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Al mio articolo sull'eugenetica (vedi il precedente post), il signor Cassata ha ritenuto di inviare la seguente risposta cui ho controrisposto come segue, sempre sul Foglio.
Molto istruttivo. Ecco come educa l'Università oggi i giovani ricercatori. Non a ragionare civilmente, magari anche duramente ma civilmente, ma a imbastire risse ideologico-politiche con uno stile da Santa Inquisizione o da Procuratore Vishinskji (è la stessa cosa): costruisco un'immagine falsa di te, ti denigro e continuo a farlo, qualsiasi cosa tu dica, con la classica tecnica di ribaltare ogni discorso che fai.
Fortunatamente non siamo nel Medioevo e lo stalinismo non ha più gli strumenti di potere di un tempo.
Alla fine, gente del genere può ottenere un solo risultato: mostrare a tutti di che pasta sono fatti e soprattutto di che pasta sono fatti i loro "maestri".
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Al direttore - In riferimento all’articolo di Giorgio Israel (“Non esiste il bello dell’eugenetica”), pubblicato sul Foglio il 21 marzo scorso, mi permetto di puntualizzare soltanto su due argomenti, fra i numerosi confusamente affastellati dall’autore nella sua critica al mio libro (“Molti sani e forti. L’eugenetica in Italia”, Bollati Boringhieri): il rapporto eugenica-razzismo e il legame “razza”-scienza.
Per quanto concerne il primo punto, l’assimilazione di Israel dell’eugenica al razzismo rivela semplicemente una profonda ignoranza della storiografia internazionale sul tema. Cito soltanto, come esempio, il caso paradigmatico della Germania. Numerosi studi – Israel può leggere, fra gli altri, “Peter Weingart, Paul Weindling o Sheila Weiss” – hanno chiaramente dimostrato come l’eugenica tedesca non possa essere tout court identificata con il razzismo e l’antisemitismo nazisti. Il medico Wilhelm Schallmayer, fondatore dell’eugenica tedesca, condannava l’idea della superiorità della “razza germanica”; disprezzava la “psicologia razziale” di Vacher de Lapouge, Ammon o Woltmann; esaltava la civiltà cinese e quella mediterranea. Tra il 1900 e il 1932, la componente maggioritaria delle organizzazioni eugenetiche tedesche – comprendente non solo conservatori, ma anche liberali, socialdemocratici, centristi cattolici ed ebrei – era schierata su posizioni nettamente contrarie al razzismo völkisch: la sezione berlinese della Deutsche Gesellschaft für Rassenhygiene, nel 1931, abbandonerà perfino il termine Rassenhygiene, sostituendolo con quello, più neutro, di Eugenik.
Nel contesto italiano, l’analogia eugenica-razzismo, unita al tema del “precorrimento” (l’eugenica come “anticipazione” e legittimazione del razzismo fascista) ha non a caso condotto Israel – nel saggio “Scienza e razza nell’Italia fascista” (Il Mulino, Bologna 1998) scritto insieme a Pietro Nastasi – a errori grossolani, che dimostrano la sua scarsa conoscenza delle fonti e del contesto storico. Come quando, ad esempio, Ettore Levi, paladino del birth control in Italia (morto suicida nel 1932), viene annoverato fra i “precursori” del razzismo fascista, dimenticando come il regime lo considerasse, per il suo neomalthusianesimo, un avversario del pronatalismo “quantitativo” e come “La Difesa della Razza”, in un feroce trafiletto del 1939, lo ricordasse ancora come uno degli esponenti più pericolosi della “scienza ebraica”.
Per quanto riguarda, invece, il rapporto “razza”-scienza, la critica di Israel appare quanto meno anacronistica, e l’anacronismo – diceva Lucien Febvre – è il peccato capitale dello storico. Dal punto di vista dell’indagine storiografica, il vero problema non consiste tanto nel denunciare il concetto di “razza” come concetto “non scientifico”, quanto piuttosto nello studiare come tale concetto sia stato usato dalla comunità scientifica internazionale in modalità e contesti differenti. A tale proposito suggerisco a Israel di leggere i capitoli di un recente libro pubblicato da Claudio Pogliano (“L’ossessione della razza”, Edizioni della Normale, Pisa 2005), dedicati ai dibattiti che condussero all’elaborazione degli Statements on Race dell’Unesco (1949-1967): vi scoprirà come, anche all’interno di un’organizzazione internazionale che aveva posto la lotta al razzismo fra gli obiettivi della sua azione, sia stato estremamente difficile, per antropologi e genetisti non razzisti, rinunciare alla parola e al concetto di “razza”.
Altre questioni – i razzismi biologico e spirituale, i caratteri dell’antisemitismo fascista – richiederebbero un lungo discorso, e questa non può esserne evidentemente la sede. Altre ancora – la mia carriera accademica o l’uso pubblico del concetto di eugenica – appartengono – per gli argomenti e il linguaggio adottati da Israel – alla sfera dell’insulto personale e della strumentalizzazione ideologico-politica, non certo a quella di un confronto serio fra posizioni storiografiche anche radicalmente contrapposte.
Francesco Cassata
La replica di Francesco Cassata al mio articolo (“Non esiste il bello dell’eugenetica”, 21 marzo) non meriterebbe una risposta se non per segnalarla al lettore come un perfetto modello del “costume” che denunciavo in quell’articolo.
Immaginate che vi si accusi di aver detto la tesi A, qualificandola come una stupidaggine e che voi rispondiate di aver detto qualcosa di ben diverso da A, diciamo la tesi B. Vi aspettereste che vi si risponda che anche B è falsa, oppure che si dimostri inequivocabilmente che B è equivalente ad A. Ebbene no: vi si risponde semplicemente dicendo che siete un ignorante perché… avete detto A. Insomma, tu hai sbagliato a dire A per la semplice ragione che io dico che tu hai detto A.
Non mi interessa dirimere se un simile modo di fare sia dovuto a difficoltà di comprensione o a un approccio di tipo stalinista, per cui, una volta decretato che hai commesso un fatto puoi fare qualsiasi cosa salvo una: negare di averlo commesso.
Nel mio articolo sostenevo molte cose, le quali non erano “affastellate” soltanto per criticare il libro di Cassata: veda di dare una calmata al suo egocentrismo. Comunque, in sintesi: 1) che l’eugenetica è nata in stretta correlazione con il concetto di razza e attiene all’idea di miglioramento della razza (della stirpe o della specie) e quindi non esiste – per definizione – un’eugenetica che si curi dell’individuo singolo indipendentemente da parametri generali e fini collettivi; 2) non dicevo affatto che eugenetica = razzismo (tantomeno che eugenetica = antisemitismo!), ma che l’eugenetica propugna pratiche di selezione pericolosamente contigue a una visione razziale e che, per la sua stessa natura, fornisce l’argomentazione teorica e “scientifica” atta a giustificare l’adesione a politiche razziali e quindi a creare consenso nei confronti di esse; 3) che tale era il senso dell’interpretazione che sorreggeva il libro mio e di Pietro Nastasi (“Scienza e razza nell’Italia fascista”), e che quindi le critiche (fra cui quella di Cassata) secondo cui avremmo sostenuto una tesi di “precorrimento” ovvero di un “piano inclinato” che avrebbe condotto dall’eugenetica alle politiche della razza (in particolare antiebraiche) erano completamente infondate. La nostra interpretazione era ben diversa ed escludeva esplicitamente ogni teoria del “piano inclinato”, tantomeno l’idea di una correlazione meccanica tra eugenetica e razzismo antisemita e che non era corretto tentare di confutarci inchiodandoci a una tesi che non era la nostra (se mai di altri).
