A me è stato insegnato che se, percorrendo una traccia in montagna, si finisce sul ciglio di un burrone è meglio tornare indietro. Pertanto, non trovo scandaloso che il ministro Fioroni, trovandosi invischiato nel pantano creato da quei baggiani che danno da credere che possa esistere una scienza oggettiva della valutazione (docimologia) sul modello delle scienze fisico-matematiche, voglia ripristinare in qualche forma gli esami di riparazione autunnali. Dispiace che Valentina Aprea cada vittima del fascino discreto dell’“avanti!” a tutti i costi, e dica che «è la prima volta nella storia che si sperimenta non un’innovazione ma una restaurazione». Ma quando mai? Dopo il 1968, in Francia, la leadership della matematica cavalcò l’ondata rinnovatrice proponendo una radicale riforma dell’insegnamento della matematica: “Abbasso Euclide!” fu il proclama, via la vecchia geometria per far spazio alle “mathématiques modernes”, formali e astratte. La rivoluzione vinse ma dopo alcuni anni ci si rese conto del disastro: ragazzi che conoscevano gli elementi della teoria degli insiemi e dei gruppi non erano in grado di risolvere un’equazione algebrica di primo grado. E allora, indietro tutta, per rimettere sugli scudi il vecchio Euclide. Per giunta, pochi mesi fa, rendendosi conto che non bastava, si è deciso di introdurre il calcolo numerico mentale negli asili, fra le proteste dei sindacati.
Eppure, in Francia, il malcontento è forte, perché nelle pieghe di questi cambiamenti si sono insinuati i pedagogisti “progressisti”, come ha denunciato vivacemente il matematico Laurent Lafforgue, che interverrà al prossimo Meeting di Rimini. Egli ha denunciato le «politiche ispirate da un’ideologia che non attribuisce valore al sapere», bensì «a teorie pedagogiche deliranti», alla «teoria dell’allievo “al centro del sistema” e che deve “costruire lui stesso i suoi saperi”».
Da noi però tutti sono soggetti al fascino discreto del pedagogismo progressista. Testardamente continuiamo ad affidarci agli stessi medici che hanno condotto al disastro, seguendo il principio: se 3 grammi di antibiotico non producono miglioramenti prendine 6, se la febbre aumenta prendine 12, se aumenta ancora prendine 24, e così via. Molto razionale.
Questo antibiotico, questi medici sono gli pseudoscienziati della pedagogia, della valutazione “oggettiva” e della “didattica” – termine infelice che andrebbe abolito per decreto per “restaurare” quello di “insegnamento”; i quali, se producono guasti in Francia, in Italia pare che siano una casta di intoccabili di cui nessuna formazione politica riesce a fare a meno. È deprimente quindi che ai propositi di Fioroni – accusato di aver interrotto «misure virtuose di recupero» – si risponda a colpi di Larsa (Laboratori di recupero, sviluppo e apprendimento) e di valutazioni dell’Invalsi da sovrapporre a quelle dei professori interni. Qui, da trent’anni, di virtuoso si vede ben poco e si rischia di finire direttamente nel burrone continuando a incaponirsi negli stessi errori: svilire ulteriormente la figura dell’insegnante, ridotto a passacarte delle prescrizioni dei “didatti” e soggetto alla supervalutazione dei docimologi (che chissà perché valuterebbero meglio); continuare con l’ossessione dei “laboratori”, altro termine di cui andrebbe proscritto l’uso, salvo che in fisica, in chimica e in biologia, perché riflette la nefasta visione della scuola come terreno di sperimentazione delle teorie degli scienziati del nulla anziché come luogo in cui si apprende.
E poi vi è l’idea, di stampo sovietico, secondo cui la scuola deve garantire a tutti lo stesso risultato. In pochi riescono a sottrarsi al mantra “de sinistra” per cui, se uno dice a uno studente che il suo rendimento è insufficiente, è un «fallimento della scuola» e che se uno è ignorante a giugno e preparato a settembre è la «certificazione dell’inutilità della scuola». Non passa neppure per la testa di questi pozzi di sapienza che esistono anche i nullafacenti che, nell’assenza totale di sanzioni, possono fare impunemente quel più gli garba, tanto vanno avanti lo stesso (il che induce i volenterosi a chiedersi: «Ma chi me lo fa fare di studiare?»). Nessuna soluzione sensata può trascurare l’esistenza dei nullafacenti e i modi efficaci di sanzionarli. Altrimenti, ci si risparmino i discorsi sul valore del merito, pilastro della società, “vinca il migliore” e altri fumi di retorica.
