mercoledì 7 dicembre 2005

Un bel tacer non fu mai scritto

"Se rifiuto la politica degli intellettuali progressisti, è per le stesse ragioni per cui ho rifiutato quella degli intellettuali collaborazionisti"
Albert CAMUS


Debbo iniziare con un’ammissione. Stavo scrivendo una severa critica del libro di Giorgio Fabre “Mussolini razzista. Dal socialismo al fascismo: la formazione di un antisemita”, che mi è parso manifestare il ritorno di una storiografia antifascista militante che rialza sempre la posta, spingendosi ora a proporre l’insostenibile tesi di un Mussolini costituzionalmente antisemita. Ed ecco questa polemica sulla rivista “Primato”, che fa venir la voglia di strappare tutto e di chiedersi se sarà mai possibile fare un discorso razionale sul fascismo senza doversi infangare nella palude del giustificazionismo.
Il comunismo è morto e sepolto, anzi è in metastasi. E chissà quanto bisognerà sopportare ancora l’insostenibile pesantezza dell’eredità del gran cadavere, che ci ha regalato, tra i suoi peccatucci minori, l’ostruzione a una storiografia non militante del fascismo, l’incomprensione totale della questione ebraica, e ora i sentimenti offesi di parenti che, pur di non veder macchiata la memoria dei loro cari, si producono nelle più improbabili rivalutazioni delle manifestazioni più impresentabili del fascismo. Ai documenti prodotti da Mirella Serri si è risposto con una caterva di insulti in stile inconfondibilmente baffuto. Giuliano Ferrara invita a tenere sotto controllo le emozioni per non rendere impossibile una “vera discussione storica”. Ma le esperienze personali, e persino le emozioni, possono dare un utile apporto all’analisi storica, purché non si ipotizzi di risolvere i dissensi in tribunale, perché allora si è al di qua di ogni discorso razionale. Fulvia Trombadori si chiede sdegnata come possa essere sospettata di antisemitismo una medaglia della resistenza antifascista. Ma qui non è in gioco la rispettabilità personale, bensì qualcosa di più complesso, che merita di essere compreso e non può essere esorcizzato agitando medaglie. A meno che non si vogliano riesumare sparate retoriche alla Giancarlo Pajetta che, quando era interpellato sul tema, ricordava sempre quel che avrebbero usato dire i nazifascisti ai loro prigionieri: «Un passo avanti gli ebrei e gli antifascisti». Come se non fosse esistito un modo di ispezione genitale per individuare gli ebrei e gli antifascisti fossero così cretini da fare un passo avanti.
Il peso delle vicende personali… E va bene, partiamo da queste, e vediamo se è possibile non finire incastrati nella contrapposizione fra emozioni opposte, fra medaglie ottenute e risarcimenti negati, e imboccare un percorso razionale anche da un simile punto di partenza.
Quando mi iscrissi all’Università di Roma nel 1964 fu per me un autentico shock trovare in calce al mio libretto universitario la firma dell’allora preside della Facoltà di Scienze, Sabato Visco. Era un nome da brividi a casa mia. Mio padre era stato primo aiuto e sostituto in ogni funzione del biologo senatore Giulio Fano. Quando questi morì improvvisamente, egli si vide piombare davanti Visco come successore del Fano. Innumerevoli racconti circolano circa l’incompetenza scientifica di costui (anche a me narrati qualche anno fa dal Nobel Emilio Segré). Ma al di là degli aneddoti c’è di oggettivo la mediocrità della sua produzione scientifica e il suo curriculum razzista a tutto tondo culminato nella funzione di Capo dell’Ufficio Razza del Minculpop. Rese impossibile la vita a mio padre, che tormentava con discorsi antisemiti che propinava dietro la sua scrivania roteando un mazzo di chiavi, fino a determinarlo a rassegnare le dimissioni, quando ancora non erano state promulgate le leggi razziali.
