Di fronte al dilagare di una letteratura antireligiosa vasta come non mai la mente potrebbe correre a Voltaire e alle pungenti irrisioni delle “superstizioni” religiose contenute nel suo Dictionnaire philosophique. Del resto, Voltaire è il modello di un libro come I dieci comandamenti nel ventunesimo secolo di Fernando Savater e l’illuminismo viene diffusamente evocato come il manifesto del libero pensiero razionale contro l’irrazionalismo dei credenti. Ma tracciare un parallelismo con Voltaire non sarebbe corretto, come non è corretto equiparare l’agnosticismo di Bertrand Russell (nel suo Perché non sono cristiano) – per quanto espresso con toni virulenti – all’ateismo militante di certi suoi mediocri epigoni contemporanei. Voltaire non era ateo bensì deista, e anzi scoccava frecce acuminate contro l’ateismo, e se oggi le sue considerazioni sui testi testamentari appaiono ingenue e grossolane, occorre ricordare che si era ai primi passi della storiografia critica moderna di cui lo stesso Voltaire fu uno degli iniziatori. Oggi scrivere come allora non è più ammissibile. D’altra parte, la lettura degli scritti di Voltaire sull’opera scientifica di Newton – comparata con quella di Descartes e di Leibniz – rivela un’accuratezza considerevole e anche una notevole attenzione agli aspetti teologici della visione newtoniana, tanto più apprezzabile in quanto Voltaire non poteva conoscere gli scritti teologici di Newton e aveva un’idea approssimativa delle sue concezioni religiose.
Esiste insomma un impressionante divario culturale – espressione di un degrado intellettuale inquietante – con i testi dell’ateismo antireligioso di oggi, per lo più firmati da scienziati. Richards Dawkins, nel suo libro L’illusione di Dio, appare preoccupato dall’esigenza di mostrare che, nonostante quel che si crede, quasi nessuno scienziato era davvero religioso. Egli appare soprattutto ansioso di provare che la religiosità di Einstein era tale soltanto di nome. Allo scopo egli ripropone la distinzione tra teismo, deismo e panteismo in modo consono ai suoi fini. Il teismo è l’abbietta credenza in un Dio personale. Il deismo è una visione a mezza strada, più nobile in quanto propone una visione di Dio come una sorta di intelligenza cosmica, ma non del tutto liberato dalla visione personalistica, una sorta di «teismo annacquato». Invece, il panteismo sarebbe nient’altro che un ateismo che concede alla religione soltanto il vezzo di usare il nome di Dio: un «ateismo “ornato”». Ora, si può pensare quel che si vuole del panteismo – e legittimamente ritenere che esso implichi il rischio di declinare verso l’ateismo – ma non che esso sia identico all’ateismo e che Spinoza sia il maestro dell’ateismo nella storia della filosofia. Se non altro, chi compie simili identificazioni dovrebbe tener conto delle ricerche recenti che hanno mostrato la derivazione della formula Deus sive Natura da correnti religiose cabbalistiche e precisamente nella “ghematria” (o equazione numerologica) che identifica uno dei nomi di Dio (Elohim) con la natura (ha-Teva). Si tratta di un’idea che, ripercorsa all’indietro, riporta a fonti della teologia medioevale (a Maimonide, in particolare) e, in avanti, conduce alla visione del libro divino come chiave che permette di comprendere il libro della natura. Questa visione divenne un tema centrale del pensiero rinascimentale e, a sua volta, condusse – attraverso una serie di passaggi – all’idea di Galileo secondo cui il libro della natura è stato scritto da Dio in linguaggio matematico. Quindi, le radici del panteismo ci riportano a un’idea di una stretta solidarietà tra religione e razionalità scientifica, la quale è peraltro caratteristica del pensiero di gran parte dei protagonisti della rivoluzione scientifica. Eppure, l’interpretazione del panteismo come ateismo è oggi diventata il cavallo di battaglia della polemica antireligiosa dello scientismo ateo e non c’è nulla che riesca a scalfire questo slogan ripetuto acriticamente, come dimostrano gli inutili tentativi compiuti da Paul Ricœur nel suo libro-dialogo La natura e la regola con il neurologo Jean-Pierre Changeux. Il fatto è che si tratta di uno slogan utile. Serve a Dawkins per “dimostrare” che Einstein era ateo e che la religione per lui era nient’altro che la convinzione che esistano leggi scientifiche universali che governano la natura. A prendere Dawkins alla lettera, la frase einsteiniana che tanto lo infastidisce – “La scienza senza religione è zoppa, la religione senza scienza è cieca” – diventerebbe una ridicola filastrocca del tipo: “La scienza senza scienza è zoppa, la scienza senza scienza è cieca”… Al contrario, quella frase contiene un’idea molto profonda e cioè che la razionalità scientifica non può avanzare se non è sorretta da una coscienza della trascendenza – la convinzione che esistono fattori non suscettibili di fondamento razionale, per dirla proprio con Einstein – e, viceversa, che gli occhi con cui la religione guarda al mondo naturale sono inevitabilmente quelli dell’intelletto razionale scientifico. Dawkins si guarda bene dal citare la frase di Einstein secondo cui «un legittimo conflitto tra scienza e religione non può esistere» – che nella sua vulgata diventerebbe un conflitto tra scienza e scienza… – perché il suo scopo è di alimentare questo conflitto a tutti i costi. La manifestazione più evidente di questa faziosità rissosa si ha a proposito di Newton. Non sappiamo se Dawkins abbia letto la celebre conferenza di John Maynard Keynes in cui l’economista inglese, dopo aver acquistato all’asta e letto gli scritti teologici di Newton dichiarava: «A partire dall’Ottocento, Newton è stato visto come il primo e più grande degli scienziati moderni, un razionalista, uno che ci ha insegnato a pensare nei termini di una ragione fredda e incontaminata… Non lo vedo in questa luce…». Keynes lo descriveva come un religioso, un «monoteista giudaico della scuola di Maimonide», con un’accentuata propensione al misticismo. Che Dawkins abbia letto o no questa conferenza, che sappia o no della religiosità di Newton dalla letteratura di storia della scienza, è evidente che il grande scienziato rappresenta per lui un problema non superabile neppure col trucco dell’equazione panteismo = ateismo. Egli se la cava dicendo che Newton «sosteneva» di essere religioso, ma che così facevano tutti fino all’Ottocento, «fino al momento in cui si allentò la pressione sociale e giudiziaria alla professione di fede». Insomma, un vero scienziato o è ateo (o panteista che dirsi voglia) oppure fa finta di essere religioso per paura. Quelli che ancor oggi dicono di esserlo, se non lo fanno per residue condizioni di oppressione, sono semplicemente degli imbecilli, anzi dei “cretini”.
Ci siamo soffermati a lungo su questo esempio per mostrare la straordinaria povertà intellettuale e il carattere truffaldino di questi testi che vengono sostenuti – come un bastone sostiene l’incedere di uno zoppo – da una dose smisurata di insulti e improperi nei confronti dei religiosi e di Dio medesimo (che si tratti del «Dio delinquente e psicotico dell’Antico Testamento» o di Gesù Cristo). Quel che è tragicamente comico è che il fanatismo e l’intolleranza delle religioni vengono denunciati con accenti violentemente fanatici e intolleranti: la possibilità che qualcuno osi accostare il Dio «metaforico e panteistico dei fisici» a quello delle religioni – ovvero quel che qui abbiamo osato – viene preclusa con il minaccioso avvertimento che si tratterebbe di «un atto di alto tradimento intellettuale». Come è noto, gli atti di alto tradimento si puniscono con la pena di morte, sia pure intellettuale.
È evidente che una siffatta violenza verbale, un simile rifiuto del dialogo civile, una simile ansia di annientare l’avversario, sono manifestazioni di profonda debolezza. Lo è parimenti l’ossessione di prodursi in confutazioni delle religioni che vanno ben al di là di un generale discorso filosofico, come era nel caso del libro di Russell. No, qui lo scienziato si addentra direttamente nell’esegesi dei testi biblici, senza vergogna delle proprie modeste conoscenze e della povertà dei propri mezzi analitici: una mancanza di pudore che non sarebbe mai ammessa nel campo scientifico. Chi agisce così sa bene – e proprio su questo gioca – di non muoversi su un terreno scientifico rigoroso, bensì presentando a un pubblico vastissimo un’esegesi confezionata a scopo polemico. Scegliendo la platea più vasta possibile per sviluppare argomentazioni che dovrebbero essere riservate a platee più ristrette si ottiene il vantaggio di fare propaganda con scarso rischio di essere confutati.