Ma soprattutto: c’è davvero qualcuno che pensa seriamente che la catastrofe in cui si trova il sistema scolastico italiano si possa risolvere con tecniche di gestione, col managerialismo, cianciando l’insensata formula della “scuola come impresa”, senza mai parlare di contenuti, e delegandone la definizione alla corporazione degli scienziati del nulla? In Italia, un autentico dibattito sui contenuti dell’insegnamento non c’è da decenni, salvo ripetere che bisognava sostituire la riforma di Gentile, una delle migliori riforme scolastiche del Novecento, come riconoscono quasi tutti, sottovoce per non farsi sbertucciare dal pedagogismo progressista. Certo, qualcosa occorreva pur cambiare, salvo che affidare questo compito a personaggi di dubbie capacità.
Veniamo al caso della matematica che ha occupato le prime pagine dei giornali. La stragrande maggioranza dei matematici italiani professa un supremo disprezzo per la didattica della matematica, di cui sopprimerebbe senza rimpianti il settore disciplinare universitario. Eppure, ha preferito, pur di non farsi distrarre dagli interessi e dalle ricerche preferiti, delegare ai “didatti” il compito ingrato di occuparsi dei progetti di riforma che si succedono da un trentennio. Poi, ogni tanto, c’è qualcuno che salta su inorridito. Ricordo un collega che si levò scandalizzato per lamentare che i suoi figli, al termine del liceo, non sapevano quasi far di conto e chiedere come si era potuti giungere a tanto. O quei colleghi che, dopo aver udito da un mio intervento come venivano introdotti certi concetti geometrici nella scuola, si guardarono stupefatti chiedendosi: «Come è potuto succedere tutto questo, perché la nostra comunità non ne ha mai discusso e dove eravamo?». Già, cari colleghi, dove eravamo?
Da noi non ha corso lo stile ghigliottinesco della Francia. Così, da trent’anni un’orda di metodiche e silenziose termiti demolisce pezzo a pezzo un sistema di insegnamento della matematica che, oltre ai difetti, aveva indiscutibili pregi. Gentile o non Gentile, era un sistema cui aveva contribuito un grande matematico e filosofo come Federigo Enriques, i cui testi scolastici hanno formato generazioni di italiani. La storia di questa demolizione non è roba da poche pagine – ne dirò qualcosa in un libro in preparazione – ma chiunque può ricostruirla leggendo i programmi di riforma dagli anni ’80 in poi. Non è senza un brivido che si rileggono oggi i sinistri propositi enunciati nel DPR del 1985. L’insegnamento della matematica – si diceva – richiede l’acquisizione di concetti e strutture astratte ma «la vasta esperienza compiuta ha dimostrato che non è possibile giungere all’astrazione matematica senza percorrere un lungo itinerario che collega l’osservazione della realtà, l’attività di matematizzazione, la risoluzione dei problemi, la conquista dei primi livelli di formalizzazione. La più recente ricerca didattica, attraverso un’attenta analisi dei processi cognitivi in cui si articola l’apprendimento della matematica, ne ha rilevato la grande complessità, la gradualità di crescita e linee di sviluppo non univoche». Gli scienziati del nulla, dopo aver vantato le loro “ricerche” e aver enunciato una serie di sciocchezze (ma chi può dire seriamente che la matematica derivi dall’osservazione della realtà?) e di parole vuote (che senso ha parlare genericamente di attività di matematizzazione?), annunciano una sensazionale scoperta: il processo che va dall’osservazione della realtà alle prime formalizzazioni è lungo, molto lungo e l’apprendimento della matematica – pensate un po’ – è “complesso”, cresce in modo “graduale” e – bel problema – non è “univoco”. Insomma, per arrivare dalla vista di una pietra a un’equazione bisogna aspettare tanto e poi tanto, andarci piano e seguire percorsi differenziati (una scuola a testa?). Il guaio è che questa pensata (che, per lo sforzo, sarà costata la calvizie ai suoi autori) è stata presa sul serio: dopo trent’anni stiamo ancora qui, fermi all’inizio del “lungo itinerario”. Sembrava ragionevole fare un passo oltre Euclide e acquisire almeno la geometria cartesiana. Invece, abbiamo ricominciato daccapo da Aristotele e dopo trent’anni siamo ancora fermi lì. E non crediate che lo dica per scherzo.