E invece si ricomincia daccapo. Cassata dice che sarei un «ignorante» perché non saprei che è stato «chiaramente dimostrato come l’eugenica tedesca non possa essere tout court identificata con il razzismo e l’antisemitismo nazisti» e mi accusa di aver usato il tema del “precorrimento”… E allora cosa concludere? Per esser buono non dirò che egli fa orecchie da mercante, ma soltanto che le sfumature non appartengono al suo mondo. Egli continua dicendo che la “nostra” teoria del “precorrimento” (e dàgli…) conduce a errori grossolani come l’annoverare Ettore Levi fra i “precursori” del razzismo fascista. Inutile dire che neppure questo abbiamo mai detto. Abbiamo piuttosto ricordato che Levi era assertore dell’idea che l’eugenetica aveva la funzione di «rialzare la qualità della razza» e di farlo anche «impedendo l’unione fra elementi disgenici». Continuo a trovare detestabili simili progetti – che nulla hanno a che fare con la “scienza” ma sono progetti puramente ideologico-politici – e continuo e ritenere che un simile modo di pensare abbia contribuito a creare un’atmosfera malsana e favorevole alla diffusione di idee deleterie. Questo non vuol dire che Ettore Levi sia stato un precursore del razzismo antiebraico: c’è bisogno di dirlo? Il poveretto si rivolterebbe nella tomba a sentirselo dire, il che non è in contraddizione con la tesi che i suoi propositi siano stati assai discutibili. E il fatto che egli sia stato denigrato come scienziato ebreo e nemico dell’ideologia razziale fascista dalla rivista “La Difesa della Razza” non dimostra un bel niente. Nel periodo iniziale del fascismo, Mussolini in persona presentò Einstein come un precursore del fascismo, ideologia a suo dire super-relativista. Alla fine, Einstein diventò l’emblema della più fetida scienza ebraica. Infatti, non esiste alcun “piano inclinato” o “precorrimento”. Forse Cassata non sa che sono esistiti anche ebrei fascisti, e persino ebrei che difendevano la superiorità della razza italica, che alcuni tra i maggiori teorici del diritto corporativo fascista sono stati ebrei, e che costoro si sono visti poi accusare come nemici del regime e della patria. Oppure Cassata sa queste cose, ma si tratta di “contraddizioni” difficili da far rientrare nella sua storiografia in bianco e nero. Pensa che, l’eugenetica di Levi fosse “buona” e scientifica perché progressista, mentre quando era promossa da scienziati fascisti era comunque la “peggiore”. Ecco perché certe valutazioni gli risultano semplicemente incomprensibili, e le cataloga come “errori”. Sempre ad esser buoni e non voler dar credito al sospetto che stia facendo le orecchie da mercante.
L’eugenetica è sempre stata (e continua ad essere) una pseudoscienza altamente rischiosa, così come l’antropologia fisica. Alla sua costruzione hanno contribuito scienziati reazionari e progressisti, e se la sua storia può insegnarci qualcosa è che la legittimazione in quanto “scientifici” di concetti di natura prettamente ideologica – come quello di razza, di stirpe e anche di etnia – può condurre a giustificare come “oggettive” e neutrali conclusioni che contengono invece tutti i veleni inerenti a quelle premesse ideologiche.
Lasci perdere quindi Cassata le sue saccenti lezioncine a base di citazioni di Febvre sull’anacronismo come peccato capitale dello storico. Dice che mostrare il carattere non scientifico del concetto di razza non è il vero problema: dal punto di vista della storia della scienza lo è certamente. Abbia quindi Cassata il senso del ridicolo di non fare il Croce in sedicesimo. Peraltro, studiare come sia stato usato storicamente il concetto di razza dalla comunità scientifica internazionale è precisamente quel che abbiamo fatto. Parte di questa storia è la progressiva constatazione del tragico errore strutturale che è alla base dell’eugenetica, nonché dell’antropologia fisica, e che giustamente ha fatto parlare Lévi-Strauss di un “peccato originale”. Dimenticare la natura specifica e caratteristica dell’eugenetica, facendo finta che sia stata una scienza al pari dell’astronomia è ingenuo, e conduce a cascare con tutte le scarpe nella tesi ideologica di un’eugenetica “buona” e “cattiva”, in dipendenza dei suoi portatori, e nella riproposizione – questa sì sconcertante anacronismo – di un’eugenetica per il nostro tempo.
Quanto agli insulti, Cassata avrebbe fatto meglio a rileggersi l’introduzione al suo libro e constatare: la sua pretesa comica di avere i titoli per attribuire voti a destra e manca; la petulante insistenza a definire “errori” le opinioni altrui senza neppure tentare di capire se dietro vi sia qualche ragione che egli non è stato capace di approfondire; l’accusa di ignoranza e strumentalismo che riversa su coloro che hanno indicato i rischi dell’eugenetica nel corso del dibattito referendario sulla procreazione assistita; mentre sarebbe invece giustificata la pretesa di ricavare dal suo compitino storiografico la tesi che l’eugenetica è il sogno laico del miglioramento della specie umana. Insomma, chi critica l’eugenetica è un ideologo ignorante, mentre chi la difende a spada tratta, anche se in penuria di argomenti, è invece un paladino della conoscenza e del progresso…
Giorni fa Il Foglio ha ricordato una frase di Simon Wiesenthal: «Quando, oggigiorno, sento nuovamente i medici discutere di eutanasia, parlando di ‘uccisioni compassionevoli’, l’orrore si impadronisce di me: un titolo accademico non è una garanzia contro comportamenti sadici e psicopatici […]. Prima i ‘malati incurabili’, poi i ritardati e i vecchi. Molto presto tutti coloro che avevano un qualche genere di disabilità divennero indegni di vivere». Ma già, dimenticavo che Wiesenthal non era un sognatore laico del miglioramento dell’umanità. Doveva essere un ignorante, un imbecille e un ideologo strumentalizzatore, che per poco ha mancato l’occasione d’oro di far campagna a favore della legge 40.
Giorgio Israel
«Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante Alighieri)
giovedì 30 marzo 2006
domenica 26 marzo 2006
NON ESISTE IL BELLO DELL'EUGENETICA
pubblicato su Il Foglio il 21 marzo 2006
Dopo aver ricordato la celebre frase di John Stuart Mill secondo cui «ciascuno è l’unico e autentico guardiano della propria salute sia fisica sia mentale e spirituale», Giulio Giorello ha osservato: «il che equivale a dire che gli interessi di ciascuno vanno definiti nei termini delle sue preferenze personali e non nei termini di ciò che qualcun altro pensa che sia un “bene per lui”» (Corriere Magazine, 2 marzo 2006). Non si potrebbe dir meglio. Per questo l’eugenetica è una dottrina illiberale: essa sostituisce la libertà dell’individuo di curare la propria salute come meglio crede (magari trascurandola) con l’obbligo di seguire prescrizioni generali che impongono di adeguarsi a una nozione di salute valida per tutti.
In tempi recenti questa frase è stata usata, nel dibattito sulla bioetica, per affermare che è meglio che la collettività non si impicci di stabilire regole, lasciando ai singoli la libertà di scegliere come meglio credono. Ma questo argomento è insostenibile. Giorello traduce bene il senso della frase di Mill parlando di “preferenze”. D’altra parte, i principi della convivenza associata non possono fondarsi soltanto sulla soddisfazione delle preferenze individuali: nessun procedimento di ottimizzazione di tali preferenze può produrre principi come “non uccidere”. Non è conveniente ignorare il sistematico fallimento degli innumerevoli tentativi di dedurre matematicamente l’etica e la morale dalla teoria utilitaristica. È quindi all’interno dei principi morali e della “visione del mondo” dominanti in una società che ha senso la cura massima delle preferenze personali e la raccomandazione di Stuart Mill.