La questione più interessante è che cosa significhi l’impegno accanito di tanti scienziati sul fronte della lotta contro la religione. La risposta più evidente è che si tratta di una manifestazione di quell’“odio di sé” che ormai caratterizza gran parte del pensiero occidentale e che, in nome di una scienza che non è più sé stessa e che si è separata dalle proprie stesse finalità fondatrici, mira a mettere in discussione i capisaldi della nostra stessa cultura. Ma vi è anche un’altro motivo. Si tratta della volontà di abbattere il principale ostacolo ad un libero corso della tecnologia e delle sue manipolazioni della natura e della vita: la concezione morale ed etica del mondo di cui la religione è vista come un baluardo. A ben vedere non si tratta di un’“altro” motivo, bensì dello stesso. Difatti, quest’ansia esprime i virulenti “spiriti animali” di una tecnologia che si è affrancata del rapporto con la scienza e non risponde più a un progetto conoscitivo. Non è un’“altro” motivo perché è la manifestazione del declino di quel progetto conoscitivo della scienza che la collegava in un unico disegno con il pensiero filosofico e religioso e che ha informato parecchi secoli di pensiero europeo e occidentale. Oggi, mentre tecnologia e tecnoscienza dilagano senza freni, manipolando prima ancora di sapere, è fin troppo evidente che la scienza teorica (conoscitiva) soffre una crisi senza precedenti, al punto da far dire a taluno che si stia chiudendo un’era. È all’interno di questa crisi che un gruppo consistente di scienziati, svuotati di obbiettivi propriamente scientifici e surrogandoli con quello della difesa a oltranza della manipolazione tecnologica, si sono trasformati in ideologi dell’ateismo.
(articolo pubblicato su L'Osservatore Romano)
«Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante Alighieri)
venerdì 28 dicembre 2007
Su un testo del Cardinale Martini o dell'utilità del dialogo
Sul numero di dicembre del mensile ebraico Shalom è comparso questo mio articolo intitolato "Il passo indietro del Cardinale Martini". Non è inutile sottolineare che la polemica non ha come bersaglio soltanto il testo in oggetto del Cardinale.
Dovrebbe essere evidente che un ebreo può essere di sinistra o di destra. Dovrebbe essere altrettanto evidente che l’ebraismo e il popolo ebraico non sono né di destra né di sinistra. Eppure si riaffaccia la tendenza, nel seno dell’ebraismo italiano, a stabilire che i cromosomi o il Dna degli ebrei e dell’ebraismo sarebbero di sinistra. È forse per questo impulso a schierarsi politicamente, per giunta su basi genetiche, che si affaccia anche la propensione a valutare i cattolici e il dialogo ebraico-cristiano secondo che l’interlocutore sia ritenuto e (magari superficialmente) classificato di destra o di sinistra.
Colpisce al riguardo l’occhiuta diffidenza con cui alcuni ambienti guardano all’attuale pontefice (comunemente considerato “di destra”), levando subito alti lai al minimo accenno di qualche mossa che possa sembrare discutibile, e addirittura gridando alla crisi del dialogo ebraico-cristiano, mentre non si è ancora udita una parola in merito alle tesi del recente libro del Cardinale Carlo Maria Martini (emblema del progressismo cattolico), Le tenebre e la luce, di cui La Repubblica ha anticipato, senza commenti, i passi più sensibili per l’ebraismo.
Dovrebbe essere superfluo ricordare che la “Nostra Aetate” si limitava a dire degli ebrei che sono «ancora» carissimi a Dio e da rispettare per «religiosa carità evangelica». Giovanni Paolo II fece un deciso passo avanti affermando che «chi incontra Gesù, incontra l’ebraismo». L’attuale Papa Benedetto XVI è andato ancora più in là asserendo che «i doni di Dio sono irrevocabili». Non sembra che sia stata sufficientemente valutata l’importanza storica di una simile affermazione che mette in soffitta la “teologia della sostituzione”, ovvero la tesi secondo cui l’elezione di Israele è stata revocata e sostituita con quella conferita al popolo cristiano ed alla Chiesa. Il recente libro del Papa (Gesù di Nazaret) prosegue su tale via, perseguendo l’obbiettivo indicato nel discorso alla Sinagoga di Colonia, ovvero di «fare passi avanti nella valutazione, dal punto di vista teologico, del rapporto fra ebraismo e cristianesimo», senza «minimizzare o passare sotto silenzio le differenze». Il libro ha come uno dei nodi centrali il confronto con il libro del rabbino Jacob Neusner, A Rabbi talks with Jesus. In un dialogo profondo e rispettoso si adducono argomenti in sostegno della tesi cristiana proprio attraverso l’analisi del discorso con cui Neusner sostiene l’inaccettabilità per un ebreo delle tesi del Discorso della montagna. Senza entrare nel merito, quel che conta è che l’analisi assume come dato che l’ebraismo non è un orpello del passato, morto e senza funzione, e che la via un cristiano verso la propria fede non può che partire dal dialogo con un ebraismo vivo.
Guardiamo invece a come il Cardinale Martini affronta il tema del processo a Gesù. Martini sostiene che il Vangelo di Giovanni presenta questo processo come una “farsa” e una “caricatura” al fine di mettere in luce «il crollo di un’istituzione che avrebbe avuto il compito primario di riconoscere il Messia, verificandone le prove. Sarebbe stato questo l’atto giuridico più alto di tutta la sua storia. Invece fallisce proprio lo scopo fondamentale». Dare per scontato proprio quel che non lo è – e cioè che il Sinedrio fosse un’istituzione che «era sorta in vista» di questa «occasione provvidenziale» e che l’avrebbe persa – permette a Martini, con un salto logico sconcertante, di dedurre la fine storica dell’ebraismo. Non si tratta soltanto della «decadenza di un’istituzione religiosa»: «si leggono ancora i testi sacri, però non sono più compresi, non hanno più forza, accecano invece di illuminare». Si tratta della decadenza dell’intera tradizione ebraica che, in quanto non più “autentica”, va quindi radicalmente superata: «Molte volte ho insistito sulla necessità di giungere a superare le tradizioni religiose quando non sono più autentiche». E quale sia l’esito di questo superamento è quasi superfluo dirlo: «Solo la parola di Dio, rappresentata qui da Gesù, è normativa e capace di dare chiarezza».
A questo punto, Martini sottolinea quale sia la sua concezione del dialogo interreligioso: non considerare le religioni come «monoliti immutabili», bensì «fermentarci e vivificarci a vicenda» partendo dall’assunto che anche le tradizioni possono decadere. Pertanto, al di là di un dialogo spesso formale «il nostro cammino interreligioso deve consistere soprattutto nel convertirci radicalmente alle parole di Gesù e, a partire da esse, aiutare gli altri a compiere lo stesso percorso». E queste parole sono quelle espresse nel Discorso della montagna, «assolutamente autentiche e affidabili, perché contengono anche la giusta critica alle tradizioni religiose degradate». Come se ancora non fosse chiaro.
Non mi sono mai scandalizzato che alcune religioni e religiosi vogliano convertire gli altri alla propria fede. È legittimo proporre il valore del proprio percorso. Purché non lo si faccia con la violenza, che non è soltanto quella fisica, ma anche quella consistente nell’affermare il disvalore del percorso religioso altrui. Nel caso dei rapporti ebraico-cristiani – resi delicati da un passato tanto dolente – affermare questo disvalore significa né più né meno sostenere che il dono di Dio è stato revocato. Pertanto, il cardinale Martini ha riproposto – e in termini molto brutali, insistendo su aggettivi spiacevoli – la teologia della sostituzione, facendo un passo persino indietro alla “Nostra Aetate”. Chi voglia dialogare con lui (e con chi la pensa come lui) sa quale sia l’intenzione e l’unico possibile esito di tale dialogo: la conversione “radicale” alle parole di Gesù e il riconoscimento del carattere ormai “degradato”, “decaduto” e “non autentico” dell’ebraismo.
È probabile che una simile tesi sia frutto della volontà del Cardinale Martini di contrapporsi punto per punto alle tesi del Papa; e quindi che la sua sia una replica proprio all’impostazione del libro Gesù di Nazaret. È comunque assai deprimente che questa contrapposizione si giochi sulla pelle degli ebrei e del dialogo ebraico-cristiano cui Martini, pur di fare il controcanto a Benedetto XVI, assesta un colpo brutale.
Non si può non notare che si sono sollevate polemiche a non finire, spesso capziose, sulla reintroduzione della Messa in latino e sulla formula di auspicio di conversione degli ebrei – non della formula concernenti i “perfidi giudei” che è definitivamente abolita – che potrebbe essere letta il venerdì santo, e che comunque apparteneva alla versione dovuta al Papa “progressista” Giovanni XXIII, contro cui nessuno direbbe una parola. Sorvoliamo su altre polemiche ancor più capziose. È strano che nessuno si sia ancora levato a sottolineare la gravità di queste affermazioni del Cardinale Martini che, oltre a riesumare un linguaggio che si sperava definitivamente abbandonato proprio sul tema delicato del “processo a Gesù” – cerca di riesumare quella “teologia della sostituzione” che è la pietra tombale di ogni possibile dialogo ebraico-cristiano. Staremo a vedere. È da augurarsi che nessuno pensi di usare due pesi e due misure per ragioni di Dna.