Che le termiti del pedagogismo democratico abbiamo lavorato a fondo, lo compresi il giorno in cui udii una maestra di scuola materna mostrare trionfante lo scarabocchio di un bambino: «Guardi come emerge la corporeità spaziale, come si esprime la topologia del sopra e del sotto, del davanti e del dietro». Non osai dire che la topologia non c’entrava un fico secco, tanto poco appariva intimidita dalla presenza di un professore di matematica: da qualche parte doveva aver tratto la sicumera per fare un uso di quel termine di cui non capiva un acca. Incuriosito, ho constatato il dilagare delle idiozie sulla topologia e la spazialità fin dalla scuola materna: il marcio inizia dalla base e per questo è devastante. Quando mio figlio mi disse che aveva avuto la prima lezione di geografia (in prima elementare) credetti che gli avessero messo davanti un mappamondo. Che ingenuità! Non sapevo che l’umanità era uscita dalle caverne. Gli avevano chiesto di disegnare quel che vedeva dalla finestra: disegnò il muro della mensa. Poi, gli proposero la figura di un piatto con una mela da cui usciva un verme. Doveva dire se il verme era dentro o fuori la mela, la mela sopra o sotto il piatto, ecc. Ma che c’entra con la geografia? direte. Non siate trogloditi! Studiare geografia significa assimilare la “spazialità”, capire il sotto e il sopra, il dentro e il fuori – così come studiare la storia significa assimilare la temporalità, e non parlare degli antichi Romani, come si faceva ai tempi di Checco e Nina. Sono cose difficili che richiedono un lungo approfondimento: il tormentone dura per quasi tutte le elementari e quando si parlerà di geografia in senso tradizionale sarà per definire in termini generali cos’è un deserto o una tundra. Così la geometria ha invaso la geografia e l’ha svuotata di concretezza. In cambio, la geometria è stata svuotata di astrazione e ridotta a esperienza concreta della spazialità: proprio quel livello in cui non è pensabile la matematica… Dicono i programmi che ci si introduce allo studio della geometria apprendendo che cos’è la «collocazione di oggetti in un ambiente, avendo come riferimento se stessi, persone, oggetti». Ma definire la spazialità mediante la collocazione di oggetti è coerente, più che con la nozione moderna di spazio, con quella di “luogo” aristotelico in cui lo spazio è soltanto l’aggregato di corpi materiali. L’insistenza sull’esplorazione soggettiva della spazialità potrebbe far pensare che i nostri teorici siano fenomenologi husserliani. Troppo onore. Husserl avrebbe spiegato loro che, per tale via, non si arriva mai alla concezione dello spazio come un contenitore vuoto definito indipendentemente da ogni presenza soggettiva, che è caratteristica della matematica moderna.
È istruttivo leggere la definizione che si da della matematica nelle “pagelle” delle elementari – ma c’è bisogno di definire una materia in una pagella? – in conformità ai programmi ministeriali. Nella scuola primaria la matematica consiste nell’«osservare oggetti e fenomeni e individuare grandezze misurabili, effettuare misure con strumenti elementari e classificare oggetti in base a una proprietà, raccogliere dati e informazioni e saperli organizzare». Tutte cose che con la matematica non c’entrano un fico secco, neanche in un’ipotetica fase intuitiva preliminare e che, casomai, definiscono l’oggetto della fisica. Come può funzionare una scuola in cui chi definisce materie e programmi ha un’idea della matematica che lo rende meritevole di un cappello d’asino?
È dalle elementari che inizia il disastro. Il resto è un corollario: migliaia di studenti fermi sul “lungo itinerario”, mentre avrebbero potuto – senza concedere nulla ai furori delle “mathématiques modernes” – accedere rapidamente all’astrazione e al calcolo come decine di generazioni prima di loro. Dicono che i bambini hanno bisogno di concretezza e, per insegnargli a contare, li bombardano di insiemi di mele e fiori. Ma chi abbia visto un bambino in vita sua sa con quanta facilità possa passare dal contare con gli oggetti al calcolo mentale e quanto ciò lo diverta. Posto di fronte al compito di aggiungere 2 a 2 e così via, costruendo la successione 2, 4, 6, 8, … mio figlio si arrestava a 20. «Perché mai?» ho chiesto. «Perché, la maestra ha detto che, in prima, oltre al 20 non si va». Difatti, “studiavano” soltanto due o tre numeri al mese… L’ho invitato a infischiarsene e allora non finiva più, anzi ha posto una bella domanda: «Esistono “tutti” i numeri?». Fate la prova e vedrete se per un bambino qualsiasi sia più gratificante cincischiare per anni sul “sotto” e il “sopra” o mostrare di conoscere la tavola pitagorica.
