«Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante Alighieri)
martedì 24 aprile 2007
Un romanzo
È in libreria un romanzo di mio padre Saul scritto cinquanta anni fa.
Saul Israel (1897-1981) nacque a Salonicco. Si trasferì nel 1916 in Italia per studiare medicina e vi si stabilì definitivamente, prendendo la cittadinanza italiana, dopo l’incendio che distrusse il quartiere ebraico di Salonicco e provocò la dispersione della sua famiglia. Fu aiuto presso l’Istituto di Fisiologia Generale dell’Università di Roma e svolse la sua attività scientifica anche a Parigi. Nel 1933 si dimise dall’università per l’impossibilità di convivere con il nuovo direttore dell’Istituto, Sabato Visco, futuro Capo dell’Ufficio Razza del Ministero della Cultura Popolare. Per il resto della vita, dopo il periodo delle persecuzioni razziali, esercitò la professione di medico. Oltre agli studi scientifici coltivò assiduamente gli studi storico-religiosi. Fu fondatore e animatore del Centro di Studi Ebraici e coltivò rapporti con personalità come Robert Aron e Dante Lattes. Ebbe anche intensi rapporti con personalità del mondo cattolico, come Giulio Salvadori, Ernesto Buonaiuti, Arturo Carlo Jemolo. Dei suoi numerosi inediti sono stati finora pubblicati La leggenda del figlio del Re Horkam, Adelphi (1984, 19982) e La favola di Fragoletta e Limoncina (Editori Riuniti 1987).
Salonicco fu teatro di un evento storico unico. Qui si raccolse una comunità di ebrei fuggiti dalla Spagna dopo l’espulsione decretata nel 1492. Per più di quattrocento anni questa comunità preservò le tradizioni originarie, continuò a parlare nell’antico castigliano, conservando persino le chiavi delle case di Spagna e vivendo una religiosità intensa e impregnata di misticismo. Agli inizi del Novecento, Salonicco era una città a grande maggioranza ebraica, una “Gerusalemme balcanica” nell’Impero Ottomano. Ma il disfacimento dell’Impero mostrava i segni della fine di un’esperienza quasi irreale. La famiglia Yacoél – di cui questo romanzo racconta le vicende, a sfondo autobiografico – vive sempre più dilaniata dalla consapevolezza che la realtà ovattata e la magica esperienza spirituale in cui ha finora vissuto sta franando sotto i suoi piedi e che anche l’ebraismo di Salonicco sta per essere proiettato nel vortice dei drammi europei. Al crollo di questa realtà segue la dispersione della famiglia in vari paesi europei, soprattutto in Italia e in Francia, dove i suoi membri si confrontano con il senso della propria identità ebraica e con un antisemitismo circostante che cresce come un’onda minacciosa fino a esplodere nell’apocalisse finale della Shoah. Assieme al racconto di un’esperienza eccezionale e irripetibile, di un’esistenza sradicata, “con le radici in cielo”, il romanzo propone riflessioni sull’odio razziale e l’intolleranza e sulla natura dell’antisemitismo europeo che appaiono oggi di grande attualità
lunedì 23 aprile 2007
Italian Jews and the Left
articolo pubblicato in rete
su COVENANT, Global Jewish Magazine
http://www.covenant.idc.ac.il/en/vol1/issue2/israel.html
su COVENANT, Global Jewish Magazine
http://www.covenant.idc.ac.il/en/vol1/issue2/israel.html
domenica 22 aprile 2007
I sauditi chiedono il suicidio di Israele e subito piace la loro “proposta di pace”
(Tempi, 19 aprile 2007)
I francesi lo chiamano “langue de bois”, lingua di legno. È il linguaggio politico dell’ipocrisia, delle formule vacue miranti a difendere una versione ufficiale, anche se non ha alcun rapporto con la realtà. La “langue de bois” domina in certi commenti sulla “proposta di pace” dell’Arabia Saudita che la vantano come una nuova e grande opportunità. Al contrario, si tratta della “soluzione” più vecchia e irrealistica: il ritorno di Israele entro i confini precedenti la guerra del 1967, con la divisione di Gerusalemme in due e l’accettazione del diritto al ritorno dei profughi palestinesi e discendenti, generosamente stimati in 5 o 6 milioni. È una soluzione superata dalla risoluzione 242 dell’Onu – che prevede il ritiro di Israele “da” (e non “dai”) territori occupati – , dalle bozze di accordo di Camp David, ed anche dall’“intesa” di Ginevra raggiunta informalmente da esponenti “progressisti” delle due parti. Oltretutto in quelle bozze di intesa si offriva a Israele una vera pace, mentre qui si prospetta soltanto la possibilità di “relazioni normali” e non si parla di una soluzione definitiva. In sostanza, è una linea coerente con quella del governo palestinese di Hamas, che alle condizioni saudite accetta di stabilire una “hudna” (tregua) anche ventennale, per poi giungere alla fase finale della vertenza. In che senso “finale” è facile immaginare, dopo che Israele avesse accettato di accogliere sulla propria terra qualche milione di palestinesi, mettendosi in condizioni analoghe a quelle in cui si troverebbe la Polonia se accettasse di accogliere i tedeschi espulsi dai suoi territori, inclusi i discendenti: una ventina di milioni.