L’eugenetica non è frutto né di principi etici o morali né delle preferenze personali dell’individuo. Trattasi di una dottrina ispirata a una prescrizione tipicamente collettiva: promuovere il “miglioramento” della specie umana o di una particolare razza o etnia, la sua rigenerazione o addirittura la sua riprogettazione. Confondere un simile progetto con il perseguimento individuale di ciò che si ritiene meglio per sé è una mistificazione. L’eugenetica è un prodotto di un’idea nefasta del pensiero occidentale e che è alla radice delle sue tragedie totalitarie e razziste: l’idea della ricostruzione dalle fondamenta dell’individuo e della società, un ideale di “palingenesi” che rifiuta l’umanità per quel che è nella sua concretezza storica e pretende di rifare il (mal)creato dalle fondamenta. È un ideale che nasce dal divorzio tra etica, morale e scienza e attribuisce a quest’ultima la missione impossibile di ricostruire uomo e società su basi “razionali”: la scienza assume in toto la funzione sociale, mentre le prime due vengono relegate nella sfera delle opzioni individuali. Ma la scienza non ha le spalle così forti da sopportare un simile compito e lo si è visto dagli effetti tragicomici – comici per la loro miseria intellettuale, tragici per la loro concretezza – di una simile pretesa, fino ai più recenti presuntuosi manifesti pseudoscientifici di “riprogettazione” dell’uomo.
Non ci si può stancare di ripetere che quanto detto non ha nulla a che fare con una critica della scienza, ma piuttosto con una critica dell’ideologia che pretende di attribuire alla scienza un simile progetto paranoico, quell’ideologia detta “scientismo”. Chi vuole impedire di ragionare su tale questione e lancia su chi osa farlo l’anatema di “nemico” della scienza e di oscurantista, se non è una persona intellettualmente debole, è un irrazionalista nel pieno senso del termine. Al contrario, è di straordinario interesse indagare i percorsi storici dell’ideale palingenetico di cui si diceva, le sue interazioni con l’ideologia scientista e la manifestazione che esso ha avuto con l’eugenetica. Una simile indagine non mira a screditare la scienza: al contrario, essa ne difende l’onore. Non è invece un buon servizio reso alla scienza presentare certe manifestazioni di delirio scientista come “scienza” e far credere che esistano forme di eugenetica moderna che mirerebbero alla salute individuale e al massimo benessere possibile senza alcuna pretesa di assoggettare il singolo a un progetto di ristrutturazione della specie: se così fosse l’eugenetica sarebbe soltanto medicina e, come tale, non avrebbe ragione di esistere. Ma così non è, e lo sa bene chiunque conosca la fenomenologia delle coercizioni e pressioni psicologiche pesanti che vengono esercitate su chi non si assoggetta alle prescrizioni diagnostiche in tema di procreazione, e la campagna tesa a suscitare sensi di colpa in chi si renderebbe responsabile di mettere al mondo individui “difettosi”. È l’ideologia così bene descritta da Gregory Stock, che propone “operazioni di marketing mirate” in modo che la riproduzione tradizionale venga considerata socialmente come “antiquata” e “irresponsabile”.
È quindi importante studiare la storia dell’eugenetica. Sotto questo profilo, l’affermazione contenuta nel recente libro di Francesco Cassata “Molti, sani e forti” (Bollati Boringhieri) – «L’eugenetica è oggi in Italia uno degli esempi più ricorrenti di quell’uso pubblico della storia che avvelena il dibattito pubblico e culturale del paese» – se fatta allo specchio, sarebbe una manifestazione di autoironia da Guinness dei primati. Purtroppo, l’autore – che, manco a dirlo, ce l’ha con i critici delle biotecnologie della procreazione assistita, accusati di strumentalismo e ignoranza – non possiede questa dote, visto che dichiara seriamente di aver svolto le sue ricerche nella speranza «indubbiamente illusoria» che «le scelte della politica possano maturare in un contesto di maggiore consapevolezza della prospettiva storica». Il fatto è che il contenuto del libro esibisce una totale discrasia tra il racconto storico – che sviluppa ricerche precedenti in modo corretto anche se viziato dall’ingenua propensione ad accumulare in quantità materiali e pagine – e l’intento sopra enunciato. Chi voglia ricavare indicazioni per maturare una scelta politica dovrebbe fare un triplo salto mortale perché dalla montagna di Cassata non esce neppure un topolino. Eppure l’intento ideologico c’è: è ribadito nella quarta di copertina – «il sogno laico del miglioramento della specie umana fra crisi e continuità» – ed è stato riassunto da Simonetta Fiori su La Repubblica (24 febbraio) con lo slogan «l’eugenetica non è una scienza reazionaria come in tanti pensano».
La tesi che dovrebbe discendere dal discorso storico – al prezzo di sforzi meritevoli di un’ernia – può essere così riassunta: l’eugenetica è una scienza, è stata ed è una cosa seria, anzi nasce dal nobile e ineccepibile sogno “laico” di migliorare la specie umana, e tutto è andato per il verso giusto quando è stata promossa da menti “laiche” e autenticamente scientifiche; il guaio è nato quando è caduta in mano ai reazionari delle varie risme, fascisti, nazisti e religiosi bigotti, come il cattolico Luigi Gedda. Il guaio è che il pilastro di questo discorso è di cartapesta: l’eugenetica non è una scienza, se vogliamo ancora attribuire qualche senso all’oggettività scientifica e non vogliamo allinearci alla tesi del carattere totalmente ideologico di ogni costruzione scientifica. Capiamo bene quanto sia difficile per chi si sente “profano” (nel senso latino “pro fanum”, che sta fuori del tempio) prendersela con i numi sacri della scienza e osare di pensare che menti eccelse abbiano potuto costruire castelli di fandonie ispirati soltanto da intenti ideologici. È più facile prendersela con un Gedda, mentre davanti a Karl Pearson, fondatore della statistica moderna, ballano i pantaloni. Eppure Pearson (il progressista Pearson che cambiò il suo nome da Carl a Karl in omaggio a Marx) non s’imbrattò poco quando esaltò la politica razziale di Hitler. Ma qui non è possibile tracciare una fenomenologia del razzismo degli scienziati eugenetisti, di destra e di sinistra, progressisti e reazionari, uniti nella lotta. Il fatto è che quella deriva era naturale perché la premessa era fradicia alla base. Il concetto di razza, o di stirpe o altri analoghi, non è un concetto scientifico, o comunque suscettibile di una qualsiasi definizione che non sia vuota, contraddittoria o tautologica. Sappiamo bene che tanti concetti scientifici sono imperfettamente definiti. La meccanica newtoniana è stata bandita per un secolo dall’insegnamento perché accusata di reintrodurre con il concetto di forza le “cause occulte”. Tuttavia, malgrado la sua vaghezza e il suo antropomorfismo, la nozione di forza può essere ben definita, quanto meno in termini dimensionali, il che ne fa un concetto perfettamente maneggevole e persino misurabile. E via con gli esempi. Ma chi può onestamente sostenere che si possa dare una qualsiasi definizione ragionevole e dotata di un minimo di base oggettiva del concetto di razza? E che essa sia una definizione, e non un conglomerato di pregiudizi e la proiezione di un intento, quello di dimostrare la superiorità del proprio “gruppo” umano di appartenenza e la necessità di mantenere e promuovere tale superiorità? Il fatto che menti di prim’ordine e in buona fede abbiano partecipato alla costruzione di questa pseudoscienza nella convinzione di far scienza non dimostra che essa avesse la stessa dignità della meccanica newtoniana. Lo storico della chimica Giulio Provenzal, persona onesta, seria e preparata, anche dopo essere stato estromesso in quanto ebreo dall’Università italiana, continuò a patrocinare la causa della superiorità scientifica della razza italica... Forse la sua autorevolezza dimostra che quella causa aveva un fondamento scientifico?
