Tempi, 10 maggio 2007
Ha ragione Moni Ovadia a dire che milioni di uomini sono stati comunisti in nome degli ideali di uguaglianza e di libertà e che ciò costituisce una differenza con il nazifascismo. Difatti, per capire la storia occorre spiegare perché tante persone abbiano aderito in buona fede al comunismo e abbiano chiuso gli occhi di fronte ai crimini dello stalinismo, tanto credevano nel sole dell’avvenire. Per questa fiducia, spesso sincera, il comunismo è durato tanto, a differenza del nazismo e del fascismo. Occorre però anche spiegare perché tante tra quelle persone in buona fede abbiano aperto gli occhi e ripudiato il comunismo, le sue orrende stragi e il fanatismo con cui ha avvelenato il mondo. Contro queste persone – tra cui m’iscrivo, essendo stato da giovane comunista – Ovadia sa solo inveire parlando di «revisionismo anticomunista», «modo ignobile per infierire su un cadavere».
Se si fosse fermato a pensare, avrebbe forse capito che quel che ha attirato nella trappola infernale milioni di persone in buona fede è stata l’illusione tragica di ricostruire l’umanità dalle fondamenta, e di accettare che venisse pagato qualsiasi prezzo, anche montagne di cadaveri di “nemici della rivoluzione”, per costruire la “città futura”. Avrebbe capito che la radice del disastro era in questa pretesa di palingenesi globale e che proprio questo è il tratto comune tra comunismo e totalitarismi di destra. Se avesse riflettuto avrebbe capito che qui ha origine la contraddizione per cui egli sarebbe finito in galera nella Bulgaria comunista da cui fuggì la sua famiglia, mentre è nelle società che accettano l’uomo per quel che è (mirando al miglioramento e non alla rigenerazione totale) che egli può proclamare liberamente il suo comunismo snobistico. Invece, Ovadia preferisce restare attaccato al mito e, mentre ammonisce che la storia «va raccontata tutta», la racconta come gli fa comodo. Vuole intimidire, sbraitando che «omologare Lenin a Stalin è una idiozia teorica, una volgarità»; ma i tempi sono cambiati e nessuno si intimidisce di fronte a un’autentica idiozia proclamata con tanta supponenza. Chiunque sappia leggere sa che Lenin ha promosso stragi efferate proclamando la legittimità di schiacciare i nemici del popolo come insetti.
E facciamola anche finita col mito dei comunismi buoni. Un giorno accompagnai un ebreo fuggito dall’Unione Sovietica a un incontro con un alto dirigente comunista italiano: voleva chiedere un intervento a favore di un noto ebreo sovietico deportato per aver insegnato la lingua ebraica. L’accoglienza fu così fredda che il poveretto uscì scandalizzato dicendo: «Ma perché dite che questi comunisti sono diversi e più aperti? Sono identici ai nostri. Riconosco l’identico linguaggio».
Il comunismo è stato un immenso e terrificante dramma proprio per chi vi ha creduto in buona fede. E Ovadia che fa? Da un lato si comporta come un burocrate stalinista, scomunicando chi osa parlarne male, dall’altro propina barzellette che non fanno ridere. Secondo lui «nel servilismo verso Stalin c’era il grottesco alla Gogol», non il terrore della tortura e della morte. Che una persona, dopo dieci anni di gulag, attaccasse al muro il ritratto di Stalin è una penosa tragedia che non ha nulla di tenero e di divertente. Trovo squallido che chi dovrebbe sentirsi fratello di quel professore che aveva perso tutti i denti per il regime di detenzione cui era sottoposto per il supremo delitto di aver insegnato l’ebraico, rida, anziché piangere, sulle barzellette sovietiche e ce ne propini un volume intriso di nostalgia per il comunismo. Buon divertimento, compagni. A me pare che tutto ciò faccia piuttosto pietà.