martedì 9 novembre 2010

Pompei e la cultura calpestata



Per una singolare coincidenza, mentre era da poco crollata la Casa dei Gladiatori di Pompei, ignaro dell’evento, stavo visitando gli scavi di Ostia Antica, non impressionanti come quelli di Pompei ma di grande suggestione e importanza, poiché offrono l’immagine di una città commerciale dell’antica Roma. Mi chiedevo come fosse possibile una tariffa d’ingresso così irrisoria: 6,50 euro, ridotti a 3,25 o a zero per numerose categorie. In cinque abbiamo pagato 6,50 euro. Somme simili non coprono il costo necessario a riscuoterle. Non sarebbe possibile pretendere molto di più e abolire certe assurde facilitazioni? Ma certo che sarebbe possibile. Figuriamoci se un turista, una volta venuto in Italia, si tirerebbe indietro di fronte a una spesa un po’ più consistente! E poi, perché mai nei musei esteri sono presenti negozi che offrono una profusione di oggetti e gadget fantasiosi e anche di qualità, mentre i nostri non vanno oltre una misera offerta di cartoline, matite o t-shirt? La fantasia non arriva neppure a mettere in vendita puzzle dei mosaici, costruzioni dei monumenti per bambini o riproduzioni dei dipinti. All’estero, sfruttano come limoni i quattro zeppi che possiedono, mentre noi, che rigurgitiamo di beni culturali, li esibiamo sciattamente, con la testa girata dall’altra parte, come se la conservazione di questo immenso patrimonio fosse un’incombenza fastidiosa, una condanna; e il suo sfruttamento fosse da lasciare in mano all’esercito dei “ciceroni” fasulli, dei camion di paninari e dei borseggiatori.
Sappiamo bene che anche una gestione oculata di tariffe e negozi servirebbe al più a coprire le spese del personale. Servono investimenti rilevanti, rilevantissimi. Ma come si fa a non capire che questa è la risorsa che rende l’Italia unica al mondo? Pare che sia falsa la notizia che qualcuno nel governo abbia detto che la cultura non si mangia. Meno male, perché pur lasciando da parte la volgarità di una simile espressione, sarebbe stupefacente che non si capisca quale immenso valore economico rappresenta il patrimonio culturale italiano.
Sia ben chiaro. Se vogliamo parlare il linguaggio della verità va detto che su questo tema può scagliare la prima pietra soltanto chi è senza peccati, cioè quasi nessuno. È indubbio che il governo e la maggioranza abbiano le loro colpe. Se il rigore finanziario si esercitasse in modo uniforme su tutti i fronti non vi sarebbe niente da dire. Ma non è così. Gli esempi sono tanti. Basti dire che non si può da un lato combattere il fenomeno dei falsi invalidi e poi approvare leggi che rischiano di estendere in modo sterminato la platea dei falsi disabili.
Certamente le finanze del nostro paese sono in bilico e il rigore è indispensabile in presenza di una crisi strutturale profonda che purtroppo non è ancora alle spalle. Ma questo è un paese in cui, pur mettendo da parte l’evasione fiscale, si sperperano risorse in modo indecente. Nel nome della “cultura” scorrono torrenti di quattrini da ogni lato. Non c’è ente locale che non abbia la sua sagra letteraria, scientifica, filosofica, che non promuova un premio letterario, che non organizzi convegni sugli argomenti più inattesi. Tutto questo mobilita un’enorme quantità di risorse, per produrre spesso poco o niente di valido. Provate a constatare lo stupore con cui uno straniero accoglie la descrizione della mole incredibile di iniziative “culturali” che pullulano in ogni angolo del Bel Paese. Basterebbero le spese necessarie a sostenere un certo numero di queste iniziative per dare ossigeno alle nostre disastrate Biblioteche nazionali. Un minimo senso di responsabilità dovrebbe indurre gli enti locali a fare a gara nel dirottare i fondi impiegati nelle iniziative “culturali” effimere verso il compito di salvare un inestimabile patrimonio archeologico, artistico, architettonico, museale, culturale; invitando gli sponsor privati che intervengono in quelle iniziative a fare altrettanto. E, se tale senso di responsabilità non vi fosse, bisognerebbe esplorare tutte le vie per costringere a comportamenti virtuosi, come si richiede in circostanze di emergenza.
Purtroppo, in barba alla verità che “nessuno può scagliare la prima pietra”, stiamo assistendo alla solita sagra dell’ipocrisia nazionale. Difatti, se il governo non brilla per sensibilità nei confronti della cultura, chi lo attacca dall’opposizione fa la parte del bue che da del cornuto all’asino. Chi, se non quasi tutte le amministrazioni locali di sinistra (ispirandosi all’ideologia della cultura dell’effimero), ha finanziato per anni lautamente feste su feste, festival su festival, le iniziative più fasulle, spesse appaltate a dilettanti il cui unico merito era quello di essere “amici”, mentre i marciapiedi dei centri storici andavano in pezzi e i monumenti si ricoprivano di immondizia e di graffiti? L’ex-sindaco di Roma Veltroni, invece di gridare allo scandalo, dovrebbe fare autocritica per aver favorito la cultura dell’effimero, mettendosi in gara con Venezia per duplicare il festival del cinema, invece di impegnarsi esclusivamente sul fronte del patrimonio archeologico, artistico e culturale della capitale.
Il crollo della Casa dei Gladiatori di Pompei è frutto di un disastro che ha premesse lontane, è l’esito di un disinteresse scandaloso di cui tutti, nessuno escluso, dovrebbero fare ammenda e per il quale dovrebbero cospargersi il capo di cenere. Invece, si preferisce imbastire la sagra dell’ipocrisia e della strumentalizzazione politica e non mettere il dito sulla vera piaga: la necessità di cessare una volta per tutte di sparlarsi addosso dalla mattina alla sera di “cultura” in termini metodologici, ludici o spettacolari, mentre i fondamenti materiali della cultura – monumenti, musei, scavi, biblioteche, archivi – si sgretolano.
Si tratta nientemeno che dei fondamenti della nostra civiltà, quelli che danno senso alla nostra identità storica. Ma sono sempre meno coloro che nutrono interesse per questi fondamenti. Siamo sempre più nelle mani di persone la cui sensibilità culturale è prossima allo zero. In fondo, è la stessa situazione che si verifica con l’istruzione. La prima preoccupazione non dovrebbe essere quella di plasmare la formazione dei giovani su quei valori e su quei contenuti culturali che sono il fondamento della nostra civiltà? Invece siamo sotto la ferula di personaggi che predicano che non deve contare nulla “cosa” si pensa, bensì soltanto “come” si pensa. In tal modo, il “cosa”, ovvero la cultura propriamente detta, va a pezzi come la Casa dei gladiatori. Perciò, con tutto il rispetto per i manager e il loro ausilio indispensabile, non bastano i tecnicismi. Il patrimonio culturale non si salva con il modello Asl o consegnando tutto ai privati. Occorre una presa di coscienza nazionale e una grande spinta morale per salvare ciò che rappresenta la nostra principale e unica ricchezza. Purtroppo, c’è seriamente da temere che nutrire la speranza di una simile presa di coscienza sia una grande ingenuità.
(Il Giornale, 8 novembre 2010)