Ben venga quindi una storia seria dell’eugenetica, che metta al loro posto tutti i tasselli, che non confonda i risultati oggettivi con l’ideologia, la scienza con i progetti politici, e che analizzi con cura e senza pregiudizi le interazioni tra questi vari aspetti. Ma senza pregiudizi, senza gabellare per vera l’immagine di una costruzione nobile e progressiva, deturpata da fascisti e preti, e che, se lasciata libera dall’intrusione degli “oscurantisti”, riserverebbe all’umanità il paradiso di una rigenerazione globale. Che brutti scherzi gioca la strumentalità politica! Essa spinge lo scientista sulle spiagge del suo nemico più odiato, il sociologo della scienza postmoderno, quello che predica che nulla ha carattere oggettivo, che la teoria del calore vale quanto la teoria del flogisto, la chimica di Lavoisier quanto l’alchimia, e la genetica quanto l’eugenetica... (Peraltro non saremo noi a mettere sullo stesso piano l’innocua alchimia e il paranoico sogno di ricostruire l’umanità).
Tanto è vero che il discorso sull’eugenetica ha poco a che fare con un discorso sulla “scienza”, che è certamente possibile fare una storia della meccanica e dell’astronomia senza riferimenti alla realtà politica sottostante, ma è semplicemente impossibile fare un discorso sull’eugenetica senza parlare di politica. È persino possibile pensare a una storia della teoria economica scritta in forma “asettica”, mentre una storia dell’eugenetica che non faccia riferimento alle ideologie razziali è impensabile. Per questo il discorso scivola inevitabilmente sul terreno della storiografia politica e libri come quello di Cassata tengono un piede nella tematica delle politiche razziali nella storia italiana. Non è quindi fuori tema dedicare alcune considerazioni ai recenti sviluppi della storiografia italiana sul tema delle politiche razziali del fascismo. Non prima però di aver fatto un’osservazione. Cosa spinge un giovane studioso, che ha davanti a sé l’opportunità di dedicare molti anni a ricerche approfondite, tali da condurre a conclusioni equilibrate e meditate, a gettare invece i propri primi studi prematuramente in pasto a una rissa politica, e per giunta con tono arrogante e credendo di avere i titoli per assegnare i voti a chiunque abbia scritto prima di lui? Quel che spinge a ciò è proprio l’uso pubblico e “avvelenato” della storia, denunciato dallo stesso Cassata e di cui egli è vittima. È lo strumentalismo politico di una certa accademia che spinge i giovani studiosi alla ricerca militante. E poi ci si chiede da dove venga la decadenza delle università e della cultura italiane.
Veniamo ora alla storiografia sulle politiche razziali del fascismo, che, per lungo tempo, ha avuto come riferimento quasi esclusivo il fondamentale testo di Renzo De Felice “Gli ebrei italiani sotto il fascismo”. In questo approccio aveva poco spazio il mondo della cultura e nessuno spazio il mondo della scienza, né sotto il profilo delle teorie “scientifiche” della razza, né sotto quello del ruolo attivo e passivo della comunità scientifica. Ciò era, in parte, conseguenza della tesi di De Felice (parzialmente corretta nella biografia di Mussolini) secondo cui l’adesione del fascismo alle politiche antiebraiche era conseguenza del patto d’acciaio e quindi era una concessione politica nei confronti del Führer. Il primo tentativo di introdurre la tematica scientifica fu fatto da me in un convegno promosso nel 1988 dall’allora presidente della Camera dei deputati Nilde Iotti. I temi toccati erano quelli degli effetti delle leggi razziali sulla comunità scientifica e quello dell’esistenza di una teorizzazione razziale specifica del fascismo e ben diversa da quella nazista per la presenza di correnti di tipo “spiritualistico” che si rifacevano a un’idea di razza in certo senso più vicina a quella odierna di etnia. In un articolo del 1994, Mauro Raspanti descrisse in modo più articolato e preciso il panorama dei “razzismi del fascismo”, che sviluppai ulteriormente con Pietro Nastasi (nel libro “Scienza e razza nell’Italia fascista”), assieme a una ricostruzione dettagliata delle vicende del cosiddetto “Manifesto degli scienziati razzisti”, che evidenziavano lo scontro tra le correnti “spiritualistiche (di Nicola Pende ed altri) e quelle “biologistiche”, con il netto prevalere delle prime, almeno fino al 1941. Veniva chiaramente alla luce che il fascismo aveva avuto una “sua” politica demografico-eugenetico-razziale che si era articolata in correnti diverse e talora contrapposte, alcune vicine a quelle germaniche, altre di impronta originale e che avevano avuto un peso maggiore nel determinare le politiche del regime. Proprio per il carattere non puramente biologistico del razzismo fascista, esso presentava problemi di analisi storiografica molto più complessi del caso nazista; ferma restando la tesi di De Felice, e cioé che l’antisemitismo non è mai stato un elemento “costitutivo” dell’ideologia fascista, come lo è stato invece di quella nazista.
In una prima fase, a queste tesi è stata riservata una variegata accoglienza. In primo luogo, un certo fastidio per l’invasione di campo da parte di “storici della scienza” estranei all’ambiente dei “titolari”, gli storici politici. È curioso rilevare la persistenza di queste forme di crocianesimo fuori tempo massimo: in ambiente anglosassone l’interazione con gli storici della scienza è considerata naturale, ma da noi è ancora un fatto perturbante. Ricordo con divertimento un dibattito su questi temi in cui il moderatore, leggendo sui suoi appunti che doveva presentarmi come “storico della scienza”, non poté trattenersi dall’esplodere nel microfono con un «ma lei che ci fa qui?». Vi fu poi il rimprovero di pretesi “banali errori”, che – scambiando la pazienza con dabbenaggine – è stato reiterato come un ritornello, e a cui sarà data risposta nelle sedi opportune: ogni ricreazione prima o poi finisce. L’unica critica seria sottolineava il rischio che la nostra interpretazione facesse discendere in modo deterministico dagli studi e dalle politiche eugenetiche l’adozione di politiche razziste (in particolare antiebraiche). È infatti noto che lo sviluppo di politiche eugenetiche (anche assai coercitive) si è avuto in paesi democratici che non si sono mai sognati di adottare politiche razziste. Di qui il richiamo a non pensare a una sorta di “piano inclinato” che avrebbe condotto dall’eugenetica alle politiche della razza (in particolare antiebraiche). In realtà, la nostra interpretazione era ben diversa ed escludeva esplicitamente e nettamente ogni teoria del “piano inclinato”. Essa sosteneva che l’eugenetica, per la sua motivazione essenzialmente razziale (il che si tende spesso a dimenticare) creava un clima favorevole allo sviluppo di ideologie razziste. Pertanto, ove si verificasse la concomitanza di altri fattori, come la presenza di tradizioni di intolleranza verso determinati gruppi e soprattutto scelte di carattere politico, si poteva creare una miscela nefasta suscettibile di deflagrare. L’eugenetica era soprattutto pericolosa perché forniva l’argomentazione teorica e “scientifica” per giustificare l’adesione a politiche razziali e quindi creava consenso soprattutto nei ceti intellettuali. Nel caso italiano, era evidente come l’eugenetica avesse giocato un ruolo del genere, e le politiche razziali avessero avuto una radice autoctona legata alla svolta imperiale del 1936, e le cui caratteristiche peculiari potevano essere comprese soltanto tenendo conto delle elaborazioni nazionali in tema di demografia, di antropologia e di eugenetica.
Questa tesi “mediana” – il razzismo fascista non è stato importato, ma ha avuto radici e sviluppi autoctoni, è stato qualcosa di più grave e strutturale di quanto si è ritenuto per lungo tempo, ma comunque qualcosa di assai diverso e più “blando” del razzismo germanico – non è piaciuta a chi credeva di scorgervi un tentativo di aggravare le colpe del fascismo. Da qualche tempo essa infastidisce invece una storiografia che vi scorge la colpa opposta e mira a liquidare definitivamente l’interpretazione defeliciana ed ogni altra interpretazione “equilibrata”. Allo scopo essa cerca di seppellire la tematica dei “razzismi del fascismo” mediante due tesi radicali: (a) il razzismo fascista era puramente biologistico e indistinguibile da quello nazista; (b) Mussolini e il fascismo erano costituzionalmente antisemiti, né più né meno come Hitler e il nazismo. Non ci occuperemo della seconda tesi – sostenuta nel libro di Giorgio Fabre “Mussolini razzista” – che è a dir poco fragile. Non basta accumulare notizie: parafrasando Henri Poincaré, la storia non è un cumulo di fatti come una casa non è un cumulo di pietre. Occorre interpretare. E che questo libro abbia difficoltà interpretative lo dice già il titolo e il sottotitolo: “Mussolini razzista” è una tesi fondata, ma da essa non discende affatto Mussolini “antisemita”. Se non sono chiare neppure queste distinzioni è difficile iniziare a discutere nel merito.