Chi loda la proposta saudita si esibisce in una gigantesca manifestazione di ipocrisia, il cui unico fine è di accusare Israele di non volere la pace perché non accetta di suicidarsi. Anche se al posto del debolissimo governo Olmert ve ne fosse uno capace di imporre al paese i più duri sacrifici, non potrebbe comunque accettare una proposta come quella, per tante ragioni di cui si parla spesso: Israele si metterebbe in una condizione di grave debolezza strategica, accanto a un’entità palestinese che non ne vuol sapere di offrire garanzie; il carattere drammatico di un ritiro da Gerusalemme con la rinuncia al principale luogo santo dell’ebraismo; l’impossibilità fisica di accogliere tanti palestinesi senza distruggere seduta stante il paese. Ma vi sono ragioni ancor più elementari. Israele non è riuscita ancora a riassorbire i 7000 concittadini rientrati da Gaza, che continuano in gran parte a vivere penosamente in prefabbricati. Israele è un paese con tanti poveri. Coloro che la dipingono come una ricca Sparta dovrebbero fare un viaggio per rendersi conto della realtà. Se Israele facesse rientrare di colpo 200.000 persone dal West Bank si trasformerebbe in una tendopoli. Per di più, una tendopoli sotto i missili che continuano a piovere da Gaza e che potrebbero di nuovo piovere dal Libano.
In realtà ai sauditi della pace in Palestina non importa nulla. Essi, con l’accordo della Mecca e con questo piano tentano di stabilire un terreno di intesa con l’Iran, Hamas e Hezbollah, e di rilanciare la loro influenza sul mondo arabo e islamico. La conferenza di Riyad ha offerto il solito panorama di disunione del mondo arabo e un tentativo di incollare i cocci con un accordo unanime sulla pelle di Israele. Quale governo israeliano potrà mai accollarsi di pagare da solo il prezzo di un rifiuto e di una crisi: il rifiuto della democrazia da parte del mondo arabo e islamico e la drammatica fase di debolezza dell’Occidente?
Giorgio Israel
I francesi lo chiamano “langue de bois”, lingua di legno. È il linguaggio politico dell’ipocrisia, delle formule vacue miranti a difendere una versione ufficiale, anche se non ha alcun rapporto con la realtà. La “langue de bois” domina in certi commenti sulla “proposta di pace” dell’Arabia Saudita che la vantano come una nuova e grande opportunità. Al contrario, si tratta della “soluzione” più vecchia e irrealistica: il ritorno di Israele entro i confini precedenti la guerra del 1967, con la divisione di Gerusalemme in due e l’accettazione del diritto al ritorno dei profughi palestinesi e discendenti, generosamente stimati in 5 o 6 milioni. È una soluzione superata dalla risoluzione 242 dell’Onu – che prevede il ritiro di Israele “da” (e non “dai”) territori occupati – , dalle bozze di accordo di Camp David, ed anche dall’“intesa” di Ginevra raggiunta informalmente da esponenti “progressisti” delle due parti. Oltretutto in quelle bozze di intesa si offriva a Israele una vera pace, mentre qui si prospetta soltanto la possibilità di “relazioni normali” e non si parla di una soluzione definitiva. In sostanza, è una linea coerente con quella del governo palestinese di Hamas, che alle condizioni saudite accetta di stabilire una “hudna” (tregua) anche ventennale, per poi giungere alla fase finale della vertenza. In che senso “finale” è facile immaginare, dopo che Israele avesse accettato di accogliere sulla propria terra qualche milione di palestinesi, mettendosi in condizioni analoghe a quelle in cui si troverebbe la Polonia se accettasse di accogliere i tedeschi espulsi dai suoi territori, inclusi i discendenti: una ventina di milioni.