Giorgio Israel
Sul quotidiano "Avvenire" il precedente articolo è stato commentato al seguente modo da Giorgio Bernardelli (in data 19 dicembre):
Un percorso di riconciliazione tra i più significativi tra quelli lasciatici in eredità dal Novecento. Ma anche una strada in cui non si può mai dare per scontato che ferite antiche siano davvero rimarginate. Sono i due volti che – fin dalla dichiarazione Nostra Aetate – hanno scandito le diverse fasi del dialogo tra cristiani ed ebrei. Cammino non senza fatiche e incomprensioni. Ma proprio queste difficoltà ci hanno insegnato l’importanza di capire il pensiero dell’altro, senza fermarsi alle sue caricature. Per questi motivi mi ha molto sorpreso un articolo apparso sull’ultimo numero di Shalom, la rivista della Comunità ebraica di Roma. Titolo e sottotitolo in questo caso sono molto efficaci: Il passo indietro del cardinale Martini. Nel suo ultimo libro ripropone la 'teoria della sostituzione', affermando la fine storica dell’ebraismo. Non nascondo di essere sobbalzato sulla sedia: il cardinale Martini che – a Milano come a Gerusalemme – conosciamo noi è quello dei dialoghi con l’allora rabbino capo Giuseppe Laras o quello della laurea honoris causa da poco conferitagli dalla Hebrew University (il più prestigioso ateneo israeliano) proprio per l’amicizia nei confronti del popolo ebraico. Possibile una svolta così improvvisa? Lo stupore è ulteriormente cresciuto guardando il nome dell’autore dell’articolo: il professor Giorgio Israel, voce importante dell’ebraismo itarliano di oggi. Un uomo la cui lucidità di pensiero su querstioni culturali decisive come il rapporto tra scienza e antropologia si è avuto più volte il piacere di presentare ai lettori su queste pagine. L’articolo prende spunto da un brano del recente libro del cardinale Martini Le tenebre e la luce (Piemme), anticipato da un quotidiano. Nel brano in questione Martini analizza il racconto che il quarto evangelista offre del processo di Gesù davanti al sommo sacerdote. Il cardinale-biblista sottolinea in particolare un punto: il fatto che Giovanni lo presenti come un «processo farsa», con l’intenzione «probabilmente di sottolineare un indice di decadenza religiosa e giuridica». Agli occhi dell’evangelista – sostiene Martini – «ci troviamo di fronte al crollo di una istituzione che avrebbe avuto il compito primario di riconoscere il Messia». Questo – continua il porporato – pone «il problema gravissimo della possibilità che anche un’istituzione religiosa decada: si leggono ancora i testi sacri, però non sono più compresi, accecano invece di illuminare». Un pericolo che vale per tutte le religioni. E infatti – poco più avanti e al contesto cristiano cui sta parlando – l’arcivescovo emerito di Milano indica come antidoto «la conversione radicale » alle parole pronunciate da Gesù nel Discorso della montagna, da intendere come bussola anche nel modo (cristiano) di porsi di fronte al dialogo interreligioso. È una lettura su cui si può ovviamente essere d’accordo oppure no. Quello che però è molto pericoloso è forzare le cose facendo dire ad altri quello che non dicono. Perché la conclusione di Israel è che con questa tesi Martini «afferma né più né meno che il dono di Dio [al popolo ebraico, ndr] è stato revocato. Chi voglia dialogare con lui sa quale sia l’intenzione e l’unico possibile esito di tale dialogo: la conversione 'radicale' alle parole di Gesù e il riconoscimento del carattere ormai 'degradato', 'decaduto' e 'non autentico' dell’ebraismo ». Nella foga arriva a dire anche che con questo suo libro Martini vuole contrapporsi al Gesù di Nazareth di Benedetto XVI, che invece (e questo è vero) contiene spunti molto interessanti per il rapporto tra ebrei e cristiani. Ma qui – ormai – siamo nel dominio della fantapolitica ecclesiastica. Forse sarebbe meglio leggere quel libro nel suo insieme, senza fermarsi all’anticipazione fornita da un quotidiano. Magari accanto a qualcuno degli innumerevoli interventi del cardinale Martini sul dialogo ebraico-cristiano. Così ci si accorgerà che si può leggere i racconti della Passione di Gesù con occhi diversi. Ma senza per questo amare di meno quel popolo che noi cristiani finalmente stiamo imparando a riscoprire come nostra radice.
Giorgio Bernardelli
E questa è la mia replica - pubblicata cortesemente da Avvenire il giorno seguente.
Ringrazio Giorgio Bernardelli per le parole di stima nei miei confronti dettate, immagino, anche dall’importanza che attribuisco al dialogo ebraico-cristiano. Conosco bene il ruolo fondamentale che ha avuto il Cardinale Martini in tale dialogo. È lui che, nell’ambito del colloquio internazionale dell’International Council of Christian and Jews tenutosi a Bologna nel 1984, parlò della «fede di Abramo nel Dio che ha scelto Israele con irrevocabile amore». Non è quindi con la foga che mi attribuisce Bernardelli che ho riflettuto sull’articolo-anticipazione del libro del Cardinale Martini che La Repubblica ha pubblicato a sua firma, trovandone alcuni passaggi dolorosamente e inspiegabilmente spiacevoli. Temo che sia stato piuttosto Bernardelli a lasciarsi prendere dalla foga polemica attribuendomi l’intenzione di far dire a Martini quel che non ha detto e omettendo, proprio i passaggi cruciali che mi hanno negativamente colpito.
Non si tratta neppure del parlare di “crollo” o “decadenza” di un’“istituzione religiosa” – il Sinedrio – che sarebbe affermazione comprensibile se pure alquanto dura. Quanto del trasferire una considerazione relativa a una circostanza storicamente determinata alla tradizione ebraica in quanto tale, con l’ammonimento: «Molte volte ho insistito sulla necessità di giungere a superare le tradizioni religiose quando non sono più autentiche»: tradizione e non più soltanto un’istituzione. Ma condividerei anche una simile affermazione generale, se non fosse che, nella fattispecie, quella ebraica viene esibita come emblema di una tradizione degradata e quella cristiana come autentica. Posso anche capire che il Cardinale Martini sia poco interessato al dialogo teologico e piuttosto a un dialogo che ci «fermenti» e «vivifichi a vicenda» con parole di fede «vere» e «autentiche», purché – ripeto – alla fin dei conti non accada che una soltanto delle due sia considerata autentica: «Solo la parola di Dio, rappresentata qui da Gesù, è normativa e capace di dare chiarezza». Preferisco un dialogo franco ed esente da sincretismi, che non minimizzi o passi sotto silenzio le differenze –attraverso un riconoscimento di pari dignità – che non un dialogo che parte dall’intenzione di un reciproco vivificarsi al di là dei monoliti delle tradizioni e poi si piega tutto da una parte sola: «il nostro cammino interreligioso deve consistere soprattutto nel convertirci radicalmente alle parole di Gesù e, a partire da esse, aiutare gli altri a compiere lo stesso percorso», parole che sono «assolutamente autentiche e affidabili, perché contengono anche la giusta critica alle tradizioni religiose degradate». Aggiungo che non mi scandalizza affatto l’intento di convertire gli altri alla propria fede, purché non lo si faccia affermando il disvalore del percorso religioso altrui.
Non contesto le eccellenti e immutate intenzioni del Cardinale Martini, ma un dialogo in cui una delle parti è definita «assolutamente autentica e affidabile» e l’altra è legata a una tradizione «degradata», non più autentica, inaffidabile e «decaduta», non è paritario ed evoca – contro ogni intenzione, non ne dubito – l’antica teologia della sostituzione. Bernardelli si sorprenderà forse se dico che sarei pronto a illustrare certi aspetti che ritengo degradati della tradizione ebraica. Ma se si pretende di definirli come conseguenza del mancato riconoscimento della divinità di Gesù, nascono implicazioni teologiche pesanti che portano proprio all’idea della revoca del dono di Dio. Un dialogo serio e proficuo consiste nel riflettere attentamente sulle reazioni che le nostre affermazioni provocano negli altri, e non nel liquidarle come espressione di una volontà (inevitabilmente poco onesta) di «forzare le cose facendo dire ad altri quello che non dicono», invece di chiedersi se non sia stato detto qualcosa di cui non si sono valutate appieno le implicazioni.
Giorgio Israel
L'unico commento che mi sento di fare è che parlare serve sempre. Parlando ci si chiarisce. Per questo il "dialogo" è utile. E questo botta e risposta non ha chiuso la questione. Messa da parte la questione delle intenzioni - non ho mai pensato di mettere in discussione le intenzioni del Cardinale Martini e ancor meno di aver insinuato neppure lontanamente un suo sentimento non aperto all'ebraismo - quel che emerge sono due diversi modi di stabilire il dialogo ebraico-cristiano. Al di là delle intenzioni - ripeto - la visione del Cardinale Martini non conduce su un terreno proficuo, bensì su quello del sincretismo o della confusione di piani, in cui uno dei due interlocutori si inclina verso l'altro. L'impostazione proposta da Benedetto XVI è, a mio avviso, quella giusta.
Ho intenzione di tornare sulla questione in modo approfondito in un altro articolo. Per ora, mi limito a offrire alla riflessione questo testo del rabbino David Berger. Non è precisamente il mio punto di vista, perché è piuttosto quello di un rabbino ortodosso e preoccupato principalmente di difendere l'ortodossia. Ma tanto più è significativo, in quanto spiega bene perché l'approccio dell'attuale Papa è quello più rispettoso dell'interlocutore - anche di un interlocutore ortodosso! - e che chiama a un reciproco rispetto, a differenza di altri approcci, per quanto dettati dalle migliori intenzioni:
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Rabbi David Berger on genuine "respect" for religious identity of the other
When Dominus Iesus was first released by the Congregation for the Doctrine of the Faith, there was a clamor among concerned liberal Catholics that the Vatican's insistence on the "unicity and salvific universality" of Jesus Christ and the Church constituted a severe impediment for ecumenical and interreligious dialogue. Among the Jewish responses to the document, I was intrigued and impressed by Rabbi David Berger, who distinguished himself by his acknowledgement of the right of Christians to be themselves ("On Dominus Iesus and the Jews"), going so far as to agree with a qualified "supercessionism" as found in Cardinal Ratzingers's Many Religions, One Covenant (Ignatius, 1999):
"The Sinai covenant," writes Cardinal Ratzinger, "is indeed superseded. But once what was provisional in it has been swept away we see what is truly definitive in it. The New Covenant, which becomes clearer and clearer as the history of Israel unfolds.., fulfills the dynamic expectation found in [the Sinai covenant]." (pp. 70-71) And in another formulation, "All cultic ordinances of the Old Testament are seen to be taken up into [Jesus'] death and brought to their deepest meaning .... The universalizing of the Torah by Jesus...preserves the unity of cult and ethos The entire cult is bound together in the Cross, indeed, for the first time has become fully real." Cardinal Ratzinger, then, who has also declared that despite Israel's special mission at this stage of history, "we wait for the instant in which Israel will say yes to Christ," (National Catholic Reporter, Oct. 6, 2000), is a supersessionist.