Per quanto riguarda la prima tesi, ci limiteremo a richiamare un recente articolo di Michele Sarfatti (L’Unità, 5 marzo) in cui si dice che «la legislazione antiebraica italiana […] era diretta contro tutte le persone che rientravano nella definizione di “razza ebraica”, ed essa definiva di “razza ebraica” ogni persona nata da due genitori di “razza ebraica”, anche quando era di religione cristiana. Il principio “biologico” fu applicato anche alle persone di religione ebraica nate da due genitori di “razza ariana”: esse furono sempre classificate di “razza ariana”. Insomma, qualsiasi scelta religiosa o culturale avesse compiuto, una persona non poteva cambiare ciò che gli era stato trasmesso automaticamente dai genitori. Questo è indubitabilmente “razzismo biologico” e non “razzismo spirituale”. Va aggiunto che alcuni commentatori dettero a questa impostazione “biologica” una mano di vernice “spirituale”; questa però concerneva l’immagine del razzismo fascista e non la sua essenza».
Qui la logica non soccorre. La “definizione” riferita da Sarfatti è ridicolmente tautologica, poiché definisce di razza ebraica chi è di razza ebraica… Né potrebbe essere altrimenti perché, come ci si rifiuta caparbiamente di capire, il concetto di razza non ha fondamento scientifico. Lo stesso Hitler non riuscì a ottenere dai suoi illustri genetisti una soddisfacente definizione biologica di razza. Tuttavia un razzismo che possa dirsi autenticamente biologico deve far ricorso esclusivamente a nozioni di carattere fisico, per quanto sgangherato possa essere il risultato. Ogni riferimento a nozioni di carattere mentale, spirituale, culturale ecc. non può aver posto in una concezione biologica del razzismo: esso darebbe luogo a un razzismo di tipo “spiritualistico”, in cui i fattori biologici si combinano con fattori di carattere mentale e culturale. (Dovrebbe essere superfluo dire che quel caratterizza un siffatto razzismo è l’associazione dei vari fattori anziché la riduzione al solo fattore biologico, e non certo l’esclusione del fattore biologico). Ora se ci si ferma alla pseudo-definizione citata da Sarfatti sembra che il razzismo fascista sia puramente biologico. Ma così non è, e per rendersene conto non ci si deve limitare a leggere quel che fa comodo. Dice la “Dichiarazione sulla razza” al punto c) che è “di razza ebraica colui che, pur essendo nato da un matrimonio misto, professa la religione ebraica”, ma al d) prescrive che “non è di razza ebraica colui che è nato da un matrimonio misto e professa altra religione all’infuori dell’ebraica”. E questo sarebbe razzismo biologico? Come può definirsi biologico un razzismo che “lava” dall’ebraismo chi, pur avendo metà di sangue ebraico, non professa la religione ebraica? Insomma, sia in c) che in d) la religione gioca un ruolo determinante. Per non parlare poi della “discriminazione”, ovvero di quel provvedimento che “ripuliva” quegli ebrei che si erano distinti in atti di grande valore per la patria. Non è quindi vero che, per il fascismo, le scelte religiose o culturali di una persona non potevano cambiare ciò che gli era stato trasmesso automaticamente dai genitori.
Del resto, a replicare anticipatamente a Sarfatti ci aveva pensato Nicola Pende nel 1940 quando aveva esaltato «l’alto intelletto scientifico del Duce» che «ritiene che è lo spirito delle varie stirpi eterogenee a noi che sopratutto occorre tener presente, e quindi è lo spirito ebraico che sopratutto può nuocere alla vita della nostra razza anche indipendentemente da incroci di sangue». È per questo – aggiungeva Pende – che «anche pochi semiti bastano a inquinare tutta la vita spirituale di una nazione». E così spiegava «la grande generosità delle leggi fasciste che risparmiano ogni ostracismo a quei rari casi di ebrei che hanno dato prove lampanti che il loro spirito erasi omogeneizzato in tutto e per tutto con lo spirito della patria italiana».
L’ultima trincea consisterà nel dire che queste erano le parole ininfluenti di un «commentatore», una «mano di vernice spirituale». Peccato che si sia dimostrato, carte alla mano, che fu la linea di Pende e dei verniciatori a prevalere su quella dei biologisti alla Guido Landra, il redattore del Manifesto degli scienziati razzisti. Al punto che Landra fu buttato fuori dal Minculpop e sostituito come capo dell’Ufficio Razza dallo “spiritualista” Visco, e rischiò di perdere persino lo stipendio. Peccato che il Consiglio Superiore della Demorazza avesse riscritto da capo a piedi il Manifesto in senso “spiritualistico”. Appiattendo tutto il razzismo fascista sulla versione puramente biologistica se ne perde la complessità. È come se si distruggesse un intero spaccato storico di grande interesse e si cancellasse un acceso dibattito realmente avvenuto tra i vari razzismi del fascismo.
Tutte queste cose sono state dette, inutilmente. Perché non contano fatti e documenti, non interessa discutere per approfondire la comprensione storica. Conta conseguire un obbiettivo politico-ideologico: (1) cancellare ogni zona “grigia” dal fascismo e, a tal fine, sparare su di esso l’accusa suprema di razzismo nazista e di antisemitismo strutturale; (2) salvare la “scienza” eugenetica, separandola dai discorsi razziali di cui sarebbero responsabili soltanto i “reazionari”.
Giorni fa ho assistito alla presentazione di un film che circolerà presto nelle scuole romane e che illustra – correttamente – la vicenda della scienza italiana nel periodo razziale. Finisce con il consueto ammonimento a ricordare affinché la storia non si ripeta. Esso è pronunziato sull’immagine di uomini dietro le sbarre di un Centro di Permanenza Temporaneo per immigrati clandestini. Alle mie proteste che era folle associare Auschwitz a un CPT si è risposto che assolutizzavo la Shoah. Ho risposto che, al contrario, ero pronto a comparazioni ragionevoli, ad esempio con il Gulag, ma non a quelle assurde. Mi è stato fatto osservare che il Gulag era a un livello di gravità minore della Shoah.
Ecco allora la graduatoria. Nel girone più basso dell’Inferno stanno il nazismo, il fascismo e il CPT di Lampedusa. In Purgatorio sta il Gulag. In Paradiso splende la nuova eugenetica, scienza laica della redenzione dell’umanità.
Giorgio Israel
Dopo aver ricordato la celebre frase di John Stuart Mill secondo cui «ciascuno è l’unico e autentico guardiano della propria salute sia fisica sia mentale e spirituale», Giulio Giorello ha osservato: «il che equivale a dire che gli interessi di ciascuno vanno definiti nei termini delle sue preferenze personali e non nei termini di ciò che qualcun altro pensa che sia un “bene per lui”» (Corriere Magazine, 2 marzo 2006). Non si potrebbe dir meglio. Per questo l’eugenetica è una dottrina illiberale: essa sostituisce la libertà dell’individuo di curare la propria salute come meglio crede (magari trascurandola) con l’obbligo di seguire prescrizioni generali che impongono di adeguarsi a una nozione di salute valida per tutti.