Chi loda la proposta saudita si esibisce in una gigantesca manifestazione di ipocrisia, il cui unico fine è di accusare Israele di non volere la pace perché non accetta di suicidarsi. Anche se al posto del debolissimo governo Olmert ve ne fosse uno capace di imporre al paese i più duri sacrifici, non potrebbe comunque accettare una proposta come quella, per tante ragioni di cui si parla spesso: Israele si metterebbe in una condizione di grave debolezza strategica, accanto a un’entità palestinese che non ne vuol sapere di offrire garanzie; il carattere drammatico di un ritiro da Gerusalemme con la rinuncia al principale luogo santo dell’ebraismo; l’impossibilità fisica di accogliere tanti palestinesi senza distruggere seduta stante il paese. Ma vi sono ragioni ancor più elementari. Israele non è riuscita ancora a riassorbire i 7000 concittadini rientrati da Gaza, che continuano in gran parte a vivere penosamente in prefabbricati. Israele è un paese con tanti poveri. Coloro che la dipingono come una ricca Sparta dovrebbero fare un viaggio per rendersi conto della realtà. Se Israele facesse rientrare di colpo 200.000 persone dal West Bank si trasformerebbe in una tendopoli. Per di più, una tendopoli sotto i missili che continuano a piovere da Gaza e che potrebbero di nuovo piovere dal Libano.
In realtà ai sauditi della pace in Palestina non importa nulla. Essi, con l’accordo della Mecca e con questo piano tentano di stabilire un terreno di intesa con l’Iran, Hamas e Hezbollah, e di rilanciare la loro influenza sul mondo arabo e islamico. La conferenza di Riyad ha offerto il solito panorama di disunione del mondo arabo e un tentativo di incollare i cocci con un accordo unanime sulla pelle di Israele. Quale governo israeliano potrà mai accollarsi di pagare da solo il prezzo di un rifiuto e di una crisi: il rifiuto della democrazia da parte del mondo arabo e islamico e la drammatica fase di debolezza dell’Occidente?
Giorgio Israel
sabato 7 aprile 2007
Chi di radicalismo ferisce di pacifismo perisce. Il compagno Fausto ora lo sa
(Tempi, 5 aprile 2007)
Dunque, anche a Bertinotti è toccata una contestazione da dove meno se l’aspettava: da sinistra. All’Università di Roma “La Sapienza” una cinquantina di studenti radicali lo ha accolto a suon di “buffone”, “assassino”, “guerrafondaio”. Il Presidente della Camera ha osservato: «Ho capito di cosa si tratta. Non è il movimento per la pace». Non sarei così sbrigativo: con ogni probabilità si tratta di suoi figliocci e l’accaduto testimonia una difficoltà di rapporti molto seria con una vasta galassia che ha sempre considerato Rifondazione come referente politico.
Di che stupirsi, peraltro, quando si è predicato per anni il pacifismo “senza se e senza ma” e poi si è costretti a fare i conti, sia pure in modo blandissimo, con la realtà e con il realismo? Basta una minima concessione alla realtà, anche infinitesima purché non nulla, per entrare in rotta di collisione con la linea della pace a tutti i costi. Dice Bertinotti che si tratta di «un’area estrema della sinistra che contesta la non violenza». Stupisce che una persona intelligente e lucida nel ragionare – a differenza di certi Talleyrand da strapazzo – sia caduto in pieno in questa contraddizione. Quando ci si muove all’interno di linee basate sull’estremismo del “senza se e senza ma” si finisce inevitabilmente nella violenza. I pacifisti ad ogni costo sono per forza di cose dei violenti perché le posizioni assolute implicano l’intolleranza: non a caso “lottano” per la pace totale… Per averlo trascurato Bertinotti si è bruscamente risvegliato in mezzo a un ossimoro.
In linea di principio, nessuna persona sensata può non volere la pace. Il guaio è che esistono degli insensati – del genere Hitler o Ahmadinejad – che considerano la guerra come il mezzo ideale per imporre la loro visione del mondo e per i quali l’unico trattamento da riservare ai loro avversari è la soppressione. Che si fa con costoro? Non è lecito neppure difendersi?
