macchina fosse appena prodotta. E, in linea di principio, io posso sempre ricondurla allo stato di “salute” originario.
Posso fare lo stesso con un essere umano?
Certamente no. Perché, come ha bene osservato lo storico della medicina Georges Canguilhem, «ogni guarigione non è mai un ritorno allo stato di innocenza biologica», e la definizione dello “stato di salute” è quanto mai sfuggente.
Lo stato di salute che una persona ritrova dopo una malattia è un nuovo equilibrio che differisce profondamente da quello in cui egli si trovava prima, sia dal punto di vista fisico che – e ancor di più – dal punto di vista psicologico. Eppure egli può trovarsi in una forma di benessere e di felicità parimenti soddisfacente, e persino più soddisfacente di quella precedente, che però con la precedente ha poco o nulla a che fare. Anzi, l’esperienza della malattia può essere fonte di un nuovo stato che procura nuove riflessioni, l’acquisizione di nuovi pensieri e sentimenti, e persino una felicità sconosciuta in precedenza, più intensa, profonda e inattesa.
La felicità di una persona umana non è uno stato definibile in termini strettamente oggettivi, tantomeno uniformi per ogni persona.
Guardiamo, ad esempio, alla definizione di salute data dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Essa rappresenta un esempio plateale di contaminazione meccanicista. “Salute” – ci si dice – è uno «stato di completo benessere fisico, mentale e sociale». È perfino impietoso insistere sul carattere tautologico di questa definizione. Cos’è benessere? bisognerebbe chiedere… E quando una persona può dire di essere in uno stato di benessere fisico, mentale e sociale “completo”? Non è la vita un fluire di situazioni diverse, in cui uno stato di malessere fisico può accompagnarsi a uno stato intenso di appagamento emotivo? Non si tratta di un processo in cui continuamente ci assestiamo su nuovi equilibri, tutti instabili, che si succedono l’uno all’altro proponendo nuove situazioni inaspettate?
Cosa diventa il cultore della “salute” entro una concezione del genere, se non una parodia del medico? Egli diventa un meccanico del corpo umano, che chiude gli occhi, le orecchie e la bocca per non comunicare con la “persona” che ha di fronte. La disumanizza, ne elide i tratti specifici e individuali. Come un fisico-matematico, quando tratta del moto dei pianeti prescinde dal loro colore o da altre caratteristiche secondarie, e li considera come una massa di materia sferica o addirittura assimilata a un punto, così il medico meccanicista, trascura le caratteristiche individuali della persona malata, per considerarla come una macchina e ripararne la funzionalità degli organi. Oltretutto lo farà in conformità a una visione del corpo inteso come un aggregato di parti indipendenti – come lo sono il carburatore e la dinamo di un’auto – per cui lo specialista del fegato guarderà al fegato, ignorando il resto e quello del cuore si occuperà del cuore ignorando il resto.
Ma torniamo all’idea di salute come stato. Perché essa ci fornisce un ulteriore indizio per comprendere la disumanizzazione che sta introducendosi nella visione contemporanea dei fenomeni della vita.
Ho letto in più luoghi delle definizioni di bambino profondamente indicative al riguardo. Un bambino sarebbe un “essere che non è ancora completo”, un essere “sulla via di”. Ne consegue che esisterebbe uno stato di completezza e maturità dell’individuo adulto cui il bambino tende, mentre, in quanto tale, esso è ancora un essere incompleto, qualcosa in via di formazione verso l’obbiettivo. Secondo certi aspetti – la statura, l’apparato dentario e altre caratteristiche consimili – ciò è certamente vero e persino ovvio. Ma, in senso generale, si tratta di un’idea non soltanto sbagliata, ma profondamente fuorviante. Chi, fra i presenti, può seriamente asserire di essere un individuo che ha raggiunto uno stato di realizzazione completa e stabile? E chi può seriamente identificare, nella propria vita, l’istante in cui è avvenuta la propria realizzazione, la realizzazione del proprio essere adulto? Non soltanto questo è sbagliato perché ognuno di noi è consapevole di vivere in un processo di cambiamento continuo in cui la propria identità affronta continui processi di modificazione e assume nuove finalità di esistenza. Ma è eticamente e moralmente sbagliato, perché il bambino non è un essere parziale in attesa della sua completa formazione, bensì anche in questo processo di formazione è un soggetto, una persona a pieno titolo e che vive una vita piena.