In tempi recenti questa frase è stata usata, nel dibattito sulla bioetica, per affermare che è meglio che la collettività non si impicci di stabilire regole, lasciando ai singoli la libertà di scegliere come meglio credono. Ma questo argomento è insostenibile. Giorello traduce bene il senso della frase di Mill parlando di “preferenze”. D’altra parte, i principi della convivenza associata non possono fondarsi soltanto sulla soddisfazione delle preferenze individuali: nessun procedimento di ottimizzazione di tali preferenze può produrre principi come “non uccidere”. Non è conveniente ignorare il sistematico fallimento degli innumerevoli tentativi di dedurre matematicamente l’etica e la morale dalla teoria utilitaristica. È quindi all’interno dei principi morali e della “visione del mondo” dominanti in una società che ha senso la cura massima delle preferenze personali e la raccomandazione di Stuart Mill.
L’eugenetica non è frutto né di principi etici o morali né delle preferenze personali dell’individuo. Trattasi di una dottrina ispirata a una prescrizione tipicamente collettiva: promuovere il “miglioramento” della specie umana o di una particolare razza o etnia, la sua rigenerazione o addirittura la sua riprogettazione. Confondere un simile progetto con il perseguimento individuale di ciò che si ritiene meglio per sé è una mistificazione. L’eugenetica è un prodotto di un’idea nefasta del pensiero occidentale e che è alla radice delle sue tragedie totalitarie e razziste: l’idea della ricostruzione dalle fondamenta dell’individuo e della società, un ideale di “palingenesi” che rifiuta l’umanità per quel che è nella sua concretezza storica e pretende di rifare il (mal)creato dalle fondamenta. È un ideale che nasce dal divorzio tra etica, morale e scienza e attribuisce a quest’ultima la missione impossibile di ricostruire uomo e società su basi “razionali”: la scienza assume in toto la funzione sociale, mentre le prime due vengono relegate nella sfera delle opzioni individuali. Ma la scienza non ha le spalle così forti da sopportare un simile compito e lo si è visto dagli effetti tragicomici – comici per la loro miseria intellettuale, tragici per la loro concretezza – di una simile pretesa, fino ai più recenti presuntuosi manifesti pseudoscientifici di “riprogettazione” dell’uomo.
Non ci si può stancare di ripetere che quanto detto non ha nulla a che fare con una critica della scienza, ma piuttosto con una critica dell’ideologia che pretende di attribuire alla scienza un simile progetto paranoico, quell’ideologia detta “scientismo”. Chi vuole impedire di ragionare su tale questione e lancia su chi osa farlo l’anatema di “nemico” della scienza e di oscurantista, se non è una persona intellettualmente debole, è un irrazionalista nel pieno senso del termine. Al contrario, è di straordinario interesse indagare i percorsi storici dell’ideale palingenetico di cui si diceva, le sue interazioni con l’ideologia scientista e la manifestazione che esso ha avuto con l’eugenetica. Una simile indagine non mira a screditare la scienza: al contrario, essa ne difende l’onore. Non è invece un buon servizio reso alla scienza presentare certe manifestazioni di delirio scientista come “scienza” e far credere che esistano forme di eugenetica moderna che mirerebbero alla salute individuale e al massimo benessere possibile senza alcuna pretesa di assoggettare il singolo a un progetto di ristrutturazione della specie: se così fosse l’eugenetica sarebbe soltanto medicina e, come tale, non avrebbe ragione di esistere. Ma così non è, e lo sa bene chiunque conosca la fenomenologia delle coercizioni e pressioni psicologiche pesanti che vengono esercitate su chi non si assoggetta alle prescrizioni diagnostiche in tema di procreazione, e la campagna tesa a suscitare sensi di colpa in chi si renderebbe responsabile di mettere al mondo individui “difettosi”. È l’ideologia così bene descritta da Gregory Stock, che propone “operazioni di marketing mirate” in modo che la riproduzione tradizionale venga considerata socialmente come “antiquata” e “irresponsabile”.
È quindi importante studiare la storia dell’eugenetica. Sotto questo profilo, l’affermazione contenuta nel recente libro di Francesco Cassata “Molti, sani e forti” (Bollati Boringhieri) – «L’eugenetica è oggi in Italia uno degli esempi più ricorrenti di quell’uso pubblico della storia che avvelena il dibattito pubblico e culturale del paese» – se fatta allo specchio, sarebbe una manifestazione di autoironia da Guinness dei primati. Purtroppo, l’autore – che, manco a dirlo, ce l’ha con i critici delle biotecnologie della procreazione assistita, accusati di strumentalismo e ignoranza – non possiede questa dote, visto che dichiara seriamente di aver svolto le sue ricerche nella speranza «indubbiamente illusoria» che «le scelte della politica possano maturare in un contesto di maggiore consapevolezza della prospettiva storica». Il fatto è che il contenuto del libro esibisce una totale discrasia tra il racconto storico – che sviluppa ricerche precedenti in modo corretto anche se viziato dall’ingenua propensione ad accumulare in quantità materiali e pagine – e l’intento sopra enunciato. Chi voglia ricavare indicazioni per maturare una scelta politica dovrebbe fare un triplo salto mortale perché dalla montagna di Cassata non esce neppure un topolino. Eppure l’intento ideologico c’è: è ribadito nella quarta di copertina – «il sogno laico del miglioramento della specie umana fra crisi e continuità» – ed è stato riassunto da Simonetta Fiori su La Repubblica (24 febbraio) con lo slogan «l’eugenetica non è una scienza reazionaria come in tanti pensano».
La tesi che dovrebbe discendere dal discorso storico – al prezzo di sforzi meritevoli di un’ernia – può essere così riassunta: l’eugenetica è una scienza, è stata ed è una cosa seria, anzi nasce dal nobile e ineccepibile sogno “laico” di migliorare la specie umana, e tutto è andato per il verso giusto quando è stata promossa da menti “laiche” e autenticamente scientifiche; il guaio è nato quando è caduta in mano ai reazionari delle varie risme, fascisti, nazisti e religiosi bigotti, come il cattolico Luigi Gedda. Il guaio è che il pilastro di questo discorso è di cartapesta: l’eugenetica non è una scienza, se vogliamo ancora attribuire qualche senso all’oggettività scientifica e non vogliamo allinearci alla tesi del carattere totalmente ideologico di ogni costruzione scientifica. Capiamo bene quanto sia difficile per chi si sente “profano” (nel senso latino “pro fanum”, che sta fuori del tempio) prendersela con i numi sacri della scienza e osare di pensare che menti eccelse abbiano potuto costruire castelli di fandonie ispirati soltanto da intenti ideologici. È più facile prendersela con un Gedda, mentre davanti a Karl Pearson, fondatore della statistica moderna, ballano i pantaloni. Eppure Pearson (il progressista Pearson che cambiò il suo nome da Carl a Karl in omaggio a Marx) non s’imbrattò poco quando esaltò la politica razziale di Hitler. Ma qui non è possibile tracciare una fenomenologia del razzismo degli scienziati eugenetisti, di destra e di sinistra, progressisti e reazionari, uniti nella lotta. Il fatto è che quella deriva era naturale perché la premessa era fradicia alla base. Il concetto di razza, o di stirpe o altri analoghi, non è un concetto scientifico, o comunque suscettibile di una qualsiasi definizione che non sia vuota, contraddittoria o tautologica. Sappiamo bene che tanti concetti scientifici sono imperfettamente definiti. La meccanica newtoniana è stata bandita per un secolo dall’insegnamento perché accusata di reintrodurre con il concetto di forza le “cause occulte”. Tuttavia, malgrado la sua vaghezza e il suo antropomorfismo, la nozione di forza può essere ben definita, quanto meno in termini dimensionali, il che ne fa un concetto perfettamente maneggevole e persino misurabile. E via con gli esempi. Ma chi può onestamente sostenere che si possa dare una qualsiasi definizione ragionevole e dotata di un minimo di base oggettiva del concetto di razza? E che essa sia una definizione, e non un conglomerato di pregiudizi e la proiezione di un intento, quello di dimostrare la superiorità del proprio “gruppo” umano di appartenenza e la necessità di mantenere e promuovere tale superiorità? Il fatto che menti di prim’ordine e in buona fede abbiano partecipato alla costruzione di questa pseudoscienza nella convinzione di far scienza non dimostra che essa avesse la stessa dignità della meccanica newtoniana. Lo storico della chimica Giulio Provenzal, persona onesta, seria e preparata, anche dopo essere stato estromesso in quanto ebreo dall’Università italiana, continuò a patrocinare la causa della superiorità scientifica della razza italica... Forse la sua autorevolezza dimostra che quella causa aveva un fondamento scientifico?
