Tre cose giuste – o, almeno, abbastanza giuste – abbiamo letto sul Corriere della Sera di lunedì 13 giugno a firma Massimo Franco. La prima è la critica di “una classe politica che, soprattutto a sinistra, usa categorie autoreferenziali quanto consunte”. La seconda è che “lo scacco del fronte referendario è stato di continuare a immaginare un’“Italia reale” che esiste solo nella nostalgia degli anni settanta o ottanta”. E la terza è la constatazione che siamo al “superamento di qualsiasi dicotomia fra laicità e cattolicità”.
Abbiamo detto “abbastanza” giuste perché queste ammissioni sono limitate dall’osservazione che “il paese offre una modernità che può non piacere, apparire retrograda; ma che è inevitabile e obbligatorio cercare di intercettare e di comprendere, per evitare le smentite brucianti della realtà”.
È solo questione di opportunità? È soltanto obbligatorio, per evitare scottature, intercettare – magari turandosi il naso – una modernità “retrograda”? Insomma, sembra quasi che si voglia dire: questo è un paese di retrogradi ma è giocoforza arrendersi a questo fatto altrimenti non si riuscirà ad “intercettarne” il consenso.
Eppure la lezione ricevuta con il risultato del referendum dovrebbe indurre a rinunciare definitivamente alle letture strumentali, dovrebbe far germinare il dubbio che forse la modernità non risiede dove si credeva, ma sta invece proprio in quella turba di retrogradi, in una società che si è mostrata capace di impartire una lezione di intelligenza, di “post-post-modernità”, di chiedere un recupero dei valori, dei contenuti, dopo un’orgia di relativismo culturale ed etico. Va bene, lo sappiamo: qualcuno si metterà a sghignazzare di fronte a queste affermazioni. Dirà che qui non si tratta di nulla di questo, bensì di mero menefreghismo e disinteresse. Ma a noi non interessa discutere con i cinici, perché i cinici credono che sia molto intelligente decostruire le “apparenze” e ricondurle a bruti fatti materiali, mentre in realtà sono gli autentici sciocchi, quelli cui il “realismo” impedisce anche soltanto di sfiorare la realtà.
Parliamo piuttosto con chi si mostra aperto alla riflessione e che tuttavia si arresta titubante davanti alla soglia, come nel caso dell’articolo del Corriere appena citato; con i referendari che vogliono ragionare con la testa e non nascondersi dietro gli alibi della disinformazione e delle pretese scorrettezze che sarebbero state compiute nella rilevazione dei risultati dei votanti, e consimili inezie autoconsolatorie.
Prima domanda: non sarebbe il caso di rimettere in discussione quell’idea di modernità sulla base della quale è stata tracciata una brutale dicotomia tra “progressisti” e “retrogradi”? Da un lato, vi erano gli amici della scienza, della ragione, del progresso, della tecnologia che aiuta l’uomo a vivere meglio, dall’altro i nemici della scienza, i nostalgici della candela e del Medioevo, i luddisti, i bigotti. Sulle pagine di questo giornale abbiamo tentato di far capire che a fronte di ogni Veronesi esisteva un Testart, che Watson non è il profeta supremo della scienza e che merita ben di più riflettere sulle tesi di Chargaff. Abbiamo citato tanti altri scienziati, epistemologi, storici e filosofi della scienza, nell’intento di suscitare una riflessione critica, quantomeno di suscitare la consapevolezza che le cose non sono così semplici come venivano proposte. Niente. Di là c’era la “scienza”, la vera conoscenza; dall’altra parte, l’oscurità. Gli “scienziati” erano tutti dal lato “buono”. A quelli che stavano dall’altra parte, non potendo togliere posto e laurea, hanno tolto persino il nome di scienziati (penso a certi pesanti attacchi nei confronti di Vescovi): erano il nulla, o tutt’al più il lato oscuro della scienza. Abbiamo invitato a riflettere sulle forme attuali del rapporto fra scienza e tecnologia, e su quel nuovo fenomeno che va sotto il nome di “tecnoscienza” e abbiamo tentato di far capire che rivestire i tecnoscienziati di oggi con la palandrana di Galileo è semplicemente farsesco. Si è preferito mettersi ciecamente nelle mani di coloro che lasciavano credere nella verità di queste immagini di circostanza – se non da operetta – della scienza e della tecnologia. Si è dato credito a qualsiasi cosa venisse detta con la supponenza dell’autorità accademica, purché fosse proferita da “quella” parte accademica. Si è persino dato credito a chi, pur di difendere il suo punto di vista, si è disonorato affermando che era “un colpo basso” parlare di eugenetica, perché “nessuna democrazia consentirà mai un’eugenetica atta a produrre la razza pura o la razza superiore”. Come se, nella civilissima e democratica Gran Bretagna, le teorie eugenetiche di Galton e l’attività dei laboratori Galton non mirassero per esplicita dichiarazione ad affermare la superiorità della razza britannica.