Ricordo una trasmissione televisiva in cui un sacerdote assolutamente pacifista veniva incalzato con domande del tipo: «Lei che avrebbe fatto con Hitler?». E lui si arrabbattava con improbabili scenari di resistenze passive, fino al lancio di mazzi di fiori nei cannoni. Il radicalismo ha anche un volto ridicolo. Il guaio è che ha anche un volto cinico, perché è difficile spiegare quale giustizia sia quella che consente ai criminali di spadroneggiare indisturbati, e quale senso morale sia quello che ti permette di assistere passivamente alle stragi degli innocenti senza provare vergogna. Quel sacerdote, in fondo, era una brava persona: sudava e soffriva nella sua contraddizione insanabile. Ma c’è un modo di non soffrire, ed è quello di considerare gli assassini – del genere dei tagliatori di teste talebani o di coloro che spediscono donne e bambini a esplodere nei caffè israeliani – come vittime, che fanno del male sì, ma per colpa di qualcun altro e quindi sono giustificati.
I pacifisti “senza se e senza ma” sono stati educati a dividere il mondo in due: da un lato i “nemici” (Occidente, Israele) cui soltanto è imposto il divieto assoluto di guerra, dall’altro coloro che sono giustificati a compiere violenze in nome di una serie di ideali o di esigenze. Ricordate i “Partigiani della pace” di stalinista memoria? I pacifisti di oggi sono una variante della stessa scuola, con i dovuti aggiornamenti all’attualità. Il radicalismo conduce alla violenza e la parola “radicalità” Bertinotti l’ha pronunziata appena ieri, quando esprimeva il desiderio di essere a Vicenza, a marciare assieme ai pacifisti “senza se e senza ma”.
Dunque, anche a Bertinotti è toccata una contestazione da dove meno se l’aspettava: da sinistra. All’Università di Roma “La Sapienza” una cinquantina di studenti radicali lo ha accolto a suon di “buffone”, “assassino”, “guerrafondaio”. Il Presidente della Camera ha osservato: «Ho capito di cosa si tratta. Non è il movimento per la pace». Non sarei così sbrigativo: con ogni probabilità si tratta di suoi figliocci e l’accaduto testimonia una difficoltà di rapporti molto seria con una vasta galassia che ha sempre considerato Rifondazione come referente politico.
Di che stupirsi, peraltro, quando si è predicato per anni il pacifismo “senza se e senza ma” e poi si è costretti a fare i conti, sia pure in modo blandissimo, con la realtà e con il realismo? Basta una minima concessione alla realtà, anche infinitesima purché non nulla, per entrare in rotta di collisione con la linea della pace a tutti i costi. Dice Bertinotti che si tratta di «un’area estrema della sinistra che contesta la non violenza». Stupisce che una persona intelligente e lucida nel ragionare – a differenza di certi Talleyrand da strapazzo – sia caduto in pieno in questa contraddizione. Quando ci si muove all’interno di linee basate sull’estremismo del “senza se e senza ma” si finisce inevitabilmente nella violenza. I pacifisti ad ogni costo sono per forza di cose dei violenti perché le posizioni assolute implicano l’intolleranza: non a caso “lottano” per la pace totale… Per averlo trascurato Bertinotti si è bruscamente risvegliato in mezzo a un ossimoro.
In linea di principio, nessuna persona sensata può non volere la pace. Il guaio è che esistono degli insensati – del genere Hitler o Ahmadinejad – che considerano la guerra come il mezzo ideale per imporre la loro visione del mondo e per i quali l’unico trattamento da riservare ai loro avversari è la soppressione. Che si fa con costoro? Non è lecito neppure difendersi?
Ricordo una trasmissione televisiva in cui un sacerdote assolutamente pacifista veniva incalzato con domande del tipo: «Lei che avrebbe fatto con Hitler?». E lui si arrabbattava con improbabili scenari di resistenze passive, fino al lancio di mazzi di fiori nei cannoni. Il radicalismo ha anche un volto ridicolo. Il guaio è che ha anche un volto cinico, perché è difficile spiegare quale giustizia sia quella che consente ai criminali di spadroneggiare indisturbati, e quale senso morale sia quello che ti permette di assistere passivamente alle stragi degli innocenti senza provare vergogna. Quel sacerdote, in fondo, era una brava persona: sudava e soffriva nella sua contraddizione insanabile. Ma c’è un modo di non soffrire, ed è quello di considerare gli assassini – del genere dei tagliatori di teste talebani o di coloro che spediscono donne e bambini a esplodere nei caffè israeliani – come vittime, che fanno del male sì, ma per colpa di qualcun altro e quindi sono giustificati.