Secondo Giulio Giorello la colpa è di coloro che nei talk show si vantano di non saper contare. È vero che si tratta di uno snobismo stucchevole, ma che dire di quei fessi che fanno credere che si possano scrivere le equazioni dell’amore o calcolare gli indici di felicità? Dice Giorello che bisogna rendere la matematica più appetibile non riducendola a un’arida sequenza di teoremi. S’informi dei programmi. Più terra terra di così… Del resto, i pedagogisti democratici ci hanno pensato a rendere la matematica appetibile seconda la formula zapaterista della “matematica del cittadino”. Nella riforma del 2004 è dato leggere la seguente impagabile prosa: «Un obbiettivo specifico di apprendimento di matematica è, e deve essere sempre, allo stesso tempo, non solo ricco di risonanze di natura linguistica, storica, espressiva, estetica, motoria, sociale, morale e religiosa, ma anche lievitare comportamenti personali adeguati alla Convivenza civile». Scusate la rozzezza, ma che vuol dire? Che, d’ora in poi, mentre si risolve un’equazione differenziale si deve far ginnastica, pregare o pagare le tasse, e viceversa? Intanto i prodotti di queste trombonate sono persone che conoscono soltanto la matematica che serve a supplire all’italiano che non conoscono: + al posto di “più” e x al posto di “per”.
Secondo Odifreddi, la colpa è, manco a dirlo, della Chiesa. Dovrebbe chiedersi se non sia anche colpa sua, quando lascia credere che la matematica serva a distruggere la religione e il capitalismo e, a tal fine, propala di tutto. Come quando scrisse che von Neumann aveva formulato un modello matematico per massimizzare il numero dei morti a Hiroshima. Gli contestai che era una panzana e mi rispose di averla presa da un libro e che, se era una balla, non era colpa sua, le fonti c’erano: esempio preclaro di rigore scientifico. Odifreddi ha molti seguaci ma molti altri dicono che se la matematica conduce a quel modo di pensare allora è una disciplina odiosa. Da qualunque parte lo si guardi il risultato è pessimo. E sbagliano quei matematici che chiudono un occhio perché credono che l’importante sia che si faccia pubblicità alla matematica, non importa come.
Lasciamo perdere gli snob dei talk show, la Chiesa e i nemici della scienza in agguato e guardiamo alle vere responsabilità: in primo luogo a quelle di chi da trent’anni sta demolendo il sistema dell’istruzione per “sperimentare” teorie pedagogiche sgangherate. Senza dimenticare le responsabilità di chi fa una divulgazione strumentale a tesi politiche e di chi crede di risolvere il disastro facendo marketing presso i giovani a suon di feste e festival in cui si contrabbanda lo studio come divertimento. Infine, è il momento che la comunità matematica dimostri di esistere e di sapersi ricollegare alle sue migliori tradizioni.
Giorgio Israel
(Il Foglio, 4 agosto 2007).
11 commenti:
da qualche parte doveva aver tratto la sicumera per fare un uso di quel termine di cui non capiva un acca
Un'acca, con l'apostrofo (ma al Foglio non avete correttori di bozze?)
E va bene, è un refuso... Anzi, se vuol proprio saperlo, è un mio errore di battitura al computer, visto che i correttori di bozze del Foglio (che non mi appartiene: che vuol dire "non avete"?) l'hanno corretto, come è facile constatare sul relativo sito.
Ma questo è il suo unico commento all'articolo? Stiamo messi bene...
Più che un commento, una semplice segnalazione, scritta senza astio e tranquillamente cancellabile dopo aver corretto il testo.
Commenti particolari sul contenuto dell'articolo non ne ho: sottoscrivo la preoccupazione per i guasti che una cattiva didattica può arrecare, ma avendo solo una conoscenza solo superficiale della didattica della matematica non mi permetto di entrare nello specifico.
Aggiungo, per completezza, che ho studiato (elementari, medie e superiori) in Svizzera, per la precisione in Ticino, e ho avuto a che fare, alle elementari, con "insiemi di mele e fiori" e grafici di Eulero-Venn, ma ho anche imparato a risolvere le equazioni di primo grado...
Grazie.
