In Francia non stanno messi meglio di noi.
Un sito estremamente importante al riguardo: http://www.ihes.fr/~lafforgue/
Ma a nessuno passi in mente di dire: Mal comune mezzo gaudio...
Piuttosto, bisognerebbe costituire l'internazionale europea della riscossa per una scuola degna di questo nome
«Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante Alighieri)
domenica 25 novembre 2007
martedì 20 novembre 2007
La scienza spettacolo
Non dirò che al Festival della Scienza di Genova non vi siano state iniziative interessanti. Mi darei la zappa sui piedi visto che vi ho partecipato tenendo un dibattito intenso e costruttivo con Giulio Giorello. Tante erano le iniziative che sarebbe pedante prendersela con le più strampalate, come quella dedicata a spiegare perché Einstein smise di portare i calzini. Quel che preoccupa è l’atteggiamento di certa stampa. Perché non è serio definire «simpatiche provocazioni» le solite zingarate antireligiose, e poi montare uno scandalo perché in una mostra serissima sulla Via Lattea compariva una frase di don Giussani, come ha fatto La Repubblica, che vi ha dedicato una pagina intera della cronaca locale. Qualcosa non va, se una barriera si alza o si abbassa secondo le simpatie ideologiche, indipendentemente dalla serietà scientifica; se è lecito spernacchiare le religioni e scandaloso citare la frase di un sacerdote. Sono stonature che inducono a riflettere sui messaggi trasmessi da queste dilaganti kermesse scientifiche, in cui – come nel Festival della matematica di Roma – anche Dario Fo e Serena Dandini vengono promossi matematici.
Dicono che si tratta di iniziative fondamentali per svegliare l’interesse stagnante per la scienza. Ho sotto gli occhi un sondaggio effettuato tra gli immatricolati al primo anno del corso di laurea in matematica presso la mia università: un campione di duecento persone, ristretto ma significativo trattandosi di tutti gli iscritti. Alla domanda «il tuo interesse per la matematica è aumentato grazie a», ben 142 hanno risposto «il tuo insegnante»; 64 «grazie alla partecipazione a giochi o gare matematiche» (che sono cosa ben diversa dai festival); e soltanto 8 «grazie al festival della matematica di Roma»… Se si aggiunge che 24 hanno dichiarato che il loro interesse era cresciuto per «la lettura di libri sulla matematica», se ne ricavano alcune conclusioni. In primo luogo, che il festival della matematica non ha avuto alcun effetto, ammesso che non abbia indotto qualcuno a iscriversi ad altre facoltà… In secondo luogo, che le attività che coinvolgono sforzo, concentrazione, conoscenze e competizione (come le gare) sono largamente preferite. In terzo luogo, che i “noiosi” libri sono ancora uno mezzo fondamentale di diffusione della cultura. Infine – ed è la cosa più importante – che la figura di gran lunga più influente è il tanto disprezzato insegnante. Si aggiunga che il numero di coloro che ha dichiarato di essersi iscritto a matematica per la speranza di trovare lavoro era identico a quello di coloro che hanno detto di averlo fatto per «coltivare interessi culturali».
Quindi, i ragazzi non sono così bruti come si vuol far credere, sono disposti a leggere libri, a concentrarsi nello studio purché la proposta sia interessante, né abbisognano di essere imboniti con la contraffazione della scienza come divertimento. D’altra parte, i loro insegnanti – anche se non pochi di loro dovrebbero aggiornarsi – restano coloro che lo studente più ascolta e che gli trasmettono entusiasmo e interesse. (Quanti stipendi annui si pagano con un festival?). Tutto ciò in barba a chi crede (o vuol far credere) che l’unico modo di interessare alla scienza sia di farne spettacolo, e a chi crede che per salvare il sistema dell’istruzione occorra oggettivizzarlo al massimo, riducendo al minimo il ruolo dell’insegnante e il rapporto personale tra insegnante e studente, riassorbiti dalle tecniche pedagogiche e di valutazione o dall’e-learning. Sono costoro che dovrebbero essere riqualificati, perché sono affetti da un brutto male: la sfiducia nelle persone.