Vedendo quella firma mi rivolsi a Lucio Lombardo Radice e gli chiesi come un simile personaggio potesse essere preside di una facoltà così prestigiosa (e progressista). Ne ricevetti una stupefacente risposta: «Si, va bene, ma è tanto bravo a trovare denaro». Fu di certo la mia militanza comunista a farmi accontentare di una simile spiegazione. Certo, mi chiesi molte volte come un illustre scienziato (vittima delle leggi razziali) come Beniamino Segre accettasse di sedere accanto a Visco nelle sedute dell’Accademia dei Lincei. Allora Segre era presidente dell’Associazione Italia-URSS e (che cantonata!) fu proprio questa carica a farmelo apparire al disopra di ogni sospetto.
La comprensione di fatti come questi – ne potrei raccontare altri – è iniziata per me prima di ricercarla sul terreno storiografico. Essa è nata dalla progressiva constatazione dell’assoluta incomprensione del mondo comunista per la questione ebraica, al punto da indurla persino nei militanti ebrei. Non si trattava soltanto di un’incomprensione culturale, che pure esisteva: come definire altrimenti la condizione di chi dichiari apertamente che per lui il processo di “emancipazione ebraica” è un oggetto inafferrabile, di cui ignora persino l’esistenza storica? No, si trattava di qualcosa di più profondo, che aveva a che fare con un vero e proprio rigetto ideologico e psicologico. In fondo, di fronte alla vicenda Visco, da buon militante comunista, mi ero chiesto più volte se non ci fosse qualcosa di errato nei giudizi e addirittura negli atti di mio padre. Come spiegare altrimenti l’atteggiamento condiscendente di un rispettabile esponente dell’antifascismo come Lombardo Radice? Me lo chiedevo anche a causa di una domanda corrosiva che metteva in discussione la credibilità di mio padre. Era una domanda non ipotetica, che mi ero sentito rivolgere tante volte dai miei “compagni”: «Che faceva tuo padre mentre gli altri facevano la resistenza?». Ed ero costretto ad ammettere, con un sentimento di vergogna e di menomazione, che egli era stato “soltanto” un perseguitato, magari nascosto in un convento, una specie di imboscato. So bene quante facce di bronzo circolino ancor oggi che sarebbero capaci di negare che un tema caratteristico degli anni ’60 e ’70 (e oltre), sia stato quello di considerare le vittime del nazifascismo per ragioni di militanza antifascista come aventi dignità superiore alle vittime per “semplici” motivi razziali. «I primi affrontavano coscientemente la morte, mentre i secondi la subivano come pecore incoscienti inviate al macello»: una frase udita quante volte! Era un giudizio rafforzato dalla constatazione che molte di queste vittime erano “persino” fasciste…
Sarà opportuno un giorno narrare e analizzare le devastazioni prodotte da un simile modo di pensare nelle coscienze di tanti militanti comunisti ebrei, quelli che non avevano imbracciato il fucile e non si erano conquistati il diploma di eroi o vittime di prima classe.
Gli esempi di questa perversa forma di intimidazione sono sotto gli occhi di chiunque voglia tenerli aperti. Anni fa citai il caso del film All'armi siam fascisti, un documentario storico di Del Fra, Mangini e Micciché, su testo di Franco Fortini, che pure aveva destato le mie passioni di giovane militante. In quel film le immagini di Auschwitz era commentate con una sola frase: «Chi vuol comandare ha bisogno di servi. I servi avranno un contrassegno: la stella di David. L’odio di classe si traveste da odio di razza». Un puro travestimento… Insomma, lo sterminio razziale poteva rientrare negli schemi mentali di un comunista e nei parametri di ciò che è condannabile nella misura in cui era riconducibile a una manifestazione di odio di classe. Si potrebbe dare una migliore illustrazione di quanto sopra descritto?
Sì, può essere data. Ed è la storiografia a darcela. O meglio: la constatazione che la questione della politica razziale del fascismo è stata sempre sistematicamente ignorata dalla storiografia comunista che l’ha scoperta soltanto molto tardi, mentre è stato il vituperato storico “revisionista” Renzo De Felice a scoperchiare per primo la maleodorante pattumiera.