Ben venga quindi una storia seria dell’eugenetica, che metta al loro posto tutti i tasselli, che non confonda i risultati oggettivi con l’ideologia, la scienza con i progetti politici, e che analizzi con cura e senza pregiudizi le interazioni tra questi vari aspetti. Ma senza pregiudizi, senza gabellare per vera l’immagine di una costruzione nobile e progressiva, deturpata da fascisti e preti, e che, se lasciata libera dall’intrusione degli “oscurantisti”, riserverebbe all’umanità il paradiso di una rigenerazione globale. Che brutti scherzi gioca la strumentalità politica! Essa spinge lo scientista sulle spiagge del suo nemico più odiato, il sociologo della scienza postmoderno, quello che predica che nulla ha carattere oggettivo, che la teoria del calore vale quanto la teoria del flogisto, la chimica di Lavoisier quanto l’alchimia, e la genetica quanto l’eugenetica... (Peraltro non saremo noi a mettere sullo stesso piano l’innocua alchimia e il paranoico sogno di ricostruire l’umanità).
Tanto è vero che il discorso sull’eugenetica ha poco a che fare con un discorso sulla “scienza”, che è certamente possibile fare una storia della meccanica e dell’astronomia senza riferimenti alla realtà politica sottostante, ma è semplicemente impossibile fare un discorso sull’eugenetica senza parlare di politica. È persino possibile pensare a una storia della teoria economica scritta in forma “asettica”, mentre una storia dell’eugenetica che non faccia riferimento alle ideologie razziali è impensabile. Per questo il discorso scivola inevitabilmente sul terreno della storiografia politica e libri come quello di Cassata tengono un piede nella tematica delle politiche razziali nella storia italiana. Non è quindi fuori tema dedicare alcune considerazioni ai recenti sviluppi della storiografia italiana sul tema delle politiche razziali del fascismo. Non prima però di aver fatto un’osservazione. Cosa spinge un giovane studioso, che ha davanti a sé l’opportunità di dedicare molti anni a ricerche approfondite, tali da condurre a conclusioni equilibrate e meditate, a gettare invece i propri primi studi prematuramente in pasto a una rissa politica, e per giunta con tono arrogante e credendo di avere i titoli per assegnare i voti a chiunque abbia scritto prima di lui? Quel che spinge a ciò è proprio l’uso pubblico e “avvelenato” della storia, denunciato dallo stesso Cassata e di cui egli è vittima. È lo strumentalismo politico di una certa accademia che spinge i giovani studiosi alla ricerca militante. E poi ci si chiede da dove venga la decadenza delle università e della cultura italiane.
Veniamo ora alla storiografia sulle politiche razziali del fascismo, che, per lungo tempo, ha avuto come riferimento quasi esclusivo il fondamentale testo di Renzo De Felice “Gli ebrei italiani sotto il fascismo”. In questo approccio aveva poco spazio il mondo della cultura e nessuno spazio il mondo della scienza, né sotto il profilo delle teorie “scientifiche” della razza, né sotto quello del ruolo attivo e passivo della comunità scientifica. Ciò era, in parte, conseguenza della tesi di De Felice (parzialmente corretta nella biografia di Mussolini) secondo cui l’adesione del fascismo alle politiche antiebraiche era conseguenza del patto d’acciaio e quindi era una concessione politica nei confronti del Führer. Il primo tentativo di introdurre la tematica scientifica fu fatto da me in un convegno promosso nel 1988 dall’allora presidente della Camera dei deputati Nilde Iotti. I temi toccati erano quelli degli effetti delle leggi razziali sulla comunità scientifica e quello dell’esistenza di una teorizzazione razziale specifica del fascismo e ben diversa da quella nazista per la presenza di correnti di tipo “spiritualistico” che si rifacevano a un’idea di razza in certo senso più vicina a quella odierna di etnia. In un articolo del 1994, Mauro Raspanti descrisse in modo più articolato e preciso il panorama dei “razzismi del fascismo”, che sviluppai ulteriormente con Pietro Nastasi (nel libro “Scienza e razza nell’Italia fascista”), assieme a una ricostruzione dettagliata delle vicende del cosiddetto “Manifesto degli scienziati razzisti”, che evidenziavano lo scontro tra le correnti “spiritualistiche (di Nicola Pende ed altri) e quelle “biologistiche”, con il netto prevalere delle prime, almeno fino al 1941. Veniva chiaramente alla luce che il fascismo aveva avuto una “sua” politica demografico-eugenetico-razziale che si era articolata in correnti diverse e talora contrapposte, alcune vicine a quelle germaniche, altre di impronta originale e che avevano avuto un peso maggiore nel determinare le politiche del regime. Proprio per il carattere non puramente biologistico del razzismo fascista, esso presentava problemi di analisi storiografica molto più complessi del caso nazista; ferma restando la tesi di De Felice, e cioé che l’antisemitismo non è mai stato un elemento “costitutivo” dell’ideologia fascista, come lo è stato invece di quella nazista.
In una prima fase, a queste tesi è stata riservata una variegata accoglienza. In primo luogo, un certo fastidio per l’invasione di campo da parte di “storici della scienza” estranei all’ambiente dei “titolari”, gli storici politici. È curioso rilevare la persistenza di queste forme di crocianesimo fuori tempo massimo: in ambiente anglosassone l’interazione con gli storici della scienza è considerata naturale, ma da noi è ancora un fatto perturbante. Ricordo con divertimento un dibattito su questi temi in cui il moderatore, leggendo sui suoi appunti che doveva presentarmi come “storico della scienza”, non poté trattenersi dall’esplodere nel microfono con un «ma lei che ci fa qui?». Vi fu poi il rimprovero di pretesi “banali errori”, che – scambiando la pazienza con dabbenaggine – è stato reiterato come un ritornello, e a cui sarà data risposta nelle sedi opportune: ogni ricreazione prima o poi finisce. L’unica critica seria sottolineava il rischio che la nostra interpretazione facesse discendere in modo deterministico dagli studi e dalle politiche eugenetiche l’adozione di politiche razziste (in particolare antiebraiche). È infatti noto che lo sviluppo di politiche eugenetiche (anche assai coercitive) si è avuto in paesi democratici che non si sono mai sognati di adottare politiche razziste. Di qui il richiamo a non pensare a una sorta di “piano inclinato” che avrebbe condotto dall’eugenetica alle politiche della razza (in particolare antiebraiche). In realtà, la nostra interpretazione era ben diversa ed escludeva esplicitamente e nettamente ogni teoria del “piano inclinato”. Essa sosteneva che l’eugenetica, per la sua motivazione essenzialmente razziale (il che si tende spesso a dimenticare) creava un clima favorevole allo sviluppo di ideologie razziste. Pertanto, ove si verificasse la concomitanza di altri fattori, come la presenza di tradizioni di intolleranza verso determinati gruppi e soprattutto scelte di carattere politico, si poteva creare una miscela nefasta suscettibile di deflagrare. L’eugenetica era soprattutto pericolosa perché forniva l’argomentazione teorica e “scientifica” per giustificare l’adesione a politiche razziali e quindi creava consenso soprattutto nei ceti intellettuali. Nel caso italiano, era evidente come l’eugenetica avesse giocato un ruolo del genere, e le politiche razziali avessero avuto una radice autoctona legata alla svolta imperiale del 1936, e le cui caratteristiche peculiari potevano essere comprese soltanto tenendo conto delle elaborazioni nazionali in tema di demografia, di antropologia e di eugenetica.