Essere bambini non è vivere una vita menomata o parziale, in attesa di conseguire quella “vera” o, peggio ancora, vivere una vita che ha come funzione e scopo la costruzione della vita “vera”. Un bambino non è una macchina in costruzione. Un bambino è una persona che vive una fase della propria vita. Il gioco del bambino non è una mera forma di apprendimento, è gioco e basta, e il suo fine è anche e soprattutto la felicità che esso da. Oppure vorremmo far credere che l’unica fase della vita in cui il gioco è puramente gioco è quella adulta – perché l’individuo ha raggiunto la sua completezza – mentre nei primi anni della vita è apprendimento mascherato?
Capite che questo è un punto cruciale. Perché se un bambino non è una persona, ma un essere in formazione, allora la finalità del suo essere bambino è rappresentato da quel che quella persona vogliamo che sia, e non dalla sua vita reale e presente, dalle gioie effettive che egli può vivere; essa è rappresentata da quel che deve essere secondo il piano che ci siamo fatti noi adulti del suo futuro. Se ammettiamo questo modo di vedere, allora ammettiamo che quando nasce un bambino non nasce una persona, ma nasce un progetto, anzi un nostro progetto. Perciò, in una simile ottica, sarà perfettamente ammissibile programmare un bambino che diventi l’adulto che vogliamo: bello, forte, senza malattie, intelligente (ma che vuol dire intelligente?), di successo (ma perché la nostra idea di successo dovrebbe essere universale e perché ciascuno dovrebbe aspirare al successo?), simpatico, longevo.
È curioso. Per decenni, stuoli di psicologi e di educatori hanno predicato contro la pedagogia impositiva, contro l’idea di trattare i bambini come oggetti da manipolare secondo le finalità e le aspirazioni di felicità dei genitori – devi studiare il pianoforte, fare fisica, diventare un Nobel della medicina, battere il record del salto in alto – e hanno incitato a trattare i bambini come esseri autonomi di cui occorre favorire le propensioni, sia pure in un quadro di regole etiche e dei principi elementari della vita associata, e non costringere entro i nostri progetti. Insomma, ci hanno incitato ad aiutare la crescita dell’albero, correggendone le cattive tendenze, ma delicatamente, in modo da lasciarlo libero di svilupparsi secondo le proprie propensioni individuali.
Ed ecco che arriva la scienza meccanicista, e con la sua indiscussa e temibile autorità, spazza via tutto e restaura una visione autoritaria del ruolo dei genitori che fa impallidire i rigori della famiglia patriarcale, mentre il pedagogisti di cui sopra si genuflettono. L’ingegneria genetica e le scienze (si fa per dire) della procreazione programmata conferiscono ai nuovi genitori democratici la possibilità, tra mille carezze e baci democratici, di determinare i figli secondo il loro piacimento e le loro più segrete idiosincrasie: promette loro il potere assoluto di scegliere il sesso, di farli biondi e con gli occhi azzurri, robusti e simpatici, mai depressi e soprattutto felici. Senza curarci di quel che essi veramente vorranno e cosa sarà per loro il conseguimento della felicità.
Non intendo qui occuparmi degli aspetti prettamente scientifici di queste promesse della nuova eugenetica, perché pur sempre di eugenetica si tratta. Ho una formazione scientifica di carattere matematico, e quindi nelle cosiddette “scienze dure”. E, da questo punto di vista, trovo assolutamente sconcertante la leggerezza con cui viene presentato come credibile un certo determinismo biologico e, in particolare, genetico. I fisico-matematici sanno da un secolo che è impossibile persino dire qualcosa di certo circa la stabilità del sistema solare, perché non siamo in grado di trattare in modo esatto neppure il moto di tre corpi celesti. Figuriamoci se ha senso garantire l’esito di manipolazioni genetiche in cui intervengono elementi e processi di una complessità infinitamente maggiore rispetto a quella dei fenomeni fisici! Chi promette un risultato sulla base di un principio deterministico del genere non è uno scienziato, ma semplicemente un ciarlatano. Ovvero, un apprendista stregone che manipola senza avere alcuna idea seria dell’esito delle sue operazioni.