At this point, we need to confront the real question, to wit, is there anything objectionable about this position? In a dialogical environment in which the term "supersessionism" has been turned into an epithet by both Jews and Christians, this may appear to be a puzzling question. We need to distinguish, however, between two forms of supersessionism, and in my view Jews have absolutely no right to object to the form endorsed by Cardinal Ratzinger. There is nothing in the core beliefs of Christianity that requires the sort of supersessionism that sees Judaism as spiritually arid, as an expression of narrow, petty legalism pursued in the service of a vengeful God and eventually replaced by a vital religion of universal love. Such a depiction is anti-Jewish, even antisemitic. But Cardinal Ratzinger never describes Judaism in such a fashion. On the contrary, he sees believing Jews as witnesses through their observance of Torah to the commitment to God's will, to the establishment of his kingdom even in the pre-messianic world, and to faith in a wholly just world after the ultimate redemption. (pp. 104-105) This understanding of Jews as a witness people is very different from the original Augustinian version in which Jews testified to Christian truth through their validation of the Hebrew Bible and their interminable suffering in exile.
For Jews to denounce this sort of supersessionism as morally wrong and disqualifying in the context of dialogue is to turn dialogue into a novel form of religious intimidation. As Rabbi Joseph B. Soloveitchik understood very well, such a position is pragmatically dangerous for Jews, who become vulnerable to reciprocal demands for theological reform of Judaism, and it is even morally wrong. . . .
Berger goes on turn the argument of Jewish critics of Dominus Iesus on its head, pointing out that Jews must accord Christianity the same respect they wish to retain for their own religion:
Now, let us assume that I respect the Christian religion, as I do. Let us assume further that I respect believing Christians, as I do, for qualities that emerge precisely out of their Christian faith. But I believe that the worship of Jesus as God is a serious religious error displeasing to God even if the worshipper is a non-Jew, and that at the end of days Christians will come to recognize this. Is this belief immoral? Does it disqualify me as a participant in dialogue? Does it entitle a Christian to denounce me for adhering to a teaching of contempt? I hope the answer to these questions is "no." If it is "yes," then interfaith dialogue is destructive of traditional Judaism and must be abandoned forthwith. We would face a remarkable paradox. Precisely because of its striving for interfaith respect and understanding, dialogue would become an instrument of religious imperialism.
Once I take this position, I must extend it to Christians as well. As long as Christians do not vilify Judaism and Jews in the manner that I described earlier, they have every right to assert that Judaism errs about religious questions of the most central importance, that equality in dialogue does not mean the equal standing of the parties' religious doctrines, that at the end of days Jews will recognize the divinity of Jesus, even that salvation is much more difficult for one who stands outside the Catholic Church. If I were to criticize Cardinal Ratzinger for holding these views, I would be applying an egregious double standard. I am not unmindful of the fact that these doctrines, unlike comparable ones in Judaism, have served as a basis for persecution through the centuries. Nonetheless, once a Christian has explicitly severed the link between such beliefs and anti-Jewish attitudes and behavior, one cannot legitimately demand that he or she abandon them.
It wouldn't be fair to discuss Rabbi Berger's agreement with Ratzinger without acknowledging that he goes on to express his discomfort with his call in Many Religions that "mission and dialogue should no longer be opposites but should mutually interpenetrate" and that "proclamation of the gospel must be necessarily a dialogical process," and Dominus Iesus's reminder that the "primary commitment" of Catholics was to "[proclaim] to all people the truth definitively revealed to the Lord."
Rabbi Berger and Cardinal Ratzinger will probably "agree to disagree" until Moshiach comes (or, as Christians would say, returns) -- but in recognizing that Christianity's call to salvation in Christ is applicable to all, and that Christians are entitled to this belief without feeling compelled to water it down for the sake of "can't we all just get along" contemporary pluralism, I believe he demonstrates far greater respect for our faith than some of those currently participating in interreligious dialogue.
Dovrebbe essere evidente che un ebreo può essere di sinistra o di destra. Dovrebbe essere altrettanto evidente che l’ebraismo e il popolo ebraico non sono né di destra né di sinistra. Eppure si riaffaccia la tendenza, nel seno dell’ebraismo italiano, a stabilire che i cromosomi o il Dna degli ebrei e dell’ebraismo sarebbero di sinistra. È forse per questo impulso a schierarsi politicamente, per giunta su basi genetiche, che si affaccia anche la propensione a valutare i cattolici e il dialogo ebraico-cristiano secondo che l’interlocutore sia ritenuto e (magari superficialmente) classificato di destra o di sinistra.
Colpisce al riguardo l’occhiuta diffidenza con cui alcuni ambienti guardano all’attuale pontefice (comunemente considerato “di destra”), levando subito alti lai al minimo accenno di qualche mossa che possa sembrare discutibile, e addirittura gridando alla crisi del dialogo ebraico-cristiano, mentre non si è ancora udita una parola in merito alle tesi del recente libro del Cardinale Carlo Maria Martini (emblema del progressismo cattolico), Le tenebre e la luce, di cui La Repubblica ha anticipato, senza commenti, i passi più sensibili per l’ebraismo.
Dovrebbe essere superfluo ricordare che la “Nostra Aetate” si limitava a dire degli ebrei che sono «ancora» carissimi a Dio e da rispettare per «religiosa carità evangelica». Giovanni Paolo II fece un deciso passo avanti affermando che «chi incontra Gesù, incontra l’ebraismo». L’attuale Papa Benedetto XVI è andato ancora più in là asserendo che «i doni di Dio sono irrevocabili». Non sembra che sia stata sufficientemente valutata l’importanza storica di una simile affermazione che mette in soffitta la “teologia della sostituzione”, ovvero la tesi secondo cui l’elezione di Israele è stata revocata e sostituita con quella conferita al popolo cristiano ed alla Chiesa. Il recente libro del Papa (Gesù di Nazaret) prosegue su tale via, perseguendo l’obbiettivo indicato nel discorso alla Sinagoga di Colonia, ovvero di «fare passi avanti nella valutazione, dal punto di vista teologico, del rapporto fra ebraismo e cristianesimo», senza «minimizzare o passare sotto silenzio le differenze». Il libro ha come uno dei nodi centrali il confronto con il libro del rabbino Jacob Neusner, A Rabbi talks with Jesus. In un dialogo profondo e rispettoso si adducono argomenti in sostegno della tesi cristiana proprio attraverso l’analisi del discorso con cui Neusner sostiene l’inaccettabilità per un ebreo delle tesi del Discorso della montagna. Senza entrare nel merito, quel che conta è che l’analisi assume come dato che l’ebraismo non è un orpello del passato, morto e senza funzione, e che la via un cristiano verso la propria fede non può che partire dal dialogo con un ebraismo vivo.
Guardiamo invece a come il Cardinale Martini affronta il tema del processo a Gesù. Martini sostiene che il Vangelo di Giovanni presenta questo processo come una “farsa” e una “caricatura” al fine di mettere in luce «il crollo di un’istituzione che avrebbe avuto il compito primario di riconoscere il Messia, verificandone le prove. Sarebbe stato questo l’atto giuridico più alto di tutta la sua storia. Invece fallisce proprio lo scopo fondamentale». Dare per scontato proprio quel che non lo è – e cioè che il Sinedrio fosse un’istituzione che «era sorta in vista» di questa «occasione provvidenziale» e che l’avrebbe persa – permette a Martini, con un salto logico sconcertante, di dedurre la fine storica dell’ebraismo. Non si tratta soltanto della «decadenza di un’istituzione religiosa»: «si leggono ancora i testi sacri, però non sono più compresi, non hanno più forza, accecano invece di illuminare». Si tratta della decadenza dell’intera tradizione ebraica che, in quanto non più “autentica”, va quindi radicalmente superata: «Molte volte ho insistito sulla necessità di giungere a superare le tradizioni religiose quando non sono più autentiche». E quale sia l’esito di questo superamento è quasi superfluo dirlo: «Solo la parola di Dio, rappresentata qui da Gesù, è normativa e capace di dare chiarezza».
