C’è qualcosa di straordinariamente ipocrita nelle reazioni violentissime alle famose vignette pubblicate in Danimarca sul profeta Mohammad. Un osservatore sceso da un altro pianeta crederebbe che questa sia la prima volta che qualcuno osa fare satira su temi religiosi, oppure che ciò accada raramente, ma susciti sistematicamente reazioni di sdegno corale in un mondo che è profondamente devoto. Resterebbe stupito nell’apprendere che poco tempo fa un signore è venuto a dire, nel corso di una ascoltatissima trasmissione della televisione italiana, che il crocefisso è un ripugnante cadaverino appeso, senza che nessuno scendesse per strada, senza che le autorità religiose cristiane protestassero in modo più che flebile, mentre è accaduto che molti difendessero quelli parole in nome della libertà di espressione. Che dire poi della religione ebraica? Il nostro extraterrestre, girando per emeroteche, biblioteche, librerie si troverebbe di fronte a uno sterminato campionario di ingiurie blasfeme, per lo più ad opera di quel mondo islamico che scende in piazza a protestare contro le vignette, e dei suoi alleati in Occidente. Costoro si stracciano le vesti – e promettono di stracciare i “nemici” ben più che le loro vesti (abbiamo visto in televisione troppi cartelli esaltanti Bin Laden, gli attentati alle Torri Gemelle e la sorte di Theo van Gogh) – dichiarando che quelle vignette, pubblicate in Danimarca e riprese da molti altri giornali europei, feriscono i sentimenti religiosi e il rispetto di ciò che è sacro per un musulmano. Non si mette in discussione – si dice – la legittimità della satira politica: quel che è inaccettabile è ferire i sentimenti religiosi dell’Islam, profanare ciò che per l’Islam è più sacro. A chi ha osservato che in tanti paesi islamici viene condotta una forsennata campagna razzista antiebraica è stato replicato ancora una volta che trattasi soltanto di satira politica, che riguarda gli israeliani, tutt’al più gli ebrei, e non la religione ebraica.
Un piccolo florilegio di esempi – per lo più tratto dal volume di Joël e Dan Kotek, Au nom de l’antisionisme, Paris, Complexe, 2003 – permette di vedere quanto sia falsa questa dichiarazione di innocenza. Molti altri esempi si potrebbero dare, ma ci limitiamo ad pochi significativi, che – se tanto dà tanto – avrebbero dovuto suscitare un’ondata di proteste e di sdegno almeno paragonabile a quella cui stiamo assistendo.
Che cosa sia la Bibbia ebraica lo spiegava la vignetta di un quotidiano del Kuwait: sembra un libro, ma è soltanto un contenitore di pugnali, bombe e pistole. Che si tratti della Bibbia ebraica viene ricordato ai distratti apponendo sulla copertina sia il candelabro a sette braccia che la stella di David.
Un giornale libanese riservava una sorte analoga al Talmud, che appare soltanto come il contenitore di un fucile con cui un cecchino nascosto trucida un povero palestinese.
Che i testi sacri ebraici siano un oggetto diabolico è tema ricorrente, come si vede da un'altra vignetta pubblicata in Egitto nel 1992, in cui il forcone del diavolo è il candelabro a sette braccia (la Menorah) cui è appesa la Bibbia.
Non sono dissacranti e blasfeme nei confronti dell’ebraismo simili “satire”? Che dire allora della vignetta pubblicata da Al Ahram Weekly on line (Al Ahram è il massimo quotidiano governativo in Egitto) in cui il razzismo viene addirittura indicato come il contenuto delle tavole della legge? Un rabbino mostra difatti la scritta razzismo incisa sulle tavole di pietra.