(Tempi, 15 novembre 2007)
Dicono che si tratta di iniziative fondamentali per svegliare l’interesse stagnante per la scienza. Ho sotto gli occhi un sondaggio effettuato tra gli immatricolati al primo anno del corso di laurea in matematica presso la mia università: un campione di duecento persone, ristretto ma significativo trattandosi di tutti gli iscritti. Alla domanda «il tuo interesse per la matematica è aumentato grazie a», ben 142 hanno risposto «il tuo insegnante»; 64 «grazie alla partecipazione a giochi o gare matematiche» (che sono cosa ben diversa dai festival); e soltanto 8 «grazie al festival della matematica di Roma»… Se si aggiunge che 24 hanno dichiarato che il loro interesse era cresciuto per «la lettura di libri sulla matematica», se ne ricavano alcune conclusioni. In primo luogo, che il festival della matematica non ha avuto alcun effetto, ammesso che non abbia indotto qualcuno a iscriversi ad altre facoltà… In secondo luogo, che le attività che coinvolgono sforzo, concentrazione, conoscenze e competizione (come le gare) sono largamente preferite. In terzo luogo, che i “noiosi” libri sono ancora uno mezzo fondamentale di diffusione della cultura. Infine – ed è la cosa più importante – che la figura di gran lunga più influente è il tanto disprezzato insegnante. Si aggiunga che il numero di coloro che ha dichiarato di essersi iscritto a matematica per la speranza di trovare lavoro era identico a quello di coloro che hanno detto di averlo fatto per «coltivare interessi culturali».
Quindi, i ragazzi non sono così bruti come si vuol far credere, sono disposti a leggere libri, a concentrarsi nello studio purché la proposta sia interessante, né abbisognano di essere imboniti con la contraffazione della scienza come divertimento. D’altra parte, i loro insegnanti – anche se non pochi di loro dovrebbero aggiornarsi – restano coloro che lo studente più ascolta e che gli trasmettono entusiasmo e interesse. (Quanti stipendi annui si pagano con un festival?). Tutto ciò in barba a chi crede (o vuol far credere) che l’unico modo di interessare alla scienza sia di farne spettacolo, e a chi crede che per salvare il sistema dell’istruzione occorra oggettivizzarlo al massimo, riducendo al minimo il ruolo dell’insegnante e il rapporto personale tra insegnante e studente, riassorbiti dalle tecniche pedagogiche e di valutazione o dall’e-learning. Sono costoro che dovrebbero essere riqualificati, perché sono affetti da un brutto male: la sfiducia nelle persone.
(Tempi, 15 novembre 2007)
sabato 10 novembre 2007
Zenzero e curcuma nelle mense scolastiche. A Roma integrazione significa indigestione
(Tempi, 8 novembre 2007)
Avevo promesso di parlare della “valutazione” ma rinvio perché è occorsa una bizzarra vicenda che merita attenzione. Premessa: per esentare uno studente dall’ora di religione scolastica basta una semplice comunicazione al preside. Invece, per esentare un bambino di una scuola materna romana dai pasti multietnici mensili volti ad «aprire una finestra sul mondo», bisogna recarsi di persona all’Ufficio Scuola del Municipio nei giorni di ricevimento del pubblico. Ogni tentativo di trasmettere la domanda tramite la scuola o via fax è vana: bisogna andare di persona, saltando il lavoro e, chissà, supplicando. Questa iniziativa del Comune di Roma impone ogni mese un pasto dei seguenti paesi: Bangladesh, Romania, Albania, Polonia, Perù, Cina, Filippine, Marocco. Lo scopo pomposo è: «costruire una società interculturale e non soltanto multiculturale». Mangiando le culture diverse si costruisce nientedimeno che un «laboratorio di inclusione sociale». Il carattere pedagogico-autoritario dell’iniziativa non si esprime soltanto nella inquietante imposizione di doversi recare allo sportello di persona per l’esenzione, ma anche nell’invito a «responsabilizzare gli insegnanti affinché preparino didatticamente gli alunni». Ci si può ben figurare a che cosa può ridursi la “preparazione didattica” al pasto etnico di bambini di tre o quattro anni. Roba del tipo: «Ora assaporerete, bimbi, i sapori di una terra lontana, da cui vengono altri bimbi poveri che ora sono qui da noi. Provate, vi sembreranno sapori strani, ma vi ci abituerete. E quando tutti mangeranno i cibi dell’altro, ci vorremo tutti bene e vivremo in un solo mondo per tutti». Per fortuna, con i bimbi la retorica finisce in farsa.