Dopo quest’orgia di retorica, di immagini stereotipate proiettate sulla realtà come a produrne una deformazione parodistica, non sarebbe giunto il momento di fermarsi, riflettere, discutere e chiedersi se quanto veniva detto da tanti parti sulle forme attuali della tecnoscienza e sulle inedite implicazioni che essa pone sul piano etico non sia un problema reale con cui fare i conti e che gli elettori hanno capito più di quanto si sospettava? Per mesi abbiamo tentato di argomentare l’idea che coniugare una problematica etica con la scienza non è un disonore per questa: al contrario. E abbiamo sostenuto che i problemi della vita e della morte, della salute e della malattia, della generazione e dell’invecchiamento non possono essere posti in termini meramente tecnici e di laboratorio. Siamo stati trattati come reazionari e mistici, e non ci si è neppure sforzati di riflettere attorno alla nostra domanda: e cioè se il vero atteggiamento retrivo, chiuso e bigotto non fosse quello di restringere il dominio della razionalità alla gestione tecnologica dell’esistenza. Come se le domande concernenti il senso della vita, i confini morali entro cui l’intervento sulla vita è compatibile con la dignità dell’uomo, non fossero domande razionali, anzi le domande più autenticamente razionali. E come se la miglior difesa della scienza non consistesse nell’opporsi a ogni tentativo di separarla da queste domande; o di caricarle sulle spalle la missione impossibile di risolverle da sola.
Sono domande su cui sarebbe sensato ragionare e non inveire. E invece ci siamo sentiti dire che era tutta colpa di una congiura che va da Croce a Ratzinger e che proclama che la scienza “è disumanizzante, totalitaria, arrogante, dominatrice, dogmatica, nazista” e che “soltanto liberandocene potremo sperare di salvare un’umanità ormai esausta e sull’orlo della distruzione fisica e morale”. Pompose insulsaggini che su queste pagine nessuno ha mai detto – ma certamente sono state dette e scritte anni fa su certa stampa di sinistra oggi in prima linea sul fronte referendario – e la cui invenzione serve soltanto a narcotizzarsi il cervello per non pensare a cose troppo faticose. Un modo di demonizzare, questo sì, caratteristico della peggiore tradizione del nostro paese: quella dell’invettiva e della declamazione tanto cara ai totalitari di ogni risma.
Mi permetterò un accenno personale. Otto anni fa scrissi un libro su quest’ordine di questioni (“Il giardino dei noci”), in cui difendevo l’esigenza di un’idea larga della razionalità e sostenevo che lo scientismo è il peggior nemico della razionalità e, in definitiva, della scienza stessa, in quanto l’esigenza etica e morale è insopprimibile e il tentativo di soffocarla può generare reazioni che possono prendere direzioni sbagliate, anche nel senso di forme di fanatismo irrazionalistico di cui abbiamo sotto gli occhi fin troppe manifestazioni. Denunciavo allora gli “incubi postmoderni e la tirannia della tecnoscienza” (era il sottotitolo del libro) che rischiavano di avvelenare la nostra esistenza. Mi illudevo allora che gli ambienti che si autodefiniscono “progressisti”, “laici” e “illuminati” fossero i più aperti a una tematica del genere, quantomeno fossero i più aperti a riflettere e a discutere liberamente e criticamente. Dovetti già allora constatare che gli unici commenti che era possibile raccogliere concernevano una pretesa “crisi mistica” dell’autore o, nella migliore delle ipotesi, l’osservazione stupita che l’aspetto più interessante del libro era… l’autore: “uno scienziato che rischia di attirarsi l’accusa di irrazionalismo per difendere la sua idea di scienza”… Forse già allora erano chiari il dogmatismo e l’autoreferenzialità di certi ambienti intellettuali che si proclamano da soli “progressisti”, “aperti”, “moderni” e sono invece l’espressione del più vieto bigottismo e clericalismo, nel senso ampio del termine.