Un’ampia casistica di offese alla religione ebraica e ai suoi testi può essere trovata nei manuali scolastici palestinesi, lautamente finanziati con i fondi dell’Unione Europea: anche qui ci limitiamo all’aspetto strettamente religioso. (Consigliamo in merito la lettura del libro di Y. Manor, Les manuels scolaires palestiniens, Une génération sacrifiée, Paris, Berg, 2003). Vi si parla del Talmud come di un libro di odio e di sangue, di cui si riportano brani inventati che appaiono tratti di peso dai Protocolli dei Savi di Sion. «Coloro che non sono ebrei, sono porci cui Dio ha dato forma umana in modo da farli servire gli ebrei» (“Storia degli Arabi e del mondo moderno”, livello 12, ANP, Ramallah). Ma non soltanto il Talmud, bensì anche la Torah sarebbe un manuale che insegna agli ebrei come meglio odiare e sterminare i loro avversari (Ibidem). In molti di questi testi si ripropone agli allievi il quesito di come gli ebrei ritengono di “spegnere la luce di Allah” e si “dimostra” che gli ebrei erano addirittura nemici dei profeti e di Dio. Inoltre, la tematica del deicidio è ripresa in “Educazione Islamica” (livello 4, seconda parte, ANP, Ramallah), dove si afferma che Allah inviò Gesù come Messaggero, gli ebrei cercarono di ucciderlo, ma Allah lo salvò…
Non si vorrà certo dire che il tema del deicidio non sia particolarmente offensivo e atroce per gli ebrei: esso è alle radici di una persecuzione bimillenaria nei loro confronti basata su una tematica teologica. Ebbene, quel tema è un luogo comune della campagna antiebraica nel mondo islamico, e ha trovato ampia eco nella satira occidentale, e di certo non si tratta di satira politica: perché mai altrimenti tirare in ballo l’uccisione di Gesù Cristo? Gli esempi sono tanti che non si sa da dove iniziare. Ci limitiamo a pochi casi emblematici.
La vignetta palestinese di Al-Istiqlal è talmente efferata da non aver bisogno di commenti.
La vicenda dell’occupazione della Chiesa della Natività a Betlemme ha dato la stura a “satire” del genere. Una vignetta di Arabia.com del 7 aprile 2002 presenta quello che è ormai un classico – il soldato israeliano che trucida di nuovo Gesù – e che è stato ripresentato in tutte le salse e infinite volte, per esempio dal nostro Forattini (anzi, visto che la vignetta di Forattini è apparsa il 3 aprile si potrebbe ritenere che sia servita di modello).
E ancora negli stessi giorni, il 6 aprile, con scarsa fantasia un giornale fiammingo pubblica una vignetta analoga: i Palestinesi barricati nella chiesa della Natività dicono di trovarsi bene là dentro e Cristo risponde: «Non mi parlate degli ebrei» (come se lui non lo fosse stato: ignoranti, oltre che blasfemi).
Potemmo continuare a lungo sulla sterminata vignettistica antiebraica e ferocemente offensiva della religione che dilaga nei paesi islamici. Ci limiteremo invece a due soli esempi tratti dalla satira europea filopalestinese.
Il primo esempio riguarda il dileggio feroce del precetto ebraico di nutrirsi secondo i principi della kasherut. In una vignetta di Libération del 2001, Arafat osserva i corpi squartati esposti dal macellaio Sharon e commenta: «Non è neppure kasher». Si tratta peraltro di una vignetta che ne copia, anche qui con scarsa fantasia, una francese degli anni quaranta, dovuta a Ralph Soupault, un comunista seguace di una corrente di antisemitismo sociale.
La vignetta di Web.matin.com del 2001 si riferisce alle proteste legate al tentativo di mettere sotto accusa in Belgio Sharon per crimini di guerra. Essa recita: «Il Belgio è divenuto un nemico. Giudicare un macellaio non ha nulla a che vedere con l’antisemitismo». E, per darne una prova, il vignettista fa ben più che dell’antisemitismo: scantona sul terreno religioso e dileggia la pratica ebraica della circoncisione…
Ancor più volgare è la vignetta di Cuore che ripropone la solita efferata leggenda dei quattromila impiegati ebrei che sarebbero stati assenti dalle Torri Gemelle il giorno in cui furono abbattute, a riprova che si sarebbe trattato di una congiura ebraica. Cosa dicono gli ebrei rappresentati nel solito modo caratteristico della vignettistica antisemita da che mondo è mondo? Non siamo andati al lavoro perché “si doveva circoncidere il pupo”… E il commento è: «Circoincidenze, eh?».