L’aspetto più grave è che si da per certa la possibilità di ottenere effetti mentali o caratteriali sulla base della manipolazione genetica. Questo assunto si basa su un’ipotesi che non ha nulla di scientifico, e che è semplicemente un’assunzione metafisica materialistica, e cioè che tutti gli aspetti mentali siano determinati dai geni. Quando si dice che le neuroscienze ci hanno condotto a una migliore comprensione dei processi mentali, si dice qualcosa che non ha il minimo fondamento. Le neuroscienze e la genetica ci permettono di capire sempre di più cosa accade nel nostro cervello quando si verificano certi processi mentali, ma non ci dicono e non ci possono dire nulla circa questi processi mentali. Tantomeno è lecito dire che nei geni e nei neuroni stiano le cause dei processi mentali e i fondamenti del nostro carattere. Tanto varrebbe dire che, siccome quando vedo la persona amata mi batte il cuore, il cuore produce l’amore.
È importante approfondire e criticare in dettaglio queste visioni materialistiche – per quanto la loro grossolanità induca nella tentazione di liquidarle sommariamente – perché da esse derivano una serie di conseguenze disastrose che riguardano direttamente uno dei temi principali di questa conversazione: la bioetica. La principale di queste conseguenze è la pretesa di voler ricavare i principi dell’etica e della morale dall’analisi della struttura neuronale del cervello. Prodotto esimio di questa visione è la cosiddetta neuroetica che pretende, ad esempio, di mostrare l’emergere del “sé etico”, della coscienza etica, dalle sinapsi.
Anche qui meriterebbe soffermarsi sulla fragilità, per non dire l’inconsistenza, di queste sedicenti teorie scientifiche. Ma voglio limitarmi a un’osservazione dall’esterno. Qual’è la modalità con cui, in fin dei conti, vengono definiti i principi etici, su questa base materialistica? Si tratta nientemeno che di quell’approccio che in matematica, e in economia, si chiama una procedura di ottimizzazione dell’utilità. Principi etici e raggiungimento della felicità sarebbero conseguenza del fatto che il nostro organismo tende alla massimizzazione di tutti i parametri che ne caratterizzano il comportamento.
È quasi superfluo dire che la vita reale – né la vita delle persone, né la vita associata – non risponde affatto a un criterio di ottimizzazione dell’utilità, se non per aspetti marginali.
Noi constatiamo con evidenza che la vita è fonte di eticità – ma la vita nella sua pienezza, non soltanto nel suo mero lato materiale, bensì nella sua pienezza spirituale. E la sorgente di questa spiritualità non è riconducibile a fattori meramente fisici. Anche se determinassimo una correlazione tra sinapsi ed emergenza della coscienza etica, si potrebbe chiedere al nostro pseudo-scienziato – in realtà, metafisico della più bell’acqua – perché mai la struttura sinaptica è stata fatta in quel modo. E noi l’abbiamo trovata fatta in quel modo, non è stata fatta da noi. Questo è il vero grande enigma. E cioè che, malgrado la ricerca della felicità abbia senso soltanto come realizzazione dei fini della persona nella sua irriducibile particolarità, la vita faccia emergere dei principi etici e morali aventi un valore generale e che si impongono alla coscienza individuale. Su questi temi, e in particolare sul tema delle fonti dei principi etici e morali, le scienze naturali non hanno nulla da dire. Questa è una sfera che appartiene al dominio dell’esperienza religiosa o della riflessione filosofica, comunque allo sforzo di noi esseri finiti di attingere alla dimensione dell’infinito.
Torniamo così, per concludere, al tema della felicità.