A questo punto, Martini sottolinea quale sia la sua concezione del dialogo interreligioso: non considerare le religioni come «monoliti immutabili», bensì «fermentarci e vivificarci a vicenda» partendo dall’assunto che anche le tradizioni possono decadere. Pertanto, al di là di un dialogo spesso formale «il nostro cammino interreligioso deve consistere soprattutto nel convertirci radicalmente alle parole di Gesù e, a partire da esse, aiutare gli altri a compiere lo stesso percorso». E queste parole sono quelle espresse nel Discorso della montagna, «assolutamente autentiche e affidabili, perché contengono anche la giusta critica alle tradizioni religiose degradate». Come se ancora non fosse chiaro.
Non mi sono mai scandalizzato che alcune religioni e religiosi vogliano convertire gli altri alla propria fede. È legittimo proporre il valore del proprio percorso. Purché non lo si faccia con la violenza, che non è soltanto quella fisica, ma anche quella consistente nell’affermare il disvalore del percorso religioso altrui. Nel caso dei rapporti ebraico-cristiani – resi delicati da un passato tanto dolente – affermare questo disvalore significa né più né meno sostenere che il dono di Dio è stato revocato. Pertanto, il cardinale Martini ha riproposto – e in termini molto brutali, insistendo su aggettivi spiacevoli – la teologia della sostituzione, facendo un passo persino indietro alla “Nostra Aetate”. Chi voglia dialogare con lui (e con chi la pensa come lui) sa quale sia l’intenzione e l’unico possibile esito di tale dialogo: la conversione “radicale” alle parole di Gesù e il riconoscimento del carattere ormai “degradato”, “decaduto” e “non autentico” dell’ebraismo.
È probabile che una simile tesi sia frutto della volontà del Cardinale Martini di contrapporsi punto per punto alle tesi del Papa; e quindi che la sua sia una replica proprio all’impostazione del libro Gesù di Nazaret. È comunque assai deprimente che questa contrapposizione si giochi sulla pelle degli ebrei e del dialogo ebraico-cristiano cui Martini, pur di fare il controcanto a Benedetto XVI, assesta un colpo brutale.
Non si può non notare che si sono sollevate polemiche a non finire, spesso capziose, sulla reintroduzione della Messa in latino e sulla formula di auspicio di conversione degli ebrei – non della formula concernenti i “perfidi giudei” che è definitivamente abolita – che potrebbe essere letta il venerdì santo, e che comunque apparteneva alla versione dovuta al Papa “progressista” Giovanni XXIII, contro cui nessuno direbbe una parola. Sorvoliamo su altre polemiche ancor più capziose. È strano che nessuno si sia ancora levato a sottolineare la gravità di queste affermazioni del Cardinale Martini che, oltre a riesumare un linguaggio che si sperava definitivamente abbandonato proprio sul tema delicato del “processo a Gesù” – cerca di riesumare quella “teologia della sostituzione” che è la pietra tombale di ogni possibile dialogo ebraico-cristiano. Staremo a vedere. È da augurarsi che nessuno pensi di usare due pesi e due misure per ragioni di Dna.
Giorgio Israel
Sul quotidiano "Avvenire" il precedente articolo è stato commentato al seguente modo da Giorgio Bernardelli (in data 19 dicembre):
Un percorso di riconciliazione tra i più significativi tra quelli lasciatici in eredità dal Novecento. Ma anche una strada in cui non si può mai dare per scontato che ferite antiche siano davvero rimarginate. Sono i due volti che – fin dalla dichiarazione Nostra Aetate – hanno scandito le diverse fasi del dialogo tra cristiani ed ebrei. Cammino non senza fatiche e incomprensioni. Ma proprio queste difficoltà ci hanno insegnato l’importanza di capire il pensiero dell’altro, senza fermarsi alle sue caricature. Per questi motivi mi ha molto sorpreso un articolo apparso sull’ultimo numero di Shalom, la rivista della Comunità ebraica di Roma. Titolo e sottotitolo in questo caso sono molto efficaci: Il passo indietro del cardinale Martini. Nel suo ultimo libro ripropone la 'teoria della sostituzione', affermando la fine storica dell’ebraismo. Non nascondo di essere sobbalzato sulla sedia: il cardinale Martini che – a Milano come a Gerusalemme – conosciamo noi è quello dei dialoghi con l’allora rabbino capo Giuseppe Laras o quello della laurea honoris causa da poco conferitagli dalla Hebrew University (il più prestigioso ateneo israeliano) proprio per l’amicizia nei confronti del popolo ebraico. Possibile una svolta così improvvisa? Lo stupore è ulteriormente cresciuto guardando il nome dell’autore dell’articolo: il professor Giorgio Israel, voce importante dell’ebraismo itarliano di oggi. Un uomo la cui lucidità di pensiero su querstioni culturali decisive come il rapporto tra scienza e antropologia si è avuto più volte il piacere di presentare ai lettori su queste pagine. L’articolo prende spunto da un brano del recente libro del cardinale Martini Le tenebre e la luce (Piemme), anticipato da un quotidiano. Nel brano in questione Martini analizza il racconto che il quarto evangelista offre del processo di Gesù davanti al sommo sacerdote. Il cardinale-biblista sottolinea in particolare un punto: il fatto che Giovanni lo presenti come un «processo farsa», con l’intenzione «probabilmente di sottolineare un indice di decadenza religiosa e giuridica». Agli occhi dell’evangelista – sostiene Martini – «ci troviamo di fronte al crollo di una istituzione che avrebbe avuto il compito primario di riconoscere il Messia». Questo – continua il porporato – pone «il problema gravissimo della possibilità che anche un’istituzione religiosa decada: si leggono ancora i testi sacri, però non sono più compresi, accecano invece di illuminare». Un pericolo che vale per tutte le religioni. E infatti – poco più avanti e al contesto cristiano cui sta parlando – l’arcivescovo emerito di Milano indica come antidoto «la conversione radicale » alle parole pronunciate da Gesù nel Discorso della montagna, da intendere come bussola anche nel modo (cristiano) di porsi di fronte al dialogo interreligioso. È una lettura su cui si può ovviamente essere d’accordo oppure no. Quello che però è molto pericoloso è forzare le cose facendo dire ad altri quello che non dicono. Perché la conclusione di Israel è che con questa tesi Martini «afferma né più né meno che il dono di Dio [al popolo ebraico, ndr] è stato revocato. Chi voglia dialogare con lui sa quale sia l’intenzione e l’unico possibile esito di tale dialogo: la conversione 'radicale' alle parole di Gesù e il riconoscimento del carattere ormai 'degradato', 'decaduto' e 'non autentico' dell’ebraismo ». Nella foga arriva a dire anche che con questo suo libro Martini vuole contrapporsi al Gesù di Nazareth di Benedetto XVI, che invece (e questo è vero) contiene spunti molto interessanti per il rapporto tra ebrei e cristiani. Ma qui – ormai – siamo nel dominio della fantapolitica ecclesiastica. Forse sarebbe meglio leggere quel libro nel suo insieme, senza fermarsi all’anticipazione fornita da un quotidiano. Magari accanto a qualcuno degli innumerevoli interventi del cardinale Martini sul dialogo ebraico-cristiano. Così ci si accorgerà che si può leggere i racconti della Passione di Gesù con occhi diversi. Ma senza per questo amare di meno quel popolo che noi cristiani finalmente stiamo imparando a riscoprire come nostra radice.
Giorgio Bernardelli
E questa è la mia replica - pubblicata cortesemente da Avvenire il giorno seguente.
Ringrazio Giorgio Bernardelli per le parole di stima nei miei confronti dettate, immagino, anche dall’importanza che attribuisco al dialogo ebraico-cristiano. Conosco bene il ruolo fondamentale che ha avuto il Cardinale Martini in tale dialogo. È lui che, nell’ambito del colloquio internazionale dell’International Council of Christian and Jews tenutosi a Bologna nel 1984, parlò della «fede di Abramo nel Dio che ha scelto Israele con irrevocabile amore». Non è quindi con la foga che mi attribuisce Bernardelli che ho riflettuto sull’articolo-anticipazione del libro del Cardinale Martini che La Repubblica ha pubblicato a sua firma, trovandone alcuni passaggi dolorosamente e inspiegabilmente spiacevoli. Temo che sia stato piuttosto Bernardelli a lasciarsi prendere dalla foga polemica attribuendomi l’intenzione di far dire a Martini quel che non ha detto e omettendo, proprio i passaggi cruciali che mi hanno negativamente colpito.
Non si tratta neppure del parlare di “crollo” o “decadenza” di un’“istituzione religiosa” – il Sinedrio – che sarebbe affermazione comprensibile se pure alquanto dura. Quanto del trasferire una considerazione relativa a una circostanza storicamente determinata alla tradizione ebraica in quanto tale, con l’ammonimento: «Molte volte ho insistito sulla necessità di giungere a superare le tradizioni religiose quando non sono più autentiche»: tradizione e non più soltanto un’istituzione. Ma condividerei anche una simile affermazione generale, se non fosse che, nella fattispecie, quella ebraica viene esibita come emblema di una tradizione degradata e quella cristiana come autentica. Posso anche capire che il Cardinale Martini sia poco interessato al dialogo teologico e piuttosto a un dialogo che ci «fermenti» e «vivifichi a vicenda» con parole di fede «vere» e «autentiche», purché – ripeto – alla fin dei conti non accada che una soltanto delle due sia considerata autentica: «Solo la parola di Dio, rappresentata qui da Gesù, è normativa e capace di dare chiarezza». Preferisco un dialogo franco ed esente da sincretismi, che non minimizzi o passi sotto silenzio le differenze –attraverso un riconoscimento di pari dignità – che non un dialogo che parte dall’intenzione di un reciproco vivificarsi al di là dei monoliti delle tradizioni e poi si piega tutto da una parte sola: «il nostro cammino interreligioso deve consistere soprattutto nel convertirci radicalmente alle parole di Gesù e, a partire da esse, aiutare gli altri a compiere lo stesso percorso», parole che sono «assolutamente autentiche e affidabili, perché contengono anche la giusta critica alle tradizioni religiose degradate». Aggiungo che non mi scandalizza affatto l’intento di convertire gli altri alla propria fede, purché non lo si faccia affermando il disvalore del percorso religioso altrui.