I pacifisti “senza se e senza ma” sono stati educati a dividere il mondo in due: da un lato i “nemici” (Occidente, Israele) cui soltanto è imposto il divieto assoluto di guerra, dall’altro coloro che sono giustificati a compiere violenze in nome di una serie di ideali o di esigenze. Ricordate i “Partigiani della pace” di stalinista memoria? I pacifisti di oggi sono una variante della stessa scuola, con i dovuti aggiornamenti all’attualità. Il radicalismo conduce alla violenza e la parola “radicalità” Bertinotti l’ha pronunziata appena ieri, quando esprimeva il desiderio di essere a Vicenza, a marciare assieme ai pacifisti “senza se e senza ma”.
martedì 3 aprile 2007
È vero, medie e licei sono allo sfascio, ma la (d)istruzione inizia alle elementari
(Settimanale Tempi, 29 marzo 2007)
Una settantina di anni fa il premio Nobel per la medicina Albert Szent-Györgyi emise questa sentenza: «Il futuro sarà come sono le scuole oggi». Roba da far tremare le gambe, se si pensa allo stato della scuola italiana. Eppure, siamo convinti che Szent-Györgyi avesse perfettamente ragione. Per questo, occuparsi del nostro sistema educativo è un dovere morale, un’urgenza assoluta.
Si parla molto della condizione drammatica in cui versano i licei e le scuole medie inferiori, ma non si dice che il disastro ha evidenti radici nella condizione delle scuole elementari. Si provi ad entrare in una classe elementare: assenza di qualsiasi disciplina, un chiasso indescrivibile, bambini che passeggiano per la classe mentre altri sono accasciati sui banchi senza far nulla. Conosco casi di bambini che sono tornati a casa dicendo di non voler più andare a scuola per il mal di testa provocato dal rumore, altri che si deprimono, altri ancora che si lamentano di annoiarsi. Del resto, basta leggere i rapporti dei tirocinanti per rendersi conto di quanto l’anarchia e il chiasso nelle elementari distruggano ogni sviluppo delle capacità di concentrazione e siano causa di incredibile inefficienza. A volte, in otto ore di tempo pieno si fa poco più di un dettato e dopo quattro mesi di scuola si è fermi ancora all’apprendimento del numero 9. Durante la ricreazione, poi, i più prepotenti impongono le loro regole e dettano legge su chi e come può partecipare ai giochi: è il bullismo in forma embrionale.
In tutto ciò cosa fa il maestro? Per lo più è sopraffatto. A parte i casi estremi, ma non infrequenti, di maestri che ricevono oggetti in testa e debbono persino farsi medicare, il maestro passa il tempo a tentare con scarso successo di domare la classe. Qualcuno si porta persino un fischietto in classe per farsi sentire. La vera ragione dell’impotenza dei docenti risiede negli effetti nefasti del “pedagogismo democratico”, come l’ha bene definito Ernesto Galli Della Loggia. È l’ideologia che capovolge qualsiasi forma di meritocrazia e si propone di fabbricare tanti individui tutti identici, tutti allo stesso livello. E siccome, in questa forma di cretinismo demagogico, nessuno deve restare indietro, bisogna sempre aspettare l’ultimo della classe, riservare a lui ogni cura e attenzione, “capire” e sopportare le sue intemperanze, invece di stimolarlo, con una sapiente miscela di bastone e di carota, ad adeguarsi al livello dei più capaci (che ci sono, non c’è niente da fare, non dispiaccia ai comunisti dell’intelligenza). Nel frattempo, i migliori vengono trascurati, e restano fermi in attesa, a vivacchiare nel chiasso e nel caos provocato dagli ultimi – quelli che non soltanto non fanno ma non lasciano fare – e che il buonismo democratico vieta di sanzionare. Inutile dire che una siffatta ideologia ha diviso il mondo degli insegnanti in due: coloro che soffrono e coloro che ne sono stati plasmati e che non sanno più neppure quale sia la funzione di un’educatore e non sono in grado di esprimere alcuna autorevolezza.