Anche qui, noi vediamo chiaramente la miseria di una concezione scientista della felicità che vuol definirla in termini di pura e semplice massimizzazione di un non meglio definito “benessere”, il quale poi – proprio perché è difficilmente definibile – si riduce alla ricerca dell’ottimizzazione delle “performances”.
L’autentica felicità tocca il tema del rapporto con l’infinito. L’autentica felicità è è incomprensibile e impensabile separatamente dal dolore. E non soltanto per una mera ragione di contrasto, come se la felicità-benessere fosse il positivo e l’infelicità-malessere il suo negativo, il suo opposto algebrico. Dolore e felicità sono inestricabilmente connessi e poche cose sono talmente enigmatiche e affascinanti quando questo intreccio infinitamente complesso.
Voglio permettermi un riferimento personale. in un momento difficile della mia vita un mio caro amico scrittore, recentemente scomparso, che aveva grande sensibilità per la complessità dell’animo umano, mi disse in tono scherzoso: “Certo, ora tu soffri, ma quando tutto sarà passato ti renderai conto di quanto ti sei divertito”. Naturalmente “divertito” era un termine volutamente grossolano per sottolineare con forza quanto la sofferenza possa essere fonte di vitalità.
Tema centrale di questo Meeting è l’infinito. Ed è quindi persino banale pensare a Giacomo Leopardi e al suo poema “L’infinito”.
Leopardi… Difficile pensare a un uomo più infelice. Deforme, solo, depresso, chiuso nell’astio per il mondo circostante. Può parlarsi di salute, nel senso dell’OMS, per una persona come lui? Non riscontriamo nella sua persona nessuno stato di ottimalità biologica e mentale.
Eppure questo gobbo infelice – scusate il termine, ma non amo il politicamente corretto – trascinato dal suo senso del dolore ad annegare nell’immensità dell’infinito, ha spiegato quanto fosse straordinariamente dolce “naufragare in questo mare”. E ci ha fatto toccare, con poche parole, una dimensione di felicità ineguagliabile, la felicità autentica, perché è quella che nasce in quegli attimi miracolosi in cui percepiamo l’infinito.

Giorgio Israel

venerdì 25 agosto 2006

La "nuova" politica estera italiana

Il ministro degli esteri Massimo D’Alema farebbe bene a non dare troppo ascolto al coro adulatorio che tutti i giorni vanta la sua insuperabile intelligenza. Difatti, per quanto lucido egli sia, rischia di illudersi di poter far credere al prossimo qualsiasi cosa, per esempio che egli sia “equivicino” tra le parti in Medio Oriente. Gettare alle ortiche l’uso di questo infelice aggettivo non potrebbe che far bene. In primo luogo perché, essere equidistante tra Israele e un movimento terrorista come Hezbollah non è degno del ministro degli esteri di un paese democratico. In secondo luogo, perché neppure coloro che ripetono da mane a sera il mantra della superiore intelligenza di D’Alema possono più credere alla favola che egli sia equidistante. Per quanti sforzi egli faccia per celare i suoi sentimenti, essi spuntano da tutti i lati come un pezzo di gomma che si cerchi di comprimere in uno spazio troppo piccolo.
L’onorevole D’Alema usa respingere le critiche dicendo che è inammissibile che ogni accusa a Israele sia tacciata di antisemitismo. Ma si tratta di uno stratagemma inutile. Qui non si parla di antisemitismo. Si parla semplicemente del fatto che l’insopportazione e l’antipatia di D’Alema per Israele, la sua mancanza di obbiettività e di apertura mentale nei confronti di Israele e delle sue ragioni, esce da tutti i pori come il pezzo di gomma di cui si diceva.
Non faremo qui l’elenco delle condanne passate di D’Alema contro la politica di Israele, con termini durissimi che mostrano quanto D’Alema sia capace di indignazione morale quando vuole. Ricorderemo soprattutto un’intervista rilasciata in rete alcuni mesi fa in cui D’Alema manifestò in modo quanto mai chiaro la sua profonda antipatia per Israele e per gli Stati Uniti, parlando di superiorità dell’Europa rispetto a coloro che credono di portare la democrazia con la violenza di stato. Naturalmente, siccome D’Alema è una persona intelligente, si rese conto del ridicolo dell’affermazione e osservò che, certo l’Europa ha avuto Auschwitz, ma che “proprio per questo” aveva capito la lezione. Come si usa dire, peggio la toppa del buco.