Non contesto le eccellenti e immutate intenzioni del Cardinale Martini, ma un dialogo in cui una delle parti è definita «assolutamente autentica e affidabile» e l’altra è legata a una tradizione «degradata», non più autentica, inaffidabile e «decaduta», non è paritario ed evoca – contro ogni intenzione, non ne dubito – l’antica teologia della sostituzione. Bernardelli si sorprenderà forse se dico che sarei pronto a illustrare certi aspetti che ritengo degradati della tradizione ebraica. Ma se si pretende di definirli come conseguenza del mancato riconoscimento della divinità di Gesù, nascono implicazioni teologiche pesanti che portano proprio all’idea della revoca del dono di Dio. Un dialogo serio e proficuo consiste nel riflettere attentamente sulle reazioni che le nostre affermazioni provocano negli altri, e non nel liquidarle come espressione di una volontà (inevitabilmente poco onesta) di «forzare le cose facendo dire ad altri quello che non dicono», invece di chiedersi se non sia stato detto qualcosa di cui non si sono valutate appieno le implicazioni.
Giorgio Israel
L'unico commento che mi sento di fare è che parlare serve sempre. Parlando ci si chiarisce. Per questo il "dialogo" è utile. E questo botta e risposta non ha chiuso la questione. Messa da parte la questione delle intenzioni - non ho mai pensato di mettere in discussione le intenzioni del Cardinale Martini e ancor meno di aver insinuato neppure lontanamente un suo sentimento non aperto all'ebraismo - quel che emerge sono due diversi modi di stabilire il dialogo ebraico-cristiano. Al di là delle intenzioni - ripeto - la visione del Cardinale Martini non conduce su un terreno proficuo, bensì su quello del sincretismo o della confusione di piani, in cui uno dei due interlocutori si inclina verso l'altro. L'impostazione proposta da Benedetto XVI è, a mio avviso, quella giusta.
Ho intenzione di tornare sulla questione in modo approfondito in un altro articolo. Per ora, mi limito a offrire alla riflessione questo testo del rabbino David Berger. Non è precisamente il mio punto di vista, perché è piuttosto quello di un rabbino ortodosso e preoccupato principalmente di difendere l'ortodossia. Ma tanto più è significativo, in quanto spiega bene perché l'approccio dell'attuale Papa è quello più rispettoso dell'interlocutore - anche di un interlocutore ortodosso! - e che chiama a un reciproco rispetto, a differenza di altri approcci, per quanto dettati dalle migliori intenzioni:
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Rabbi David Berger on genuine "respect" for religious identity of the other
When Dominus Iesus was first released by the Congregation for the Doctrine of the Faith, there was a clamor among concerned liberal Catholics that the Vatican's insistence on the "unicity and salvific universality" of Jesus Christ and the Church constituted a severe impediment for ecumenical and interreligious dialogue. Among the Jewish responses to the document, I was intrigued and impressed by Rabbi David Berger, who distinguished himself by his acknowledgement of the right of Christians to be themselves ("On Dominus Iesus and the Jews"), going so far as to agree with a qualified "supercessionism" as found in Cardinal Ratzingers's Many Religions, One Covenant (Ignatius, 1999):
"The Sinai covenant," writes Cardinal Ratzinger, "is indeed superseded. But once what was provisional in it has been swept away we see what is truly definitive in it. The New Covenant, which becomes clearer and clearer as the history of Israel unfolds.., fulfills the dynamic expectation found in [the Sinai covenant]." (pp. 70-71) And in another formulation, "All cultic ordinances of the Old Testament are seen to be taken up into [Jesus'] death and brought to their deepest meaning .... The universalizing of the Torah by Jesus...preserves the unity of cult and ethos The entire cult is bound together in the Cross, indeed, for the first time has become fully real." Cardinal Ratzinger, then, who has also declared that despite Israel's special mission at this stage of history, "we wait for the instant in which Israel will say yes to Christ," (National Catholic Reporter, Oct. 6, 2000), is a supersessionist.
At this point, we need to confront the real question, to wit, is there anything objectionable about this position? In a dialogical environment in which the term "supersessionism" has been turned into an epithet by both Jews and Christians, this may appear to be a puzzling question. We need to distinguish, however, between two forms of supersessionism, and in my view Jews have absolutely no right to object to the form endorsed by Cardinal Ratzinger. There is nothing in the core beliefs of Christianity that requires the sort of supersessionism that sees Judaism as spiritually arid, as an expression of narrow, petty legalism pursued in the service of a vengeful God and eventually replaced by a vital religion of universal love. Such a depiction is anti-Jewish, even antisemitic. But Cardinal Ratzinger never describes Judaism in such a fashion. On the contrary, he sees believing Jews as witnesses through their observance of Torah to the commitment to God's will, to the establishment of his kingdom even in the pre-messianic world, and to faith in a wholly just world after the ultimate redemption. (pp. 104-105) This understanding of Jews as a witness people is very different from the original Augustinian version in which Jews testified to Christian truth through their validation of the Hebrew Bible and their interminable suffering in exile.
For Jews to denounce this sort of supersessionism as morally wrong and disqualifying in the context of dialogue is to turn dialogue into a novel form of religious intimidation. As Rabbi Joseph B. Soloveitchik understood very well, such a position is pragmatically dangerous for Jews, who become vulnerable to reciprocal demands for theological reform of Judaism, and it is even morally wrong. . . .
Berger goes on turn the argument of Jewish critics of Dominus Iesus on its head, pointing out that Jews must accord Christianity the same respect they wish to retain for their own religion:
Now, let us assume that I respect the Christian religion, as I do. Let us assume further that I respect believing Christians, as I do, for qualities that emerge precisely out of their Christian faith. But I believe that the worship of Jesus as God is a serious religious error displeasing to God even if the worshipper is a non-Jew, and that at the end of days Christians will come to recognize this. Is this belief immoral? Does it disqualify me as a participant in dialogue? Does it entitle a Christian to denounce me for adhering to a teaching of contempt? I hope the answer to these questions is "no." If it is "yes," then interfaith dialogue is destructive of traditional Judaism and must be abandoned forthwith. We would face a remarkable paradox. Precisely because of its striving for interfaith respect and understanding, dialogue would become an instrument of religious imperialism.
Once I take this position, I must extend it to Christians as well. As long as Christians do not vilify Judaism and Jews in the manner that I described earlier, they have every right to assert that Judaism errs about religious questions of the most central importance, that equality in dialogue does not mean the equal standing of the parties' religious doctrines, that at the end of days Jews will recognize the divinity of Jesus, even that salvation is much more difficult for one who stands outside the Catholic Church. If I were to criticize Cardinal Ratzinger for holding these views, I would be applying an egregious double standard. I am not unmindful of the fact that these doctrines, unlike comparable ones in Judaism, have served as a basis for persecution through the centuries. Nonetheless, once a Christian has explicitly severed the link between such beliefs and anti-Jewish attitudes and behavior, one cannot legitimately demand that he or she abandon them.
It wouldn't be fair to discuss Rabbi Berger's agreement with Ratzinger without acknowledging that he goes on to express his discomfort with his call in Many Religions that "mission and dialogue should no longer be opposites but should mutually interpenetrate" and that "proclamation of the gospel must be necessarily a dialogical process," and Dominus Iesus's reminder that the "primary commitment" of Catholics was to "[proclaim] to all people the truth definitively revealed to the Lord."
Rabbi Berger and Cardinal Ratzinger will probably "agree to disagree" until Moshiach comes (or, as Christians would say, returns) -- but in recognizing that Christianity's call to salvation in Christ is applicable to all, and that Christians are entitled to this belief without feeling compelled to water it down for the sake of "can't we all just get along" contemporary pluralism, I believe he demonstrates far greater respect for our faith than some of those currently participating in interreligious dialogue.
mercoledì 26 dicembre 2007
Massì, diamoci al matematicamente corretto. Mai più sottrazioni, solo “diverse addizioni”
Mi è pervenuto di recente il programma di un convegno sul tema “i bambini diversamente vivaci”. Ho provato a controllare se un siffatto titolo sorprendesse soltanto me chiedendo a numerosi amici cosa ne pensassero. Ho raccolto soltanto reazioni di stupore incredulo e di incomprensione: che diamine vuol dire “diversamente vivace”? Per la verità, penso di essere un po’ più “avanti” di questi amici e di sapere più o meno a cosa ci si riferisca. Ricordate quel cortometraggio di Charlie Chaplin dal titolo Il Pellegrino? A un certo punto, una coppia con bambino entra in visita in un salotto e il piccolo ne combina di tutti i colori: scalcia in continuazione gli stinchi di tutti e, dopo aver appiccicato la carta moschicida in faccia all’ospite, copre una torta con il cappello del padre che la padrona di casa cosparge involontariamente di abbondante crema. Insomma, una peste, un malandrino, un maleducato Gianburrasca, un delinquentello in erba… No, non ci siamo: qui parla ancora in me un’anima politicamente scorretta. Quel tesoruccio non ha nulla di riprovevole: è soltanto “diversamente vivace” e ci si metta bene in testa che la “diversa vivacità” (al più definibile come “sindrome di iperattività”) è una “risorsa”.