Questa tesi “mediana” – il razzismo fascista non è stato importato, ma ha avuto radici e sviluppi autoctoni, è stato qualcosa di più grave e strutturale di quanto si è ritenuto per lungo tempo, ma comunque qualcosa di assai diverso e più “blando” del razzismo germanico – non è piaciuta a chi credeva di scorgervi un tentativo di aggravare le colpe del fascismo. Da qualche tempo essa infastidisce invece una storiografia che vi scorge la colpa opposta e mira a liquidare definitivamente l’interpretazione defeliciana ed ogni altra interpretazione “equilibrata”. Allo scopo essa cerca di seppellire la tematica dei “razzismi del fascismo” mediante due tesi radicali: (a) il razzismo fascista era puramente biologistico e indistinguibile da quello nazista; (b) Mussolini e il fascismo erano costituzionalmente antisemiti, né più né meno come Hitler e il nazismo. Non ci occuperemo della seconda tesi – sostenuta nel libro di Giorgio Fabre “Mussolini razzista” – che è a dir poco fragile. Non basta accumulare notizie: parafrasando Henri Poincaré, la storia non è un cumulo di fatti come una casa non è un cumulo di pietre. Occorre interpretare. E che questo libro abbia difficoltà interpretative lo dice già il titolo e il sottotitolo: “Mussolini razzista” è una tesi fondata, ma da essa non discende affatto Mussolini “antisemita”. Se non sono chiare neppure queste distinzioni è difficile iniziare a discutere nel merito.
Per quanto riguarda la prima tesi, ci limiteremo a richiamare un recente articolo di Michele Sarfatti (L’Unità, 5 marzo) in cui si dice che «la legislazione antiebraica italiana […] era diretta contro tutte le persone che rientravano nella definizione di “razza ebraica”, ed essa definiva di “razza ebraica” ogni persona nata da due genitori di “razza ebraica”, anche quando era di religione cristiana. Il principio “biologico” fu applicato anche alle persone di religione ebraica nate da due genitori di “razza ariana”: esse furono sempre classificate di “razza ariana”. Insomma, qualsiasi scelta religiosa o culturale avesse compiuto, una persona non poteva cambiare ciò che gli era stato trasmesso automaticamente dai genitori. Questo è indubitabilmente “razzismo biologico” e non “razzismo spirituale”. Va aggiunto che alcuni commentatori dettero a questa impostazione “biologica” una mano di vernice “spirituale”; questa però concerneva l’immagine del razzismo fascista e non la sua essenza».
Qui la logica non soccorre. La “definizione” riferita da Sarfatti è ridicolmente tautologica, poiché definisce di razza ebraica chi è di razza ebraica… Né potrebbe essere altrimenti perché, come ci si rifiuta caparbiamente di capire, il concetto di razza non ha fondamento scientifico. Lo stesso Hitler non riuscì a ottenere dai suoi illustri genetisti una soddisfacente definizione biologica di razza. Tuttavia un razzismo che possa dirsi autenticamente biologico deve far ricorso esclusivamente a nozioni di carattere fisico, per quanto sgangherato possa essere il risultato. Ogni riferimento a nozioni di carattere mentale, spirituale, culturale ecc. non può aver posto in una concezione biologica del razzismo: esso darebbe luogo a un razzismo di tipo “spiritualistico”, in cui i fattori biologici si combinano con fattori di carattere mentale e culturale. (Dovrebbe essere superfluo dire che quel caratterizza un siffatto razzismo è l’associazione dei vari fattori anziché la riduzione al solo fattore biologico, e non certo l’esclusione del fattore biologico). Ora se ci si ferma alla pseudo-definizione citata da Sarfatti sembra che il razzismo fascista sia puramente biologico. Ma così non è, e per rendersene conto non ci si deve limitare a leggere quel che fa comodo. Dice la “Dichiarazione sulla razza” al punto c) che è “di razza ebraica colui che, pur essendo nato da un matrimonio misto, professa la religione ebraica”, ma al d) prescrive che “non è di razza ebraica colui che è nato da un matrimonio misto e professa altra religione all’infuori dell’ebraica”. E questo sarebbe razzismo biologico? Come può definirsi biologico un razzismo che “lava” dall’ebraismo chi, pur avendo metà di sangue ebraico, non professa la religione ebraica? Insomma, sia in c) che in d) la religione gioca un ruolo determinante. Per non parlare poi della “discriminazione”, ovvero di quel provvedimento che “ripuliva” quegli ebrei che si erano distinti in atti di grande valore per la patria. Non è quindi vero che, per il fascismo, le scelte religiose o culturali di una persona non potevano cambiare ciò che gli era stato trasmesso automaticamente dai genitori.
Del resto, a replicare anticipatamente a Sarfatti ci aveva pensato Nicola Pende nel 1940 quando aveva esaltato «l’alto intelletto scientifico del Duce» che «ritiene che è lo spirito delle varie stirpi eterogenee a noi che sopratutto occorre tener presente, e quindi è lo spirito ebraico che sopratutto può nuocere alla vita della nostra razza anche indipendentemente da incroci di sangue». È per questo – aggiungeva Pende – che «anche pochi semiti bastano a inquinare tutta la vita spirituale di una nazione». E così spiegava «la grande generosità delle leggi fasciste che risparmiano ogni ostracismo a quei rari casi di ebrei che hanno dato prove lampanti che il loro spirito erasi omogeneizzato in tutto e per tutto con lo spirito della patria italiana».
L’ultima trincea consisterà nel dire che queste erano le parole ininfluenti di un «commentatore», una «mano di vernice spirituale». Peccato che si sia dimostrato, carte alla mano, che fu la linea di Pende e dei verniciatori a prevalere su quella dei biologisti alla Guido Landra, il redattore del Manifesto degli scienziati razzisti. Al punto che Landra fu buttato fuori dal Minculpop e sostituito come capo dell’Ufficio Razza dallo “spiritualista” Visco, e rischiò di perdere persino lo stipendio. Peccato che il Consiglio Superiore della Demorazza avesse riscritto da capo a piedi il Manifesto in senso “spiritualistico”. Appiattendo tutto il razzismo fascista sulla versione puramente biologistica se ne perde la complessità. È come se si distruggesse un intero spaccato storico di grande interesse e si cancellasse un acceso dibattito realmente avvenuto tra i vari razzismi del fascismo.
Tutte queste cose sono state dette, inutilmente. Perché non contano fatti e documenti, non interessa discutere per approfondire la comprensione storica. Conta conseguire un obbiettivo politico-ideologico: (1) cancellare ogni zona “grigia” dal fascismo e, a tal fine, sparare su di esso l’accusa suprema di razzismo nazista e di antisemitismo strutturale; (2) salvare la “scienza” eugenetica, separandola dai discorsi razziali di cui sarebbero responsabili soltanto i “reazionari”.
Giorni fa ho assistito alla presentazione di un film che circolerà presto nelle scuole romane e che illustra – correttamente – la vicenda della scienza italiana nel periodo razziale. Finisce con il consueto ammonimento a ricordare affinché la storia non si ripeta. Esso è pronunziato sull’immagine di uomini dietro le sbarre di un Centro di Permanenza Temporaneo per immigrati clandestini. Alle mie proteste che era folle associare Auschwitz a un CPT si è risposto che assolutizzavo la Shoah. Ho risposto che, al contrario, ero pronto a comparazioni ragionevoli, ad esempio con il Gulag, ma non a quelle assurde. Mi è stato fatto osservare che il Gulag era a un livello di gravità minore della Shoah.
Ecco allora la graduatoria. Nel girone più basso dell’Inferno stanno il nazismo, il fascismo e il CPT di Lampedusa. In Purgatorio sta il Gulag. In Paradiso splende la nuova eugenetica, scienza laica della redenzione dell’umanità.
Giorgio Israel
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