Il crollo della disciplina è quindi strettamente connesso allo sfacelo del modello educativo del pedagogismo democratico. Tuttavia, siccome la questione della disciplina ha raggiunto livelli di vera e propria emergenza, e in Italia per fare riforme ci vogliono tempi geologici – con il rischio di peggiorare la situazione esistente – intervenire nel primo ambito è divenuta un’urgenza assoluta, come soccorrere un diabetico in fin di vita per un’incidente stradale: alla cura del diabete ci si pensa dopo. Vi torneremo su la prossima volta.
Giorgio Israel
Una settantina di anni fa il premio Nobel per la medicina Albert Szent-Györgyi emise questa sentenza: «Il futuro sarà come sono le scuole oggi». Roba da far tremare le gambe, se si pensa allo stato della scuola italiana. Eppure, siamo convinti che Szent-Györgyi avesse perfettamente ragione. Per questo, occuparsi del nostro sistema educativo è un dovere morale, un’urgenza assoluta.
Si parla molto della condizione drammatica in cui versano i licei e le scuole medie inferiori, ma non si dice che il disastro ha evidenti radici nella condizione delle scuole elementari. Si provi ad entrare in una classe elementare: assenza di qualsiasi disciplina, un chiasso indescrivibile, bambini che passeggiano per la classe mentre altri sono accasciati sui banchi senza far nulla. Conosco casi di bambini che sono tornati a casa dicendo di non voler più andare a scuola per il mal di testa provocato dal rumore, altri che si deprimono, altri ancora che si lamentano di annoiarsi. Del resto, basta leggere i rapporti dei tirocinanti per rendersi conto di quanto l’anarchia e il chiasso nelle elementari distruggano ogni sviluppo delle capacità di concentrazione e siano causa di incredibile inefficienza. A volte, in otto ore di tempo pieno si fa poco più di un dettato e dopo quattro mesi di scuola si è fermi ancora all’apprendimento del numero 9. Durante la ricreazione, poi, i più prepotenti impongono le loro regole e dettano legge su chi e come può partecipare ai giochi: è il bullismo in forma embrionale.
In tutto ciò cosa fa il maestro? Per lo più è sopraffatto. A parte i casi estremi, ma non infrequenti, di maestri che ricevono oggetti in testa e debbono persino farsi medicare, il maestro passa il tempo a tentare con scarso successo di domare la classe. Qualcuno si porta persino un fischietto in classe per farsi sentire. La vera ragione dell’impotenza dei docenti risiede negli effetti nefasti del “pedagogismo democratico”, come l’ha bene definito Ernesto Galli Della Loggia. È l’ideologia che capovolge qualsiasi forma di meritocrazia e si propone di fabbricare tanti individui tutti identici, tutti allo stesso livello. E siccome, in questa forma di cretinismo demagogico, nessuno deve restare indietro, bisogna sempre aspettare l’ultimo della classe, riservare a lui ogni cura e attenzione, “capire” e sopportare le sue intemperanze, invece di stimolarlo, con una sapiente miscela di bastone e di carota, ad adeguarsi al livello dei più capaci (che ci sono, non c’è niente da fare, non dispiaccia ai comunisti dell’intelligenza). Nel frattempo, i migliori vengono trascurati, e restano fermi in attesa, a vivacchiare nel chiasso e nel caos provocato dagli ultimi – quelli che non soltanto non fanno ma non lasciano fare – e che il buonismo democratico vieta di sanzionare. Inutile dire che una siffatta ideologia ha diviso il mondo degli insegnanti in due: coloro che soffrono e coloro che ne sono stati plasmati e che non sanno più neppure quale sia la funzione di un’educatore e non sono in grado di esprimere alcuna autorevolezza.
Il crollo della disciplina è quindi strettamente connesso allo sfacelo del modello educativo del pedagogismo democratico. Tuttavia, siccome la questione della disciplina ha raggiunto livelli di vera e propria emergenza, e in Italia per fare riforme ci vogliono tempi geologici – con il rischio di peggiorare la situazione esistente – intervenire nel primo ambito è divenuta un’urgenza assoluta, come soccorrere un diabetico in fin di vita per un’incidente stradale: alla cura del diabete ci si pensa dopo. Vi torneremo su la prossima volta.
Giorgio Israel
Un articolo esemplare
Corriere della Sera - 2 aprile 2007
I video di YouTube: giovani, scuola, valori
ADDIO AI PADRI
di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA
Il colloquio che segue è tratto da un filmato su YouTube, registrato con un cellulare nella classe di una scuola italiana la settimana scorsa. Un alunno di una quindicina d’anni, è vicino alla cattedra con un microfono in mano e finge un’intervista alla professoressa: Alunno : Ma lei, professoressa, ha mai provato a mettersi un dito nel culo?