La lista delle manifestazioni di sdegno morale di D’Alema nei confronti di Israele è tanto lunga quanto è corta quella delle critiche – per non dire delle condanne – nei confronti dei nemici di Israele. Egli ha ripetutamente accusato l’esercito israeliano di praticare il tiro al bersaglio sui civili ma non ricordiamo condanne nette della pratica degli stermini suicidi. Quando Israele si è ritirato da Gaza, sono state devastate e date alle fiamme le sinagoghe, ma non ricordiamo una condanna dell’on. D’Alema di questo gesto efferato. I palestinesi avevano l’opportunità di cominciare a creare uno stato su un territorio totalmente in mano loro, e non hanno saputo neppure creare una forza di sicurezza unificata: l’unica cosa che hanno saputo fare è organizzare dei tiri di missili Kassam entro Israele, rendendo la vita impossibile agli abitanti di Sderot. Non ricordiamo una critica dell’on. D’Alema di tale comportamento illegale e criminale. Eppure per essere davvero amico di qualcuno bisogna dirgli la verità. Non ricordiamo critiche dell’on. D’Alema nei confronti di Hezbollah e delle sue mire dichiarate e ripetute di distruzione di Israele. Non ricordiamo neppure vibrate condanne da parte dell’on. D’Alema dei propositi criminali del presidente iraniano Ahmadinejad e delle sue efferate affermazioni circa lo sterminio degli ebrei d’Europa. Al contrario, ricordiamo la sua dichiarazione circa il ruolo di potenza regionale che deve essere riconosciuto all’Iran (a “questo” Iran). E si potrebbe continuare a lungo.
Dal momento della sua nomina a ministro degli esteri, l’on D’Alema ha voluto ostentare una posizione di assoluta oggettività, fuori da ogni ideologia e moralismo, parlando – come è apparso evidente in una recente intervista a Repubblica – alla maniera di Talleyrand, criticando cioè Israele per aver commesso qualcosa di peggio di un crimine, ovvero un “errore”; e aggiungendo che i problemi si risolvono per via diplomatica e mai con la guerra. Ma per aspirare ad essere una replica di Talleyrand bisogna capire lo spirito della sua azione. Talleyrand approvò molte delle guerre di Napoleone e ne criticò altre perché erano, appunto, un “errore”; ma si guardò bene dall’aderire a un’ideologia pacifista o guerrafondaia. Quando enuncia il principio dell’assoluta inutilità, ed anzi negatività della guerra, D’Alema è agli antipodi dall’idea che un errore è peggio di un crimine: aderisce a una visione ideologica. Dire che la guerra è sempre un male (o viceversa) è pura ideologia moralistica e non ha nulla a che fare con una visione razionale dei fatti. E qui si scorge il filo rosso della continuità con il D’Alema dell’intervista in rete.
Non c’è da stupirsi allora che l’immagine del nostro ministro degli esteri come un novello Talleyrand sia esplosa come una bolla di sapone, riportando alla luce i suoi autentici sentimenti. Egli valuta la crisi israelo-libanese come se fosse una questione del rapimento di qualche soldato e di una reazione “sproporzionata” – cosa sarebbe stato proporzionato? rapire un paio di militanti Hezbollah? – e non il frutto di un disegno vastissimo dietro cui vi è l’Iran e che muove in unico quadro Siria, Hezbollah e Hamas verso l’obbiettivo della distruzione di Israele come passo decisivo per un attacco globale che va avanti da più di un decennio. Non vedere questo significa non guardare oltre la punta del naso e rinunciare a una visione geopolitica a vantaggio di un pregiudizio ideologico, basato sul solito ritornello dell’oppressione che genera reazione. Non meno falsamente oggettivo è l’insistere sul fatto che Hamas o Hezbollah (o l’integralismo iraniano) non sono classificabili sotto la rubrica “terrorismo” perché godono di un’ampia adesione di popolo, talora sancita attraverso elezioni. È persino stucchevole dover ricordare che anche i grandi movimenti totalitari europei si sono affermati attraverso elezioni e hanno goduto di ampio sostegno di popolo – e non soltanto quelli: pure le recenti dittature sudamericane godevano di un radicamento di massa – e che la democrazia non si identifica con le elezioni. Al contrario. La democrazia è anche conferimento di un potere speciale allo stato che include la negazione o limitazione dei diritti a coloro che lottano per sopprimerla: in buona sostanza, se si consente a un movimento antidemocratico di presentarsi alle elezioni la democrazia è già morta in partenza.