A questo punto, pochi commenti finali. Non saremo certamente noi a giustificare un simile genere di satira. Ma è un conto è condannarla, combatterla, persino procedere contro di essa per vie legali, altra cosa è chiedere la limitazione della libertà di stampa. Malgrado il carattere efferato di molte di quelle vignette “satiriche” e il loro evidente carattere blasfemo per un ebreo credente, vi sono state proteste, anche energiche, ma nessuno si è sognato di mettere in atto iniziative di questo tipo: chiedere conto e scuse al Presidente della Repubblica Italiana delle vignette dei giornali italiani; chiedere conto e scuse ai Presidenti greci o danesi delle vignette sui loro giornali; invitare i proprietari dei giornali a cacciare i loro direttori; assaltare le ambasciate dei paesi arabi e islamici in Europa o negli Stati Uniti; chiedere scuse ufficiali a tutti i Presidenti o capi politici dei paesi arabi o islamici in cui sono state pubblicate quelle vignette; chiedere scuse ufficiali da parte della Lega Araba; chiedere scuse ufficiali a tutte le autorità religiose del mondo islamico o la recitazione di un “mea culpa”. Eppure, nel caso del mondo islamico, simili richieste avrebbero avuto fondamento, perché è difficile negare che la stampa, in molti di quei paesi, sia sottoposta a uno stretto controllo di regime, o addirittura dica ciò che il regime vuole.
Ebbene, tutto ciò non è avvenuto, e le proteste hanno distinto i ruoli e gli ambiti, in ossequio a una visione liberale e sulla base dei principi più elementari della convivenza democratica. È lecito deplorare un vignettista o un umorista, è possibile querelarlo, è più che ragionevole chiedere che si scusi, ma il principio della libertà di opinione e della indipendenza dei poteri e della libertà della stampa è intangibile. In Francia, l’umorista Dieudonné, autore di tirate antisemite di violenza inaudita, è al centro di aspre polemiche e di denunce, ma nessuno si è sognato di chiedere al Presidente Chirac di presentare le scuse per l’esistenza di questo individuo. Il giorno in cui venisse accettato il principio che il potere esecutivo può intervenire sull’esercizio della stampa e sulle libertà fondamentali, sarebbe la morte della democrazia liberale, che è una delle più grandi conquiste dell’Occidente.
Dispiace constatare che, nelle discussioni di questi giorni si stia facendo strada una confusione inaccettabile da parte di parecchie autorità religiose. Sembra che la difesa del principio della libertà di stampa e secondo cui l’esecutivo non può avere il diritto di limitare le libertà, implichi l’accettazione del contenuto delle vignette, la complicità nei confronti di chi dileggia la religione. Un simile atteggiamento dimostra insensibilità nei confronti del valore dei principi dello stato liberale e da adito all’accusa di non capire che la messa in discussione di questi principi implica una visione teocratica dello stato, la stessa che vediamo all’opera in certi paesi islamici con esiti tragici.
Dispiace constatare che, a livello politico, siano state fatte dichiarazioni che non hanno alcun senso se non quello del tentativo di placare e compiacere per mere ragioni di opportunità. Il Dipartimento di Stato americano ha emesso una condanna delle vignette del tutto condivisibile in quanto al loro contenuto, ma che non si capisce come possa promanare da un’autorità istituzionale, soprattutto in un paese in cui la satira anche più dissacrante non ha mai conosciuto limiti, se non quelli dell’azione legale a posteriori.
Le reazioni caotiche e contraddittorie che si stanno manifestando in Occidente, scompongono i fronti e creano schieramenti inediti. La ragione di questa grande confusione sono state bene spiegate da André Glucksmann: la religiosità non c’entra nulla o almeno non dovrebbe entrarci: “ci sono religiosi tolleranti, e atei che muoiono di paura, pronti a piegarsi di fronte al ricatto”. E, come ha detto Glucksmann, quel che molti non capiscono o fanno finta di non capire – per paura o per l’errato calcolo di poter così difendere meglio la propria religiosità – è che “se cediamo si introduce la sharìa in Europa”. Quelle autorità religiose, cristiane ed ebraiche, che credono di poter restaurare un maggior rispetto per le loro religioni, e per la religione in generale, accodandosi all’offensiva islamica, cadono in un trabocchetto e compiono un tragico errore. Essi dimenticano che l’Islam integralista non ha alcuna intenzione di difendere la libertà religiosa, tantomeno quella delle altre fedi religiose, bensì soltanto l’intangibilità e la supremazia della propria. Essi trascurano che non è così che si difende l’Islam tollerante, poiché gli islamici “tolleranti” che si accodano a questa offensiva lo sono a parole, e sono in realtà dei campioni del doppio linguaggio.