Il primo pasto del Bangladesh conteneva cinque spezie: cardamomo, zafferano, curcuma, cumino e zenzero. Un po’ pesantuccio. Forse, dovendo proporre un pasto italiano a un bimbo di tre anni del Bangladesh non cominceremmo con un’amatriciana o una carbonara. Infatti, l’esperienza è stata una mezza catastrofe: intere classi hanno digiunato ed è stato buttato via tutto. L’assessore alla scuola ha detto che non è poi andata così male, aggiungendo: «Certe polemiche a priori nascondono in realtà posizioni razziste».
Il sorriso sulle labbra che abbiamo tenuto fin qui, si spegne. Andiamoci piano con gli epiteti. Potrei dire, al contrario – e non sono affatto il solo a pensarlo – che è proprio l’ideologia multiculturalista a fomentare la separazione e il razzismo, ma non arriverei al punto di accusare chi ha avuto questa pensata di essere soggettivamente razzista. All’uscita dalla scuola ho incontrato un’anziana signora con il volto insanguinato per essere caduta sul marciapiede dissestato, come lo sono quelli di tutta la città, un autentico disastro. Gli amministratori hanno il dovere primario di far funzionare le scuole, i trasporti, curare l’igiene e la pavimentazione stradale. Abbandonino la velleità di fare gli educatori, i creatori di “laboratori di inclusione sociale” o addirittura di nuove società “interculturali”. Questi sono temi complessi su cui non è facile mettersi d’accordo. Non è legittimo sentirsi autorizzati a dare per scontato quel che non lo è, imponendo alla cittadinanza iniziative discutibili sulla scorta di teorie dilettantesche, per giunta con stile da pedagogia impositiva. Se proprio si vuole, invece di proiettare film che negano gli attentati dell’11 settembre, si organizzi un convegno su questi temi in cui possa dire la sua anche chi non aderisce a certi conformismi correnti, come quello della teoria sbilenca del “passaggio dalla società multiculturale alla società interculturale”.
Avevo promesso di parlare della “valutazione” ma rinvio perché è occorsa una bizzarra vicenda che merita attenzione. Premessa: per esentare uno studente dall’ora di religione scolastica basta una semplice comunicazione al preside. Invece, per esentare un bambino di una scuola materna romana dai pasti multietnici mensili volti ad «aprire una finestra sul mondo», bisogna recarsi di persona all’Ufficio Scuola del Municipio nei giorni di ricevimento del pubblico. Ogni tentativo di trasmettere la domanda tramite la scuola o via fax è vana: bisogna andare di persona, saltando il lavoro e, chissà, supplicando. Questa iniziativa del Comune di Roma impone ogni mese un pasto dei seguenti paesi: Bangladesh, Romania, Albania, Polonia, Perù, Cina, Filippine, Marocco. Lo scopo pomposo è: «costruire una società interculturale e non soltanto multiculturale». Mangiando le culture diverse si costruisce nientedimeno che un «laboratorio di inclusione sociale». Il carattere pedagogico-autoritario dell’iniziativa non si esprime soltanto nella inquietante imposizione di doversi recare allo sportello di persona per l’esenzione, ma anche nell’invito a «responsabilizzare gli insegnanti affinché preparino didatticamente gli alunni». Ci si può ben figurare a che cosa può ridursi la “preparazione didattica” al pasto etnico di bambini di tre o quattro anni. Roba del tipo: «Ora assaporerete, bimbi, i sapori di una terra lontana, da cui vengono altri bimbi poveri che ora sono qui da noi. Provate, vi sembreranno sapori strani, ma vi ci abituerete. E quando tutti mangeranno i cibi dell’altro, ci vorremo tutti bene e vivremo in un solo mondo per tutti». Per fortuna, con i bimbi la retorica finisce in farsa.
Il primo pasto del Bangladesh conteneva cinque spezie: cardamomo, zafferano, curcuma, cumino e zenzero. Un po’ pesantuccio. Forse, dovendo proporre un pasto italiano a un bimbo di tre anni del Bangladesh non cominceremmo con un’amatriciana o una carbonara. Infatti, l’esperienza è stata una mezza catastrofe: intere classi hanno digiunato ed è stato buttato via tutto. L’assessore alla scuola ha detto che non è poi andata così male, aggiungendo: «Certe polemiche a priori nascondono in realtà posizioni razziste».