Già, ecco un’altra dicotomia tradizionale che deve essere rivisitata. Difatti, se “bigotto” è colui che aderisce a un complesso di principi preconcetti in modo cieco, senza ammettere neppure in linea di principio la possibilità di un loro ripensamento critico, e se “clericale” è colui che si trincera all’interno di una corporazione che difende con tutti i mezzi lo status (ed eventualmente i privilegi) dei bigotti di cui sopra, pochi hanno il titolo ad essere proclamati “bigotti-clericali” come gli scientisti di cui sopra. Difatti – come ben si è visto in questi giorni – essi pongono all’indice tutti coloro che non aderiscono alla loro ristretta ideologia e mettono in opera tutti i mezzi del loro potere editoriale e accademico per impedire l’espressione delle idee che non condividono. La cosa forse più penosa è che costoro credono di possedere davvero un’egemonia culturale – al di là di quella materiale che certamente in buona misura possiedono. Ma impallidirebbero se potessero leggere i messaggi circolati questi giorni per e-mail in ambiente scientifico (sì, scientifico), del genere: “no allo scientismo, no alla prepotenza”. Nella sua autoreferenzialità, questo clericalismo scientista non soltanto non si è reso conto di essere il principale responsabile di una colpa che imputa agli altri: e cioè di diffondere una visione striminzita, meschina e tecnicistica della scienza che è la vera radice della decadenza della cultura scientifica in Italia (di cui è manifestazione la caduta di iscrizioni alle facoltà scientifiche universitarie); ma non si è neppure reso conto della sua crescente impopolarità.
Di ciò, da tempo, si rende conto chiunque abbia dibattuto di temi di scienza e di tecnoscienza in ambienti culturali di ogni livello. Ed è un fatto che è risultato particolarmente chiaro a chiunque abbia partecipato a dibattiti e incontri in questo periodo. Giorni fa sono stato invitato a un incontro, in un piccolo centro, con un centinaio di persone quasi tutte di sinistra e ho constatato con sorpresa che la quasi totalità era desiderosa di discutere e riflettere, era preoccupata di comprendere le nuove e difficili sfide che pone la tecnoscienza alle donne e agli uomini di oggi, ed era profondamente preoccupata per le loro implicazioni etiche. Altro che fanatismo, superficialità, e tantomeno disinteresse orientato verso l’astensionismo balneare. Ho detto che l’ho constatato “con sorpresa” perché è straordinario il contrasto fra queste realtà e l’immagine del paese che offre la stampa, con i suoi articoli e le sue inchieste dove non si capisce quale sia il confine tra cronaca e ideologia. Difatti, non è soltanto la politica ma gran parte del giornalismo – per non parlare dei sondaggi – a dover riflettere sulla sua autoreferenzialità e sulla sua lontananza dalla realtà. Eppure, nessuno può sentirsi il coraggio di dedurre conclusioni generali da piccole e limitate esperienze, e considerarle più attendibili delle sintesi generali che la stampa dovrebbe avere mezzi e professionalità per offrire. Per questo nessuno ha capito davvero o ha creduto davvero che il risultato di questo referendum potesse essere così clamoroso.
Abbiamo letto reazioni molto affrettate in queste ore. Vi è chi ha parlato del manifestarsi di un peso enorme ed insopportabile della Chiesa cattolica sul nostro paese. Sono affermazioni superficiali, autoconsolatorie e prive di qualsiasi fondamento. I cattolici per primi sanno che nessuno, neppure la Chiesa, è in grado di far restare a casa tre quarti degli italiani (senza contare i sia pur pochi che avranno votato no). Il punto è che l’Italia non è soltanto un paese che ha una forte tradizione religiosa cattolica, ma è un paese che ha una grande tradizione umanistica. Sarebbe puerile e irresponsabile vederla come antinomica alla cultura scientifica e tecnologica. Noi non ci stiamo a far passare l’Italia come un paese che non ha mai avuto una tradizione scientifica: per quanto male possa aver fatto il crocianesimo, l’Italia è stata una delle prime potenze mondiali della scienza con scienziati profondamente umanisti come Volterra, Enriques, Fermi e tanti altri. E non sono le caratteristiche culturali di questa tradizione, bensì l’autarchismo fascista prima, e tante altre vicende di cattiva gestione politica dopo – incluse, da ultimo, le pessime riforme tecnologico-pedagogistiche messe in opera dai governi di centro-sinistra e purtroppo non corrette – che hanno danneggiato il paese. Per quanto acciaccata e tramortita, l’Italia non è un paese narcotizzato come appare attualmente – e, ne siamo certi, non per molto ancora – la Spagna di Zapatero. Qui si discute e si ragiona attorno alle implicazioni della tecnologia per i destini dell’uomo anziché accettare in modo incosciente ed irrazionale una visione macchinista della persona. Queste radici e tradizioni umanistiche che, nonostante tutto, fanno ancora parte del sentire comune di tanta gente, possono essere una base da cui ripartire, anche per un rinnovamento tecnologico che non sia disgiunto da una visione culturale, etica e morale.