Ho molto riflettuto in questi giorni sulla necessità di demolire a fondo la terminologia politicamente scorretta. Ne ho trovato casi clamorosi anche nella mia disciplina, la matematica. Per esempio, non sfugge a nessuno che, se l’addizione ha qualcosa di nobile e costruttivo, la sottrazione suggerisce qualcosa di losco: evoca la menomazione, l’esser “minorato”. Per cui, propongo che, d’ora in poi, si parli di “diversa addizione” e di “sommare diversamente”. Altrettanto dicasi per la divisione, che è ancor più losca, perché suggerisce la discriminazione e, in fin dei conti, il razzismo. Si dovrà quindi parlare di “diversamente moltiplicare”, poiché nessuno avrà nulla da ridire contro la moltiplicazione, operazione nobilissima. Pure il “calcolo differenziale” evoca subdolamente le classi scolastiche dette un tempo differenziali (ovvero per subnormali) e va quindi opportunamente rinominato “calcolo derivale”. Anche nell’ambito dei numeri si impongono alcune revisioni. Ad esempio, perché chiamare offensivamente “irrazionali” i numeri che non possono essere espressi come rapporto di due numeri interi? Siano detti più rispettosamente numeri “diversamente razionali”. Del resto, anche loro sono una “risorsa”.
Passando poi alla logica, mi colpisce molto la leggerezza con cui si parla di principio d’identità: la riaffermazione delle identità non è forse il cavallo di battaglia dei neocon, dei teocon e di tutta la genìa dei reazionari razzisti? D’ora in poi si dovrà parlare soltanto di principio di “uguaglianza” (volete mettere?) e non importa se insorgeranno i soliti pedanti a dire che identità e uguaglianza non sono la stessa cosa: la tolleranza val bene qualche approssimazione. Anche il principio del terzo escluso evoca un’immagine orrenda: l’esclusione, in fin dei conti l’esclusione del “diverso”. Quindi, d’ora in poi, principio del terzo incluso. E perché escludere il quarto, il quinto e via dicendo? La logica dovrà essere dominata dal principio della multi-inclusione. Facciamo un ulteriore passo avanti. Così come c’insegnano che dal multiculturalismo si deve passare all’interculturalismo, il principio davvero politicamente corretto sarà quello della inter-inclusione. E pazienza se la logica classica va a farsi benedire. Del resto, Aristotele non era un infame schiavista, uno sporco reazionario? Diciamo la verità, è colpa sua se ci troviamo alle prese con Bush.
(Tempi, 20 dicembre 2007)
Ho molto riflettuto in questi giorni sulla necessità di demolire a fondo la terminologia politicamente scorretta. Ne ho trovato casi clamorosi anche nella mia disciplina, la matematica. Per esempio, non sfugge a nessuno che, se l’addizione ha qualcosa di nobile e costruttivo, la sottrazione suggerisce qualcosa di losco: evoca la menomazione, l’esser “minorato”. Per cui, propongo che, d’ora in poi, si parli di “diversa addizione” e di “sommare diversamente”. Altrettanto dicasi per la divisione, che è ancor più losca, perché suggerisce la discriminazione e, in fin dei conti, il razzismo. Si dovrà quindi parlare di “diversamente moltiplicare”, poiché nessuno avrà nulla da ridire contro la moltiplicazione, operazione nobilissima. Pure il “calcolo differenziale” evoca subdolamente le classi scolastiche dette un tempo differenziali (ovvero per subnormali) e va quindi opportunamente rinominato “calcolo derivale”. Anche nell’ambito dei numeri si impongono alcune revisioni. Ad esempio, perché chiamare offensivamente “irrazionali” i numeri che non possono essere espressi come rapporto di due numeri interi? Siano detti più rispettosamente numeri “diversamente razionali”. Del resto, anche loro sono una “risorsa”.
Passando poi alla logica, mi colpisce molto la leggerezza con cui si parla di principio d’identità: la riaffermazione delle identità non è forse il cavallo di battaglia dei neocon, dei teocon e di tutta la genìa dei reazionari razzisti? D’ora in poi si dovrà parlare soltanto di principio di “uguaglianza” (volete mettere?) e non importa se insorgeranno i soliti pedanti a dire che identità e uguaglianza non sono la stessa cosa: la tolleranza val bene qualche approssimazione. Anche il principio del terzo escluso evoca un’immagine orrenda: l’esclusione, in fin dei conti l’esclusione del “diverso”. Quindi, d’ora in poi, principio del terzo incluso. E perché escludere il quarto, il quinto e via dicendo? La logica dovrà essere dominata dal principio della multi-inclusione. Facciamo un ulteriore passo avanti. Così come c’insegnano che dal multiculturalismo si deve passare all’interculturalismo, il principio davvero politicamente corretto sarà quello della inter-inclusione. E pazienza se la logica classica va a farsi benedire. Del resto, Aristotele non era un infame schiavista, uno sporco reazionario? Diciamo la verità, è colpa sua se ci troviamo alle prese con Bush.
(Tempi, 20 dicembre 2007)
martedì 18 dicembre 2007
Neanche la scienza convince gli scientisti a smetterla di accanirsi contro l'embrione
All'indomani dell'esito del referendum sulla legge 40 per la procreazione assistita scrissi sul Foglio un articolo il cui titolo era "Lettera ai nuovi bigotti" e la cui tesi era che se è "bigotto" chi aderisce a un complesso di princìpi preconcetti in modo cieco, senza ammettere neppure in linea di principio la possibilità di un loro ripensamento critico, e se è "clericale" chi si trincera entro una corporazione che difende con tutti i mezzi il "bigottismo", allora pochi hanno titolo a essere definiti "bigotti-clericali" come gli scientisti, ovvero coloro che restringono il dominio della razionalità alla gestione tecnologica dell'esistente. A distanza di due anni, non poteva darsi una conferma più clamorosa di quella tesi.
Era da attendersi un'ondata di giubilo di fronte alla notizia che un'equipe dell'università giapponese di Kyoto diretta da Shinya Yamanaka ha scoperto il modo di trasformare cellule staminali umane adulte in modo da presentare le stesse proprietà di quelle embrionali. A ben vedere si è trattato di un successo lungo la via indicata dal rapporto del 2001 della Commissione Dulbecco, voluta dall'allora ministro della Sanità Umberto Veronesi. Niente da fare. Pare che questa notizia sia anzi dispiaciuta ai maniaci dell'embrione, che infatti hanno ripreso a lanciare i loro anatemi contro gli "oscurantisti", come Ernesto Galli Della Loggia che si era permesso di invitarli a mostrare indipendenza intellettuale e a salutare con favore la nuova prospettiva. C'è stato persino chi ha avvertito il Comitato di Bioetica di non approfittarsene per emettere sentenze contro la manipolazione dell'embrione. A Pierluigi Battista, che si stupiva di tanto accanimento contro gli embrioni, ha risposto la segretaria radicale Rita Bernardini con un fuoco d'artificio di denunce della "caccia alle streghe", della lotta contro l'illuminismo, condite di richiami a Galileo - di passaggio, questi ossessivi richiami a Galileo cominciano a insospettire: non sarà che qualcuno crede che Galileo sia stato il direttore di un laboratorio di genetica? - per finire con una bizzarra accusa di ipocrisia agli "oscurantisti", cui si spiega in modo sussiegoso che senza manipolare l'embrione non si sarebbe arrivati a questi risultati. A quanto pare Bernardini ha lavorato con l'equipe del professor Yamanaka.
Resta il fatto che le domande di Galli Della Loggia e di Battista sono rimaste inevase: perché tanto accanimento e perché non cogliere l'occasione di una tregua con chi ha delle remore morali nei confronti della manipolazione degli embrioni? Perché mantenere acceso lo scontro a tutti i costi? E perché tanto accanimento sull'embrione? Ma, in fin dei conti, la risposta è semplice, ed è quella di due anni fa. La sostanza di questo "dalli all'embrione" è ideologica. Due anni fa ci si stracciava le vesti accusando i nemici della manipolazione dell'embrione di volere la morte di Luca Coscioni, come se la sua vita dipendesse dall'esito del referendum in Italia. La verità è che l'embrione non c'entra nulla e, al limite, non c'entra nulla neppure la scienza. Si tratta soltanto di simboli o pretesti di una battaglia volta ad affermare i princìpi di un'ideologia laicista, antireligiosa e scientista, la cui vera sostanza è rappresentata dalla dilagante letteratura sulla contrapposizione tra scienza e fede o dalle intemerate esagitate di personaggi che hanno molta voglia di litigare e nessuna di ragionare. Dovrebbero almeno avere la decenza di non mascherare malamente il loro bigottismo con vacue e trombonesche tirate sulla razionalità scientifica.