Professoressa (imbarazzata e sussurrando): Ma che dici, via...
Alunno : Ma lei quanto guadagna?
Professoressa (come sopra): Non molto di certo...
Alunno : Pensa che guadagnerebbe di più facendo la puttana?
Questo il brutale, e testuale, referto delle parole. Le quali obbligano a infischiarsene del moralismo e a porsi una domanda: che cosa è, che cosa bisogna pensare di un Paese dove in un’aula scolastica è possibile un simile scambio di battute? E dove è possibile che ciò accada senza che nelle 24 ore successive (almeno a quel che si sa) vi sia alcuna reazione significativa?
A proposito di episodi di brutalità, di violenza o di rifiuto delle regole più elementari del vivere civile come questo, che si susseguono nelle nostre scuole, non è più possibile evocare la categoria onnicomprensiva di «bullismo». Non è più possibile, cioè, rifugiarsi nella dimensione del patologico e magari pensare che l’azione di un ministro (che pure è necessaria e urgentissima: si svegli onorevole Fioroni, si svegli!) possa essere il rimedio. Certo: la scuola e l’istruzione sono coinvolte, eccome!, ma si tratta di ben altro.
Si tratta nella sostanza di una frattura immensa che nella nostra società si è aperta tra le generazioni. Una frattura che comporta spesso l’impossibilità di trasmettere dai padri ai figli i modelli comportamentali, le gerarchie dei valori accreditati, perfino le regole della quotidianità, che i primi bene o male si credevano tenuti a osservare e che i secondi oggi, invece, neppure quasi conoscono o trattano con assoluta noncuranza. Beninteso, nell’epoca della modernità tutti i passaggi generazionali hanno registrato un problema del genere, che però oggi si presenta in modo radicale per la presenza combinata di due fenomeni inediti e dirompenti. Da un lato l’enorme innalzamento del reddito che da mezzo secolo caratterizza tutte le nostre società, e che consente oggi anche ai giovanissimi, per non dire agli adolescenti, di avere in tasca (o di poter ragionevolmente aspirare ad averlo) denaro da spendere per un ammontare finora impensabile (quanti quindicenni nel 1960 potevano avere un mezzo di locomozione proprio?). Dall’altro, più o meno nello stesso periodo, ha preso forma una gigantesca rivoluzione scientifico-tecnica di portata generale, sì, ma capace di irrompere in modo pervasivo nella quotidianità del privato (si pensi alla pillola, alla tv, a Internet, all’ingegneria genetica), ed è in questa nuova quotidianità - distruttiva degli antichi universi valoriali e stilistici rappresentati esemplarmente dalla scuola - che si forma la nuova soggettività giovanile, forte del suo potere d’acquisto e non più orientata a un rapporto di imitazione con il mondo adulto ma piuttosto in arrogante, spesso aggressiva e violenta, contrapposizione a esso. Il cui simbolo è non a caso il cellulare.
E’ accaduto, insomma, che nel tardo XX secolo i giovani siano divenuti i fruitori/apostoli di tutte le maggiori novità tecnico-scientifiche e in genere della massiccia innovazione sociale, acquisendone per riverbero il prestigio e un profondo sentimento di autonomia.
I padri, invece, sono andati inevitabilmente perdendo, di pari pari passo, il senso culturale del proprio ruolo e dei valori ricevuti e la sicurezza in se stessi.
Tutto ciò è specialmente vero per l’Italia perché in Italia la cultura dei padri era particolarmente fragile. Priva di forti modelli tradizional-borghesi, influenzata profondamente dall’incerto permissivismo sessantottesco e dai luoghi comuni culturali del politicamente corretto, essa si è trovata in una situazione di totale debolezza davanti all’irruzione dei processi di autonomizzazione della soggettività giovanile. Non solo. Da noi era specialmente debole proprio l’istituzione deputata in primis a fare i conti con quella soggettività: la scuola. Cosa poteva mai opporre alla straordinaria sfida dell’epoca la povera scuola italiana, che arrivava all’appuntamento dominata dai sindacati, gestita da una lobby di pedagogisti di regime e guidata da politici paurosi, interessati solo alla carriera?