Ma su questo torneremo fra poco. In una polemica che ebbi con Micciché a proposito del detto film, questi ammise che la sinistra aveva dei cadaveri nell’armadio circa le leggi razziali, ma che anche gli ebrei avevano dei cadaveri nell’armadio, perché parecchi di loro erano stati fascisti. (Affermazione singolare che conferma perfettamente l’analisi fatta prima…). Chiediamoci a quali cadaveri nell’armadio potesse alludere Micciché. Andiamo per le spicce. La risposta sta in due momenti fondamentali della transizione fra il regime fascista e la repubblica antifascista: l’epurazione e l’amnistia. Il loro effetto veniva così descritto dal fisico Enrico Persico in lettera inviata nel 1946 al suo collega Franco Rasetti definitivamente trasferitosi all'estero: «Qui come sai abbiamo fatto la repubblica, alla quale io ho dato il mio voto, ma senza farmi troppe illusioni. Il suo primo atto è stata una pazzesca amnistia che rimette in circolazione ladri, spie fasciste, rastrellatori e torturatori, eccetto quelli le cui torture erano “particolarmente efferate” (sic). Viene proprio il rimpianto di non aver fatto, a suo tempo, il torturatore moderatamente efferato. L’epurazione, come forse saprai, si è risolta in una burletta, e fascistoni e firmatari del manifesto della razza rientrano trionfalmente nelle Università».
Una sparata superficiale e viscerale? Certo, qualche forma di riconciliazione nazionale doveva pur essere promossa. Ma quel che avvenne con l’epurazione e l’amnistia fu qualcosa di molto peggiore di quanto denunciato da Persico. Per ovvie ragioni di spazio mi limito a pochi esempi emblematici. Nel gennaio 1946 l’Accademia dei Lincei dichiara decaduti una serie di accademici compromessi col fascismo: fra questi, assieme a gerarchi fascisti come Giuseppe Bottai, Luigi Federzoni e Sabato Visco figurano alcuni accademici ebrei che erano stati cacciati nel 1938 per effetto delle leggi razziali antiebraiche… Ad esempio, Carlo Foà, Tullio Terni, Mario Camis. Le vittime, colpevoli di aver prestato il giuramento di fedeltà al regime, vengono epurate assieme ai loro persecutori. Per effetto di un simile affronto Tullio Terni si suicida. Non fa in tempo, per sua fortuna, ad assistere al lavaggio in candeggina dei suoi persecutori e, in molti casi, al loro trionfale ritorno sulle precedenti posizioni di potere. Non mi soffermo sulle modalità miserande del reintegro dei professori cacciati per motivi razziali – su posti “strapuntino” appositamente creati per loro – fino a casi tragicomici come quello di Guido Tedeschi cui non si voleva restituire il posto di professore ordinario, non avendo egli svolto (in periodo razziale…) il prescritto triennio di straordinariato.
Il tragico suicidio di Terni è l’emblema di una colossale ingiustizia, di una connivenza di stile mafioso con gli aguzzini. Può forse dirsi che non vi sia stata epurazione nel periodo post-fascista? No, di certo. C’è stata l’epurazione dei poveretti come Terni o Camis, colpevoli soltanto di aver messo la “cimicetta” e che sono morti dalla vergogna, fino al suicidio. C’è stato l’assassinio di Giovanni Gentile, fascistissimo ma uno dei pochi intellettuali che non si sporcarono con la politica razziale. Infine, c’è stata l’epurazione raccontata da Pansa, quella violenta, fuori della legalità, che mirava al fascista della porta accanto. E poi – mentre nessuno si preoccupava di abrogare le leggi razziali: come ha documentato una ricerca del Senato della Repubblica le delegificazione razziale è terminata nel 1987! – è venuta l’amnistia. L’amnistia togliattiana, rapida e generosa, soprattutto per quei ceti della classe dirigente, in particolare intellettuali, che potevano offrire la complicità e la fedeltà in cambio del lavacro dei peccati, che potevano garantire l’egemonia, soprattutto culturale, in perfetta applicazione delle prescrizioni gramsciane: conquistare le “casematte” della società.