(Tempi, 13 dicembre 2007)
Era da attendersi un'ondata di giubilo di fronte alla notizia che un'equipe dell'università giapponese di Kyoto diretta da Shinya Yamanaka ha scoperto il modo di trasformare cellule staminali umane adulte in modo da presentare le stesse proprietà di quelle embrionali. A ben vedere si è trattato di un successo lungo la via indicata dal rapporto del 2001 della Commissione Dulbecco, voluta dall'allora ministro della Sanità Umberto Veronesi. Niente da fare. Pare che questa notizia sia anzi dispiaciuta ai maniaci dell'embrione, che infatti hanno ripreso a lanciare i loro anatemi contro gli "oscurantisti", come Ernesto Galli Della Loggia che si era permesso di invitarli a mostrare indipendenza intellettuale e a salutare con favore la nuova prospettiva. C'è stato persino chi ha avvertito il Comitato di Bioetica di non approfittarsene per emettere sentenze contro la manipolazione dell'embrione. A Pierluigi Battista, che si stupiva di tanto accanimento contro gli embrioni, ha risposto la segretaria radicale Rita Bernardini con un fuoco d'artificio di denunce della "caccia alle streghe", della lotta contro l'illuminismo, condite di richiami a Galileo - di passaggio, questi ossessivi richiami a Galileo cominciano a insospettire: non sarà che qualcuno crede che Galileo sia stato il direttore di un laboratorio di genetica? - per finire con una bizzarra accusa di ipocrisia agli "oscurantisti", cui si spiega in modo sussiegoso che senza manipolare l'embrione non si sarebbe arrivati a questi risultati. A quanto pare Bernardini ha lavorato con l'equipe del professor Yamanaka.
Resta il fatto che le domande di Galli Della Loggia e di Battista sono rimaste inevase: perché tanto accanimento e perché non cogliere l'occasione di una tregua con chi ha delle remore morali nei confronti della manipolazione degli embrioni? Perché mantenere acceso lo scontro a tutti i costi? E perché tanto accanimento sull'embrione? Ma, in fin dei conti, la risposta è semplice, ed è quella di due anni fa. La sostanza di questo "dalli all'embrione" è ideologica. Due anni fa ci si stracciava le vesti accusando i nemici della manipolazione dell'embrione di volere la morte di Luca Coscioni, come se la sua vita dipendesse dall'esito del referendum in Italia. La verità è che l'embrione non c'entra nulla e, al limite, non c'entra nulla neppure la scienza. Si tratta soltanto di simboli o pretesti di una battaglia volta ad affermare i princìpi di un'ideologia laicista, antireligiosa e scientista, la cui vera sostanza è rappresentata dalla dilagante letteratura sulla contrapposizione tra scienza e fede o dalle intemerate esagitate di personaggi che hanno molta voglia di litigare e nessuna di ragionare. Dovrebbero almeno avere la decenza di non mascherare malamente il loro bigottismo con vacue e trombonesche tirate sulla razionalità scientifica.
(Tempi, 13 dicembre 2007)
lunedì 3 dicembre 2007
I bravi censurati, i mediocri idealizzati
Molti non ti credono se spieghi che vi è chi sostiene che in matematica non bisogna “insegnare” gli algoritmi della divisione ma lasciare che lo studente se li reinventi da solo. Tutto in nome della delirante polemica contro l’insegnamento “trasmissivo” – che trova esilaranti manifestazioni come la proclamazione, in Spagna, del “diritto del bambino all’errore”, insomma a fare 2 + 2 = 5 – che è il cascame di un sessantotto che non muore mai. E poi ci si lamenta che un qualsiasi studente indiano o giapponese surclassa i suoi coetanei europei ed anche americani in matematica: perché studia come da noi trent’anni fa.
Leggo in ritardo un articolo su L’Unità in cui si esalta la seguente prosa di Tullio De Mauro: «C’è una fase di maturazione lenta, fino a 18 o 20 anni, che è preceduta da numerose oscillazioni. Per questo motivo ritengo che il sistema ideale sia quello di tenere conto della media complessiva dei risultati. Puoi andare male in matematica e bene in storia o viceversa, l’importante è che ci sia una certa media minima». Chi parla così forse non ha mai visto uno studente in vita sua. Soprattutto, trovo intrigante il concetto di “media minima”, che non ha alcun senso, perché la media di un insieme di risultati è una sola, né massima né minima. Forse De Mauro definisce (malamente) così la media ottenuta scartando i risultati migliori e i peggiori, che è la procedura in voga tra i docimologi.
Addentrandomi un poco in questa bizzarra disciplina ho constatato l’importanza attribuita alla curva a campana di Gauss, che dicono essere l’immagine della ripartizione delle attitudini e qualità, per cui gli individui medi abbondano, mentre i geni e gli idioti sono rari. Se ne deduce l'esistenza di una corrispondenza tra la curva gaussiana e la rappresentazione dei risultati scolastici degli studenti, quando essi sono "normalmente" distribuiti rispetto all'attitudine e quando ricevono un'istruzione uniforme in termini di qualità e di tempo.
Soltanto che: è del tutto arbitrario sostenere che le qualità si possano misurare in modo quantitativo fondato; la distribuzione gaussiana ha senso per grandi numeri ed applicarla a insiemi ristretti di studenti è assurdo; la distribuzione “normale” delle attitudini è un concetto privo di senso e ancor più lo è quello di istruzione “uniforme”. Insomma, il tutto è un’emerita cialtronata che, se la raccontate a uno scienziato propriamente detto, si mette a ridere e poi, preoccupato, ti chiede se esiste qualcuno che prende sul serio idee simili. Purtroppo è così. Su insiemi di valutazioni, voti, test, risultati di quiz (previa verifica della loro conformità alla distribuzione gaussiana) si scartano i risultati migliori e i peggiori, senza tener conto che è proprio in queste zone che si annidano le situazioni più interessanti e indicative. Poi si fa la media sul resto, e si ottiene così la soglia di sufficienza. Il vero movente di queste teorie scombiccherate e improbabili è, in realtà, l’identificazione ideologica di un modello sociale di riferimento. Esso non è dato dai più bravi: a prendere questi come modello si darebbe fondamento alla scuola “selettiva”, “classista” e “repressiva”. No, il modello è dato da coloro che, con orrido termine, vengono chiamati i “normodotati”. È probabilmente in questo senso del tutto qualitativo che si parla di media minima: è la mediocrità. La scuola deve prefigurare una società appiattita sulla mediocrità. Insomma, una triste visione di stile sovietico, propugnata col linguaggio aggressivo del pedagogismo sessantottino.
(Tempi, 29 novembre 2007)
Leggo in ritardo un articolo su L’Unità in cui si esalta la seguente prosa di Tullio De Mauro: «C’è una fase di maturazione lenta, fino a 18 o 20 anni, che è preceduta da numerose oscillazioni. Per questo motivo ritengo che il sistema ideale sia quello di tenere conto della media complessiva dei risultati. Puoi andare male in matematica e bene in storia o viceversa, l’importante è che ci sia una certa media minima». Chi parla così forse non ha mai visto uno studente in vita sua. Soprattutto, trovo intrigante il concetto di “media minima”, che non ha alcun senso, perché la media di un insieme di risultati è una sola, né massima né minima. Forse De Mauro definisce (malamente) così la media ottenuta scartando i risultati migliori e i peggiori, che è la procedura in voga tra i docimologi.
Addentrandomi un poco in questa bizzarra disciplina ho constatato l’importanza attribuita alla curva a campana di Gauss, che dicono essere l’immagine della ripartizione delle attitudini e qualità, per cui gli individui medi abbondano, mentre i geni e gli idioti sono rari. Se ne deduce l'esistenza di una corrispondenza tra la curva gaussiana e la rappresentazione dei risultati scolastici degli studenti, quando essi sono "normalmente" distribuiti rispetto all'attitudine e quando ricevono un'istruzione uniforme in termini di qualità e di tempo.
Soltanto che: è del tutto arbitrario sostenere che le qualità si possano misurare in modo quantitativo fondato; la distribuzione gaussiana ha senso per grandi numeri ed applicarla a insiemi ristretti di studenti è assurdo; la distribuzione “normale” delle attitudini è un concetto privo di senso e ancor più lo è quello di istruzione “uniforme”. Insomma, il tutto è un’emerita cialtronata che, se la raccontate a uno scienziato propriamente detto, si mette a ridere e poi, preoccupato, ti chiede se esiste qualcuno che prende sul serio idee simili. Purtroppo è così. Su insiemi di valutazioni, voti, test, risultati di quiz (previa verifica della loro conformità alla distribuzione gaussiana) si scartano i risultati migliori e i peggiori, senza tener conto che è proprio in queste zone che si annidano le situazioni più interessanti e indicative. Poi si fa la media sul resto, e si ottiene così la soglia di sufficienza. Il vero movente di queste teorie scombiccherate e improbabili è, in realtà, l’identificazione ideologica di un modello sociale di riferimento. Esso non è dato dai più bravi: a prendere questi come modello si darebbe fondamento alla scuola “selettiva”, “classista” e “repressiva”. No, il modello è dato da coloro che, con orrido termine, vengono chiamati i “normodotati”. È probabilmente in questo senso del tutto qualitativo che si parla di media minima: è la mediocrità. La scuola deve prefigurare una società appiattita sulla mediocrità. Insomma, una triste visione di stile sovietico, propugnata col linguaggio aggressivo del pedagogismo sessantottino.
(Tempi, 29 novembre 2007)
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