Sono stato intervistato dalla televisione svizzera in lingua italiana un paio di settimane fa, in relazione a questo articolo, e il giornalista (di Lugano) mi ha detto che anche là si stanno ponendo gli stessi problemi, in particolare per il diffondersi dell'idea secondo cui l'apprendimento deve essere un percorso individuale senza alcun criterio uniforme. Ai suoi figli - diceva - vengono posti ventagli di problemi di matematica tra cui scegliere secondo il proprio gusto. E forse, di questo passo, molti non sapranno più risolvere le equazioni di primo grado...
Sono un'insegnante di matematica in un istituto professionale della periferia milanese. Concordo su tutto. Da dove partiamo?
Due piccole postille che possono ulteriormente chiarire quanto sia giusta e sacrosanta l’affermazione che con l’abolizione degli esami di riparazione ci si è spinti sull’orlo di un baratro.
1. Davanti a un alunno che non ha raggiunto gli obiettivi minimi (fuori dal pedagoghese, a un voto inferiore al 6), la scuola è OBBLIGATA ad attivare interventi di recupero. Ciò vuol dire che se l’alunno Pierino ha una serie di 3 perché per tutto l’anno, invece di andare a scuola, è andato giocare a biliardo, l’alunno Pierino ha DIRITTO a partecipare a una serie di corsi di recupero attivati fuori orario scolastico a SPESE DEL CONTRIBUENTE. Altrimenti, se lo bocciano, ricorrerà e gli daranno ragione; non solo: dirigente scolastico e docenti possono essere sanzionati.
2. Negli scrutini finali, l’alunno va promosso a meno che non abbia fatto registrare gravi lacune rispetto agli obiettivi minimi (fuori dal pedagoghese, 4 o meno) in un rilevante numero di materie. Ma l’alunno, per essere promosso, deve aver conseguito la sufficienza in tutte le materie. Di conseguenza, se l’alunno Pierino ha uno o due 5, poniamo in matematica e latino, questi saranno AUTOMATICAMENTE trasformati in 6 (cosiddetto “6 rosso”). Il calcolo dei crediti scolastici, però, non tiene conto del “colore” del 6, quindi l’alunno Pierino, che non ha studiato matematica e latino perché non gli andava, avrà lo stesso credito dell’alunno Ciccillo che non è un genio ma i 6 se li è sudati studiando tutto l’anno; anzi, se magari fa parte della squadra di pallavolo o di calcetto e ha 9 in educazione fisica, avrà un credito più alto.
Entrambi questi dati di fatto si verificano ormai da tre lustri senza che professori o presidi possano farci nulla, perché si tratta di disposizioni di legge, che nessun governo di sinistra o di destra a pensato, sino a ieri, di modificare. Non solo, ma su di essi vige il più assoluto silenzio stampa: qualcuno ne ha mai sentito parlare entro qualsiasi servizio giornalistico o televisivo che si interroga ansiosamente sul perché la scuola non riesce più a trasmettere cultura e formare ai principi etici?
I Suoi articoli sono sempre molto interessanti e, per quel che capisco, concordo.
Pensi che glirni fa ho raccontato alla classe la storia di Von Neumann che probabilmente avevo letto proprio su un articolo di Odifreddi! Mannaggia a lui (e a me che non controllo le fonti)!
Sono laureato e specializzato in informatica ma ho insegnato anche matematica e mi specializzarò, se tutto andrà bene. Oggi, stanco di insegnare sistemi informatici, mi sono preso una pausa e ho parlato un po' di funzioni, equazioni e linguaggi formali :D
Forse in futuro insegnerò ancora matematica. Se capiterà, spero di essere all'altezza. Le chiederò qualche consiglio :-) :D
Saluti.
PS: Magari ci fossero più persone come Lei in Italia (e non lo dico per fare il lecchino).
Mi piacerebbe capire meglio una frase del suo articolo: "chi può dire seriamente che la matematica derivi dall’osservazione della realtà?". Da dove deriva, secondo lei?
Sono un'insegnante di matematica della scuola secondaria di II grado, e tento continuamente di far vedere ai ragazzi quanta matematica ci sia nella realta' (in cucina, per esempio, citando un bel libro), per rispondere alla loro perpetua domanda "a cosa ci serve quello che stiamo studiando?".