Veniamo infine all’ultimo punto di cui si diceva all’inizio: il superamento della dicotomia fra laicità e cattolicesimo. Vorrei permettermi di dire che si tratta di qualcosa di molto più profondo: e cioè del superamento della dicotomia fra laicità e religione. Si badi bene: qui si parla di religione, e non di clericalismo. È la rottura di un diaframma che dovrebbe essere salutato con gioia da chiunque abbia a cuore il senso di una vera, autentica laicità, quella che non ha bisogno di affermare l’autonomia dello stato e della società civile e politica mediante l’affermazione dell’ateismo e l’irrisione della religione; quella che può avere come avversari i clericali ma non i credenti. Molti si dolgono, con sconforto, della caduta di questa dicotomia. Sono i nuovi clericali, i nuovi bigotti. Quelli che temono come la peste una religione che si occupi di anime, di etica e di morale anziché di interessi materiali, e temono come la peste una scienza che non sia strumentalizzata ad affermare un manifesto ideologico ateo e antireligioso, ma faccia parte di una visione ampia, tollerante e plurale della conoscenza e della ragione.
Al riguardo, e in conclusione, non possiamo non accennare alla cacofonia di una nota molto stonata. Il Corriere della Sera, dopo aver saggiamente aperto la sua prima pagina con l’articolo di Franco di cui si è detto all’inizio, ha dedicato un’intera pagina a un’intervista a Vittorio Messori ed alla sua ultima fatica editoriale, volta a riesumare ancora una volta il “caso Mortara” e a riattizzare, come con un lancio di bomba Molotov, la polemica sulla questione delle conversioni forzate e dell’antigiudaismo cristiano.
Per parte mia, sempre in polemica con Messori, sono già intervenuto sul “caso Mortara” sulle pagine de Il Foglio in data 21 e 26 febbraio 2004 e non intendo aggiungere una sola parola a quanto detto allora. E questo per tre motivi: in primo luogo perché non potrei che ribadire riga per riga quanto detto; in secondo luogo, perché non mi interessa alimentare le ossessioni di Messori; in terzo luogo, perché ritengo che Giovanni Paolo II, soprattutto con i suoi atti, abbia stabilito una posizione chiara in tema di conversioni forzate e che, per suo merito, il dialogo ebraico-cristiano abbia preso una direzione positiva che con ogni evidenza prosegue senza tentennamenti sotto l’attuale pontificato. Certo, chiunque ha il diritto di compiere rivisitazioni storiche o pseudostoriche di quel che più gli aggrada. Ma, se tali rivisitazioni hanno lo scopo di scatenare casi giornalistici, scandali e polemiche, la vera domanda è: a chi interessa riaprire ancora una volta il “caso Mortara” e perché? Che nota stonata! Proprio all’indomani del voto che ha visto la sconfitta della linea abrogazionista della legge 40, si leva alta la voce di un cattolico che sui temi del referendum non ha detto una sola parola, ma è prontissimo e solerte nel tentare di riaprire ferite dolorose nel modo più acconcio a generare nuove polemiche e fratture tra il mondo ebraico e il mondo cristiano. Del resto, quale potrebbe essere la reazione del mondo ebraico di fronte a un linguaggio da Protocolli dei Savi di Sion (“potenti rappresentanti dell’ebraismo mondiale”, “Rothschild, finanziatore di tutti i governi d’Europa”, e altre assurdità riguardanti l’Alliance Israélite Universelle)?
Ebbene, chi scorge negli sviluppi più recenti un provvidenziale rimarginarsi della frattura tra mondo laico e mondo religioso e confida nello sviluppo del dialogo tra mondo cattolico e mondo ebraico, non ha la minima intenzione di cadere dentro questo fosso e vuole guardare avanti. Si lasci Messori, e chi vorrà dargli retta, al suo libretto che presto verrà dimenticato. Vi sono buoni motivi per sperare che gran parte del mondo cattolico eviti di cadere in questo fosso. Sarebbe una prova ulteriore che certe vecchie dicotomie non funzionano più e che è fondato guardare al futuro con ottimismo.
Giorgio Israel
3 commenti:
Benvenuto nella blogosfera. :)
Personalmente penso che la tradizione umanistica dell'Italia, basata sul Crocianesimo, è la maggiore responsabile dell'attuale ritardo ormai quasi incolmabile che il nostro Paese ha in campo scientifico nonstante gli ottimi cervelli che ogni tanto l'Italia produce. A riguardo le segnalo l'articolo Ipocrisia o pudore?.
Buona...sera carissimo professore,
ho deciso di leggere tutti i suoi post, partendo dai più vecchi, un po' alla volta come se fosse un libro.
Un pensiero dalla Terra a tutti voi che siete nella Luce.
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