Il sorriso sulle labbra che abbiamo tenuto fin qui, si spegne. Andiamoci piano con gli epiteti. Potrei dire, al contrario – e non sono affatto il solo a pensarlo – che è proprio l’ideologia multiculturalista a fomentare la separazione e il razzismo, ma non arriverei al punto di accusare chi ha avuto questa pensata di essere soggettivamente razzista. All’uscita dalla scuola ho incontrato un’anziana signora con il volto insanguinato per essere caduta sul marciapiede dissestato, come lo sono quelli di tutta la città, un autentico disastro. Gli amministratori hanno il dovere primario di far funzionare le scuole, i trasporti, curare l’igiene e la pavimentazione stradale. Abbandonino la velleità di fare gli educatori, i creatori di “laboratori di inclusione sociale” o addirittura di nuove società “interculturali”. Questi sono temi complessi su cui non è facile mettersi d’accordo. Non è legittimo sentirsi autorizzati a dare per scontato quel che non lo è, imponendo alla cittadinanza iniziative discutibili sulla scorta di teorie dilettantesche, per giunta con stile da pedagogia impositiva. Se proprio si vuole, invece di proiettare film che negano gli attentati dell’11 settembre, si organizzi un convegno su questi temi in cui possa dire la sua anche chi non aderisce a certi conformismi correnti, come quello della teoria sbilenca del “passaggio dalla società multiculturale alla società interculturale”.
venerdì 2 novembre 2007
Per poter valutare gli insegnanti bisogna imporre le regole e rinnovare i contenuti
(Tempi, 1 novembre 2007)
Il presidente dell’Associazione TreeLLLE Attilio Oliva ha stigmatizzato, sul Corriere della Sera, il nuovo contratto per la scuola, che ha ancora rinviato la definizione di un collegamento tra progressione della remunerazione e qualità di lavoro degli insegnanti. La protesta è pienamente condivisibile: è un andazzo che mortifica il merito, induce gli insegnanti a un comportamento impiegatizio e dequalifica la scuola; e farà ulteriormente crescere il numero degli insegnanti che hanno una preparazione modesta e talora gravemente insufficiente.
Vorrei tuttavia aggiungere alcune osservazioni di metodo e di sostanza. È impensabile affrontare il problema del merito degli insegnanti e del suo collegamento alla retribuzione se non si risolvono alcune questioni preliminari. È impossibile persino parlare di “scuola” se non sono soddisfatti alcuni requisiti ovvi e che invece non lo sono più: la disciplina (ingresso in orario, silenzio in aula, divieto di cellulari, severa repressione di ogni forma di violenza), il rispetto della persona dell’insegnante, il principio che a scuola si studia e si viene premiati o penalizzati a seconda del rendimento, un comportamento civile delle famiglie che si rendano conto che la scuola è un’istituzione educativa e non un supermercato. Come sottoporre a giudizio un insegnante in un contesto che non rispetti nemmeno questi requisiti di civiltà? Viene poi il problema dei contenuti dell’insegnamento, sempre trattato come se fosse un orpello accessorio, mentre è la questione centrale, perché gran parte dello sfacelo attuale deriva dalle pessime riforme dell’ultimo trentennio. Un conto è se un’insegnante è chiamato a insegnare la matematica propriamente detta, un conto è se è chiamato a trasmettere un’accozzaglia di nozioni pseudo-intuitive, di inutili formalismi, presentando la geometria come una sorta di esperienza fisica della spazialità e magari con il condimento della delirante “matematica del cittadino”. In tal caso, è certo che gli insegnanti più incompetenti, traviati dal “didattichese” più vacuo e parolaio, risulteranno i migliori, e i migliori risulteranno i peggiori. Nasce qui il problema delle Scuole di Specializzazione universitarie, preposte alla formazione e abilitazione degli insegnanti, che troppo spesso si basano sull’assurda idea che il laureato sappia già tutto della sua disciplina e che debba soltanto essere istruito in metodologie didattiche. Con quali risultati, si è visto.