Non c’è quindi da stupirsi se al nostro ministro degli esteri riesce sempre facile trovare aspre parole di critica e condanna per Israele e mai per i suoi avversari, anche quando questi dichiarano il fine di volerlo distruggere. Egli va a visitare le rovine di Beirut a braccetto di un esponente Hezbollah – fatto discutibile se lo fa un uomo politico, gravissimo da parte di un ministro degli esteri – e pronunzia parole di sdegno per quanto ha visto, e che giustificherebbe a suo avviso la critica di “sproporzione” della reazione israeliana. Ma non sente l’esigenza neppure per pura diplomazia, magari soltanto di facciata, di andare a vedere i drammi dell’altra parte, provocati non come danni “collaterali” ma con l’intento deliberato e terroristico di colpire la popolazione civile e soltanto questa. D’Alema chiama la comunità internazionale alla ricostruzione del Libano, mentre Israele dovrà provvedere da sola a riparare le distruzioni provocate da un movimento terrorista e l’on D’Alema non trova una parola di sdegno per il fatto che un terzo – un terzo! – della popolazione del paese sia stata costretta a vivere per un mese nei rifugi o a emigrare per non morire sotto i missili. Invece di passeggiare per Kiriat Shmona, il ministro è volato direttamente al Cairo e ha rilasciato durissime dichiarazioni contro Israele, parlando di errore catastrofico per aver fatto la guerra. Come se una guerra non fosse stata scatenata contro Israele.
Certo, ogni critica contro la conduzione militare-diplomatica da parte del governo israeliano è più che ammissibile. La stampa e l’opinione pubblica israeliana stanno sottoponendo il proprio governo a critiche di una severità straordinaria. Ma altra cosa è la critica ideologica, la critica non per aver perseguito male una causa giusta, ma per aver commesso l’errore in sé di aver reagito a un complotto di cui vediamo le dimensioni inquietanti sempre di più ogni giorno che passa.
Pertanto, se il ministro degli esteri vuole guardare ai fatti oggettivamente e non trascinare sé stesso e il nostro paese in un’avventura disastrosa, dovrebbe tenere conto dei dati più profondi e gravi del problema. Senza risolvere questi dati – primo di tutti il disarmo di Hezbollah e la sconfitta del disegno iraniano di procedere nel piano di distruzione di Israele – la missione Onu si risolverà in qualcosa tra la farsa e la tragedia. Difatti, quel che abbiamo di fronte non è certo il trionfo del multilateralismo, ma il crearsi delle condizioni – per errori di molti, inclusi quelli del governo israeliano – per un secondo atto più drammatico del primo.
Tutte queste cose l’on. D’Alema certamente le vede, anche perché è persona intelligente. Ma non le vuol vedere perché non riesce a liberarsi dalle sue antipatie e simpatie. Egli ha iniziato la sua missione di ministro degli esteri tentando di azzerare le riserve nei suoi confronti, dicendo persino di essere un “amico” di Israele, tutt’al più un “amico che sbaglia”. Ma, alla luce di quanto sta accadendo appare evidente che l’ultima cosa che gli passa per la mente è di aver sbagliato. Ben più che pentito egli appare irriducibilmente intriso di pregiudizi nei confronti di Israele. A tal punto che viene da chiedersi se, nel suo foro interno, egli non pensi che Israele stesso sia un “errore”.

Giorgio Israel