È in questo contesto che va visto il connubio che si è verificato in “Primato”. Non si tratta certo di riesumare l’improbabile teoria secondo cui Bottai preparava qui la covata degli intellettuali atti a gestire la caduta del fascismo: Bottai è stato fascista e razzista fino in fondo. Ma la coesistenza di un così alto numero di intellettuali – fascisti, cattolici, comunisti – in questa iniziativa, ha creato il terreno atto a favorire il trasferimento in blocco di tutta la compagine sotto nuove ali e a realizzare una nuova egemonia culturale. “Primato” è stato la premessa ideologica dell’amnistia togliattiana e, al contempo, la condizione per il suo successo. Del resto, come era possibile convincere tanti personaggi, che si erano letteralmente insozzati di razzismo, a passare armi e bagagli dall’altra parte, se non offrendo in cambio un robusta cortina di silenzio? E, viceversa, come si poteva agire diversamente, quando tanti intellettuali non fascisti o addirittura antifascisti avevano accettato certi compromessi, come quello di scrivere su “Primato”, una pagina più in là di Bottai? Quando si fanno dei patti con il diavolo se ne pagano i prezzi. Certo, si poteva uscire dal fascismo in modo diverso, con un’opera di pulizia radicale, pratica e morale, per esempio facendo sì che i personaggi più compromessi nella politica razziale stessero almeno per un po’ in disparte. Si decise esattamente l’opposto.
Non è in gioco l’onorabilità dei singoli – quantomeno di quelli che non parteciparono in prima persona alla “canea di quegli anni” (per dirla con De Felice). Resta il fatto che una serie di scelte politiche della dirigenza politico-culturale dell’antifascismo (non soltanto comunista!) hanno spinto nella direzione di una falsa epurazione e di un’amnistia ingiusta, per cui se siamo qui – a tanti anni di distanza – a parlare ancora di quelle vicende è perché si è scelto di mettere in opera una straordinaria e vergognosa operazione di lavacro e di occultamento.
Ma, si dice, mettere sotto accusa “Primato” è quanto mettere sotto accusa tutta la cultura italiana, il che sarebbe ridicolo. E Duccio Trombadori stende la poderosa lista della crema della cultura italiana che scriveva su “Primato”. Ma che argomento è mai questo? Viene da dire, con Totò: ma ci faccia il piacere… Lo ha raccontato già De Felice quarant’anni fa: la cultura italiana «aderì su larghissima scala all’antisemitismo» e «pochi uomini di cultura anche tra coloro che godevano di tali posizioni di prestigio da non avere nulla da perdere, seppero mantenersi estranei alla canea di quegli anni», dando luogo a una pubblicistica antisemita «vastissima quanto mai si possa immaginare». Fecero eccezione pochissimi, tra cui Gentile: ma lui ci ha pensato un eroe partigiano ad abbatterlo, mentre ai “difensori della razza” si stendevano i tappeti del potere.
Così è stato. Tanto vasto è stato il livello di compromissione del mondo della cultura. E allora che dovremmo dire? Che, siccome la crema della cultura italiana si è macchiata di razzismo antisemita, questo non è mai esistito? O che altro diamine dovremmo dire, per non provocare l’irato fastidio di chi non vuol vedersi sbattere ancora tra i piedi questa vecchia storia? Dispiace se qualcuno si sente disturbato nella sua pennichella, ma sono passati i tempi in cui quattro insulti di stile baffuto potevano intimidire e indurre al silenzio. Poteva accadere ancora ai tempi del primo libro di De Felice. Difatti, mentre egli caratterizzava a quel modo il comportamento del mondo culturale italiano, si guardava bene dal fare troppi nomi: avrebbe dovuto pagare dei prezzi ben più alti di quelli che ha pagato, in un’università in cui ancor oggi abbondano le aule intestate a mascalzoni del regime portati tuttora sugli scudi dai loro allievi progressisti. Ancora nel 1987, il catalogo che illustrava lo spirito del progetto di esposizione E42 (“Utopia e scenario del regime”), si guardava bene dall’insistere sulla componente pesantemente razziale della mostra e presentava addirittura Visco come un nobile scienziato ispirato da un amore disinteressato per la conoscenza. E quando, nel 1998, pubblicai – assieme a Pietro Nastasi – il volume “Scienza e razza nell’Italia fascista”, alcuni canuti allievi degli accademici razzisti del tempo non mancarono di manifestare la loro ira per il reato di lesa maestà nei confronti dei loro maestri. Casi sempre più isolati, per fortuna, e per questo si è finalmente sviluppata una storiografia che ha scoperchiato i tombini e posto il problema della comprensione del drammatico fenomeno dell’adesione di massa del mondo culturale italiano – non di certo della società italiana in generale, al contrario – alle politiche razziali del fascismo.
