Quale università vorrei? Niente nostalgie. L’università di un tempo non è riproponibile oggi e non mi tenta affatto la parte del “laudator temporis acti”, figura inutile oltre che patetica. Ma c’è qualcosa che vorrei tornasse al centro della vita universitaria: l’interesse prioritario per l’insegnamento e per la ricerca. Non che questo interesse non sia vivo e presente: non sono disponibile ad unirmi al coro falso e ipocrita di coloro che cercano di far credere che l’università sia la sentina di tutti i mali italiani, e soprattutto del cinismo e del disinteresse. Ma oggi nella vita universitaria non sono i contenuti – contenuti dei corsi, tematiche della ricerca – che occupano lo spazio più importante nell’attività dei docenti. Come frutto di riforme dissennate che passati ministri continuano temerariamente a difendere, lo spazio più importante, o quantomeno tendente a sottrarre spazi al resto, è rappresentato dalla gestione, dall’organizzazione, dalla burocrazia, dagli adempimenti amministrativi.
Interminabili conteggi e contrattazioni sulla ripartizione dei crediti tra i vari corsi, continuo riassetto dei corsi di laurea, innumerevoli moduli da compilare – non basta più il programma del corso, bisogna indicare “conoscenze” e “competenze”, bisogna compilare moduli di programmazione didattica –, proliferazione di organi e di riunioni. La nuova e sacrosanta esigenza di valutare l’attività didattica e di ricerca non comporta affatto, come sarebbe auspicabile, discussioni di contenuto su quel che ciascuno insegna o sulle ricerche che ha fatto. No. Comporta la compilazioni di altri moduli, la trasmissione di dati sulle pubblicazioni che una commissione valuta numericamente sulla base di algoritmi elaborati nel corso di estenuanti riunioni. Che una pubblicazione abbia come tema il teorema di Archimede Pitagorico non interessa a nessuno: il suo “valore” risulta da una serie di parametri (citation index, impact factor, carattere nazionale o internazionale, ecc.). Casomai, se l’esito della valutazione si rivelerà demenziale la commissione si riunirà per rivedere l’algoritmo… L’idea che la valutazione sia in primo luogo un processo culturale è vista con un sorrisino supponente da chi, poco capace sul piano didattico e scientifico e molto esperto di gestione e di traffici di potere, domina in un’università del genere.
Quindi, vorrei che l’università tornasse ad essere un luogo in cui i protagonisti siano l’insegnamento, la ricerca scientifica, la cultura. Sarà dura. C’è voluto un emendamento specifico per reintrodurre il termine «conoscenza» nell’articolo 1 del ddl in corso di approvazione, laddove si parlava invece di « libera formazione e circolazione dei saperi». “Saperi” è il termine-vessillo che un certo pedagogismo ha contrapposto a “conoscenza” e “discipline”, per marcare la necessità di scardinare l’assetto disciplinare tradizionale troppo basato sui contenuti anziché sulle “pratiche”. Ed è l’ossessione pragmatista il pericolo peggiore, che emerge soprattutto nell’assetto della “governance” – la parte più discutibile del ddl, mentre la migliore è quella del reclutamento. La forte presenza di manager esterni nella “governance” riflette un’idea dell’università non come sede di formazione culturale ma come sede di apprendistato per soggetti destinati al lavoro in azienda, una sorta di ufficio studi confindustriale. Neanche le università private statunitensi hanno statuti affetti da una visione così praticona. E oltretutto là gli industriali mettono i quattrini, non si limitano a cercare di accaparrare per i propri fini un bene pubblico, in conformità al modello italiano dell’industria assistita dallo stato.
(Tempi, 29 settembre 2010)