Nasce quindi il problema della “valutazione” di cui parla molto Attilio Oliva ammettendo che è difficile valutare le qualità con indicatori oggettivi. Difatti, quando si mette il naso nel laboratorio della “docimologia” si ricava l’inquietante impressione che si manipolino – al riparo da valutazioni – concetti e metodi (come quello di “distribuzione normale”) in modo superficiale per trarne conclusioni avventate. Su questo argomento tornerò. Per ora mi limito a osservare che è discutibile attribuire un ruolo primario nella valutazione all’“utenza” e, in particolare, agli studenti usciti dalla scuola. In primo luogo, perché – lo ripeterò fino alla noia – una scuola degna di questo nome non è un’azienda e quindi non ha “utenti”. In secondo luogo, perché la valutazione delle capacità può esser fatta soltanto da chi ha conoscenze ed esperienza. La valutazione nel sistema dell’istruzione può essere soltanto autovalutazione, anche la più severa, tra scuole diverse o tra scuole e università, ma autovalutazione, l’unica che può responsabilizzare gli insegnanti.
Il presidente dell’Associazione TreeLLLE Attilio Oliva ha stigmatizzato, sul Corriere della Sera, il nuovo contratto per la scuola, che ha ancora rinviato la definizione di un collegamento tra progressione della remunerazione e qualità di lavoro degli insegnanti. La protesta è pienamente condivisibile: è un andazzo che mortifica il merito, induce gli insegnanti a un comportamento impiegatizio e dequalifica la scuola; e farà ulteriormente crescere il numero degli insegnanti che hanno una preparazione modesta e talora gravemente insufficiente.
Vorrei tuttavia aggiungere alcune osservazioni di metodo e di sostanza. È impensabile affrontare il problema del merito degli insegnanti e del suo collegamento alla retribuzione se non si risolvono alcune questioni preliminari. È impossibile persino parlare di “scuola” se non sono soddisfatti alcuni requisiti ovvi e che invece non lo sono più: la disciplina (ingresso in orario, silenzio in aula, divieto di cellulari, severa repressione di ogni forma di violenza), il rispetto della persona dell’insegnante, il principio che a scuola si studia e si viene premiati o penalizzati a seconda del rendimento, un comportamento civile delle famiglie che si rendano conto che la scuola è un’istituzione educativa e non un supermercato. Come sottoporre a giudizio un insegnante in un contesto che non rispetti nemmeno questi requisiti di civiltà? Viene poi il problema dei contenuti dell’insegnamento, sempre trattato come se fosse un orpello accessorio, mentre è la questione centrale, perché gran parte dello sfacelo attuale deriva dalle pessime riforme dell’ultimo trentennio. Un conto è se un’insegnante è chiamato a insegnare la matematica propriamente detta, un conto è se è chiamato a trasmettere un’accozzaglia di nozioni pseudo-intuitive, di inutili formalismi, presentando la geometria come una sorta di esperienza fisica della spazialità e magari con il condimento della delirante “matematica del cittadino”. In tal caso, è certo che gli insegnanti più incompetenti, traviati dal “didattichese” più vacuo e parolaio, risulteranno i migliori, e i migliori risulteranno i peggiori. Nasce qui il problema delle Scuole di Specializzazione universitarie, preposte alla formazione e abilitazione degli insegnanti, che troppo spesso si basano sull’assurda idea che il laureato sappia già tutto della sua disciplina e che debba soltanto essere istruito in metodologie didattiche. Con quali risultati, si è visto.
Nasce quindi il problema della “valutazione” di cui parla molto Attilio Oliva ammettendo che è difficile valutare le qualità con indicatori oggettivi. Difatti, quando si mette il naso nel laboratorio della “docimologia” si ricava l’inquietante impressione che si manipolino – al riparo da valutazioni – concetti e metodi (come quello di “distribuzione normale”) in modo superficiale per trarne conclusioni avventate. Su questo argomento tornerò. Per ora mi limito a osservare che è discutibile attribuire un ruolo primario nella valutazione all’“utenza” e, in particolare, agli studenti usciti dalla scuola. In primo luogo, perché – lo ripeterò fino alla noia – una scuola degna di questo nome non è un’azienda e quindi non ha “utenti”. In secondo luogo, perché la valutazione delle capacità può esser fatta soltanto da chi ha conoscenze ed esperienza. La valutazione nel sistema dell’istruzione può essere soltanto autovalutazione, anche la più severa, tra scuole diverse o tra scuole e università, ma autovalutazione, l’unica che può responsabilizzare gli insegnanti.
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