I video di YouTube: giovani, scuola, valori
ADDIO AI PADRI
di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA
Il colloquio che segue è tratto da un filmato su YouTube, registrato con un cellulare nella classe di una scuola italiana la settimana scorsa. Un alunno di una quindicina d’anni, è vicino alla cattedra con un microfono in mano e finge un’intervista alla professoressa: Alunno : Ma lei, professoressa, ha mai provato a mettersi un dito nel culo?
Professoressa (imbarazzata e sussurrando): Ma che dici, via...
Alunno : Ma lei quanto guadagna?
Professoressa (come sopra): Non molto di certo...
Alunno : Pensa che guadagnerebbe di più facendo la puttana?
Questo il brutale, e testuale, referto delle parole. Le quali obbligano a infischiarsene del moralismo e a porsi una domanda: che cosa è, che cosa bisogna pensare di un Paese dove in un’aula scolastica è possibile un simile scambio di battute? E dove è possibile che ciò accada senza che nelle 24 ore successive (almeno a quel che si sa) vi sia alcuna reazione significativa?
A proposito di episodi di brutalità, di violenza o di rifiuto delle regole più elementari del vivere civile come questo, che si susseguono nelle nostre scuole, non è più possibile evocare la categoria onnicomprensiva di «bullismo». Non è più possibile, cioè, rifugiarsi nella dimensione del patologico e magari pensare che l’azione di un ministro (che pure è necessaria e urgentissima: si svegli onorevole Fioroni, si svegli!) possa essere il rimedio. Certo: la scuola e l’istruzione sono coinvolte, eccome!, ma si tratta di ben altro.
Si tratta nella sostanza di una frattura immensa che nella nostra società si è aperta tra le generazioni. Una frattura che comporta spesso l’impossibilità di trasmettere dai padri ai figli i modelli comportamentali, le gerarchie dei valori accreditati, perfino le regole della quotidianità, che i primi bene o male si credevano tenuti a osservare e che i secondi oggi, invece, neppure quasi conoscono o trattano con assoluta noncuranza. Beninteso, nell’epoca della modernità tutti i passaggi generazionali hanno registrato un problema del genere, che però oggi si presenta in modo radicale per la presenza combinata di due fenomeni inediti e dirompenti. Da un lato l’enorme innalzamento del reddito che da mezzo secolo caratterizza tutte le nostre società, e che consente oggi anche ai giovanissimi, per non dire agli adolescenti, di avere in tasca (o di poter ragionevolmente aspirare ad averlo) denaro da spendere per un ammontare finora impensabile (quanti quindicenni nel 1960 potevano avere un mezzo di locomozione proprio?). Dall’altro, più o meno nello stesso periodo, ha preso forma una gigantesca rivoluzione scientifico-tecnica di portata generale, sì, ma capace di irrompere in modo pervasivo nella quotidianità del privato (si pensi alla pillola, alla tv, a Internet, all’ingegneria genetica), ed è in questa nuova quotidianità - distruttiva degli antichi universi valoriali e stilistici rappresentati esemplarmente dalla scuola - che si forma la nuova soggettività giovanile, forte del suo potere d’acquisto e non più orientata a un rapporto di imitazione con il mondo adulto ma piuttosto in arrogante, spesso aggressiva e violenta, contrapposizione a esso. Il cui simbolo è non a caso il cellulare.
E’ accaduto, insomma, che nel tardo XX secolo i giovani siano divenuti i fruitori/apostoli di tutte le maggiori novità tecnico-scientifiche e in genere della massiccia innovazione sociale, acquisendone per riverbero il prestigio e un profondo sentimento di autonomia.
I padri, invece, sono andati inevitabilmente perdendo, di pari pari passo, il senso culturale del proprio ruolo e dei valori ricevuti e la sicurezza in se stessi.
Tutto ciò è specialmente vero per l’Italia perché in Italia la cultura dei padri era particolarmente fragile. Priva di forti modelli tradizional-borghesi, influenzata profondamente dall’incerto permissivismo sessantottesco e dai luoghi comuni culturali del politicamente corretto, essa si è trovata in una situazione di totale debolezza davanti all’irruzione dei processi di autonomizzazione della soggettività giovanile. Non solo. Da noi era specialmente debole proprio l’istituzione deputata in primis a fare i conti con quella soggettività: la scuola. Cosa poteva mai opporre alla straordinaria sfida dell’epoca la povera scuola italiana, che arrivava all’appuntamento dominata dai sindacati, gestita da una lobby di pedagogisti di regime e guidata da politici paurosi, interessati solo alla carriera?
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