Ma si dice che “Primato” non era una rivista razzista e che neppure Bottai lo era. Quando si ha il coraggio di accompagnare il nome di “Primato” o quello di Bottai con l’ironica virgolettatura accompagnata da punto esclamativo “ariano e antisemita” (!), è chiaro che si mira a provocare una reazione emotiva, che sarebbe sacrosanta. Ci vuole una bella dose di incoscienza provocatoria nel prodursi in simili sghignazzate, in barba a centinaia di pagine di documenti che mostrano come Bottai sia stato il campione della politica razziale, uno dei suoi più pedanti, accaniti e spietati esecutori nell’ambito culturale, e un dichiarato assertore della centralità della tematica razziale nell’ideologia del fascismo. Bottai intellettuale di prim’ordine? Certo, si accomodi – e in tal modo si qualifichi – chi vuole abbeverarsi alla fonte del fine pensatore che vedeva nella filosofia di Spinoza un prova del “pervertimento giudaico” o che concludeva il Congresso dell’Unione Matematica del 1940 proclamando: «la matematica italiana, non più monopolio di geometri d’altre razze, ritrova la genialità e la poliedricità tutta sua propria per cui furono grandi nel clima dell’unità della Patria, i Casorati, i Brioschi, i Betti, i Cremona, i Beltrami, e riprende, con la potenza della razza purificata e liberata, il suo cammino ascensionale». Se si vuole andare a braccetto di simili figuri, e proporre questo pattume come crema della cultura, ci si accomodi: vuol dire davvero che il modello politico-culturale di “Primato” per certuni è ancora attuale.
I percorsi individuali tormentati e difficili sono da considerare con rispetto: quel rispetto che le ideologie totalitarie non hanno mai avuto. Nessuno può pensare che Giovanni Spadolini non fosse persona rispettabile, soltanto perché aveva compiuto un peccato di gioventù. Peraltro, fu proprio lui a promuovere la ricerca sulla lentezza della delegificazione razziale. Piovene si macchiò di colpe ben peggiori, ma ebbe il coraggio di una radicale autocritica. È una pretesa inaudita pretendere la chiusura emotiva di una partita di quasi settant’anni fa facendo diventare bianco quel che è nero. Personalmente sono favorevole ad abbattere tutti i muri e trovo deplorevole ogni censura, anche nei confronti della pubblicazione del “Mein Kampf”, il che è però altra cosa dal presentarlo come la “Critica della Ragion pratica”. Si lasci una buona volta la possibilità di sviluppare una storiografia libera e senza reticenze, che rifugga dalle tentazioni ideologiche di una demonizzazione assoluta del fascismo – come è quella di chi vuol equiparare Mussolini a Hitler – o di un’opera di rivalutazione, magari per occultare i misfatti della transizione. Se invece si vuol continuare a dire che Gentile era un intellettuale mediocre e responsabile della politica razziale e proclamare che Bottai era un grande intellettuale che col razzismo antisemita non ebbe mai nulla a che fare – il tutto per il sordido motivo che il primo fu fascista fino in fondo e il secondo coccolò furbescamente gli antifascisti –, ebbene non ci sarà barba di aristocrazia postcomunista capace di imporre il silenzio. Giuliano Ferrara si è giustamente stufato e teme che si continui così fino al 2018: timore fondato.



Giorgio Israel

Pubblicato su Il Foglio, martedì 6 dicembre 2005

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