Iolanda Nagliati
Qui non si dice che la matematica non "serva" nello studio della realtà e che non esistano moltissime brillanti e affascinanti applicazioni della matematica, per ragioni che più d'uno ha definito misteriose (Wigner, "L'irragionevole efficacia della matematica"). E penso che lei faccia benissimo a far vedere quanta matematica possa intervenire nello studio dei fatti reali. Ma tutt'altra cosa è dire che la matematica DERIVI dall'osservazione della realtà. Questo è completamente falso. Diceva Poincaré che la differenza tra fisica e matematica è che la prima si basa sull'induzione fisica, ovvero sulla permanenza delle leggi naturali, mentre l'induzione matematica implica un'idea di permanenza delle leggi del pensiero. La matematica è una forma di conoscenza deduttiva e che appartiene essenzialmente alla sfera del pensiero. Può dirsi seriamente che la teoria dei numeri (concetti come quello di numero primo) derivino dall'osservazione della realtà? Analogamente per l'algebra. Ma anche i concetti della geometria non sono riducibili a fatti concreti: sono, casomai, come diceva Kant concetti sintetici a priori, ovvero forme a priori dell'intuizione dello spazio fisico, ma non concetti empirici.
Il discorso è lungo e complesso. Ne ho parlato in un libro che sta per uscire "Chi sono i nemici della scienza?" (Lindau) che contiene molte parti dedicate all'insegnamento. E vorrei dire, al riguardo, che trovo sconsigliabile cedere del tutto alle mode e subire il "ricatto" diffuso, per cui se non si dimostra che una cosa serve, allora non vale niente. Questa è la via maestra per distruggere la cultura. Bisogna insegnare il gusto anche per ciò che non serve assolutamente a niente, se non a pensare.
Consiglio inoltre la lettura - a proposito della natura non induttiva e non empirica della matematica - del recente articolo di Enrico Giusti sul Notiziario dell'Unione Matematica Italiana che sottopone a critica serrata le tesi della Commissione Berlinguer.
================
«Il caso della matematica è esemplare. Dopo aver tentato di tutto per renderla più accessibile e intuitiva, compresa la sciagurata riforma chiamata New Math, nella quale tutto si basava sulle nozioni (supposte) elementari dell’insiemistica, e dopo
aver introdotto nella classe di matematica bilancette, palloni gonfiabili, forbici e cartone (la tanto incensata manualità), si è dovuto constatare che i risultati erano modesti. Allora si pensò di espellere completamente le operazioni aritmetiche e far leva sulle calcolatrici tascabili. Ne uscivano ragazzi schiavi dell’elettronica e incapaci di ragionare in astratto. Molte piccole e grandi riforme ne sono seguite, ma si constata ancora oggi, nei principali dipartimenti universitari di matematica, la strapresenza di giovani studiosi provenienti dall’India, Giappone e Corea. Più della metà dei dottori superiori in matematica nelle università americane vengono conseguiti da cittadini di altri paesi, in prevalenza dal lontano Oriente. Durante una mia recente visita a Seul ho constatato che ragazzi e ragazze di dieci o dodici anni trovano perfettamente normale stare a tavolino cinque o sei ore al giorno, dopo la scuola, per fare i compiti. Da noi e negli Stati Uniti, invece, è emerso il concetto che non bisogna mettere mai un ragazzo di fronte a un insuccesso. La resa dei conti, inevitabilmente, viene rimandata a sempre più tardi, magari agli inizi della professione»
(M. Piattelli Palmarini, Se lasciamo la matematica agli studenti asiatici, «Corriere della Sera», 16 novembre 2007).
Salve, premetto che non ho studiato molto la filosofia.
C'è una questione su cui ho meditato un po' di volte che riguarda l'induzione (intesa nel senso di osservare dei fenomeni e trarne una legge, non so se è la definizione corretta).
Io penso (forse poi è quello che sostenteva anche Kant ma ripeto, non ho mai approfondito) che la nostra mente formuli incessantemente delle ipotesi, fin da quando siamo bambini ipotesi che se siamo dei bravi scienziati dovremmo mettere alla prova empiricamente.
L'osservazione serve cioè solo per verificarle o falsificarle (come diceva Popper) ma non per formularle.
A me pare insomma che la nostra mente non abbia alcun bisogno di osservare i fenomeni per formulare delle teorie, semmai si appoggia ad altre teorie, agendo per pura deduzione. La formulazione delle teorie è talmente vorticosa, fin da quando siamo piccoli, e la nostra capacità di dedurre così raffinata che in molti casi non ci rendiamo neppure conto dei passaggi logici.
Non si è mai vista una teoria scientifica ricavata come risultato di una raccolta di osservazioni.
"La scienza non è una raccolta di fatti più di quanto una casa non sia un ammasso di pietre" (Henri Poincaré)
Posta un commento