Per quanto riguarda i musulmani che vivono fuori o dentro l’Occidente occorrerebbe ricordare due cose.
La prima è che non si ha il diritto morale di scatenare una campagna di queste dimensioni contro una satira ritenuta offensiva, quando non soltanto non si dice una parola contro la satira violentemente blasfema e offensiva nei confronti di altre religioni, come quella ebraica, che dilaga nel mondo islamico; ma addirittura la si giustifica. Chi si impanca a chiedere scuse ai governi, e addirittura al Papa, e si straccia le vesti per i sentimenti offesi dovrebbe, in primo luogo, per rendersi minimamente credibile, deplorare espressioni come quelle contenute negli esempi che abbiamo dato sopra. Al contrario, esse vengono comunemente giustificate come legittime espressioni della sofferenza del popolo palestinese per la “criminalità” ebraico-israeliana. Pertanto, una campagna che si accompagna alla giustificazione di analoghi atti offensivi compiuti contro altre religioni è la prova di quanto dicevamo sopra: e cioè di un’intenzione integralista e di una volontà di sopraffazione.
La seconda è che in Occidente si vive sulla base dei principi sopra ricordati, e che il rispetto a questi principi è dovuto quanto è lecito difendere con i mezzi offerti dalla legge il rispetto dei propri sentimenti. Fare causa a chi si ritiene ci abbia offeso è legittimo – naturalmente ricorrendo alla magistratura e non emettendo fatwe o incitando al delitto –, chiedere interventi dei governi a limitazione della libertà di stampa, assaltare ambasciate o ritirare gli ambasciatori è una vergogna.
Noi che viviamo in Occidente dobbiamo fare alcune riflessioni. Quel che sta accadendo è l’ennesima prova di una dichiarazione di guerra, “guerra di civiltà”. Una cosa odiosa, la “guerra di civiltà”, ma ancora una volta dobbiamo chiederci chi la stia dichiarando e conducendo. Ha ragione Magdi Allam: siamo a un tornante decisivo. Se si cede sui principi fondanti della democrazia liberale, è finita. È già troppo che delle autorità istituzionali abbiano chiesto scusa. È indecente che un finanziere franco-egiziano abbia licenziato il direttore di un giornale. Dobbiamo chiederci cosa abbiano in mente i numerosi musulmani residenti in Europa che, in questi giorni, si spendono a giustificare e difendere questa campagna. Fanno così perché non hanno capito e assimilato i principi fondanti delle nostre democrazia? In tal caso, dovremmo stimolarli fermamente a cercare di comprenderli, assimilarli e rispettarli. Tanti immigrati – come fu il caso della mia famiglia – sono venuti in Europa perché erano attratti dai suoi ideali e dai suoi principi di vita, ne sono divenuti fautori ed hanno seguito le sue leggi scrupolosamente. Altrimenti, avrebbero potuto, e dovuto, restare dov’erano. Se, invece, costoro agiscono così perché hanno capito benissimo qual è la posta in gioco, e pertanto parlano con un doppio linguaggio – cioè vogliono vedere fino a che punto le nostre società sono capaci di difendere i principi su cui sono fondate, e provocare un cedimento che le spinga parecchi gradini in basso, verso il loro disfacimento e il loro asservimento – allora il discorso cambia. Perché saremmo allora al tornante decisivo di cui parla Magdi Allam. E che può essere l’inizio di una disgregazione senza rimedio, soprattutto se il mondo religioso occidentale confonde la difesa della propria causa e della lotta contro l’irreligiosità e il relativismo morale con la lotta contro le vignette, e contribuisce così a distruggere le basi della società in cui vive accodandosi, magari senza neppure rendersene conto, a una deriva integralista. Se questi impulsi suicidi non prevalgono, potremmo sperare di trovarci di fronte al manifestarsi dell’errore tipico di tutte le ideologie totalitarie: le quali alla fine hanno sempre fallito per eccesso di presunzione e di prepotenza.
Giorgio Israel
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