4 commenti:

Ludwig Van Molleam ha detto...

Professore, lei ha centrato il problema. La miriade di "iniziative culturali" spesso di basso spessore portano: visibilità agli amministratori locali, visibilità agli sponsor (mettere un bel cartellone di uno sponsor in una biblioteca farebbe gridare allo scandalo), creano lavori socialmente utili (ed indirettamente voti di scambio) e soprattutto poco rischio (errori nelle opere di restauro comportano responsabilità, il festival del haiku occitano invece no).

vanni ha detto...

Egregio Professore, quando si parla di cultura mi vien sempre un magone così: ho iniziato tre quattro volte a scrivere un commento al suo articolo, ma mi escono solo profluvi di parole lamentose poco serene e troppo supponenti sul menefreghismo e l'ignoranza degli Italiani (ma che cosa vuole che glie ne freghi di quattro vecchi muri diroccati o delle Biblioteche Nazionali: passata la festa... ). Cedendo forse all'ideologìa, io i musei al coperto e sotto le stelle li darei in gestione - per 99 anni, non vendiamoli - a privati italiani e stranieri, una volta ben considerati vincoli e agevolazioni. La convinzione è che l'Italia e la sua cultura sarebbero comunque più tutelate e illustrate.
E vorrei pure riconsiderare l'argomento cultura e manager, senza nascondermi all'ombra del ministro Gelmini. Ma il manager delle mie idee è una figura iperurania, un'araba fenice, una figura di sapiente e non di tecnocrate, tendente a quella dell'architetto medievale, più che a Giancarlo Cimoli e Massimiliano Fuksas. Delinearlo - sensibile all'utile sì, ma consapevole e morale - mi condurebbe, accompagnato con amorevolezza e sollecitudine, nell'ospizio dei fessi rimbambiti.
Nelle sue ultime righe lei dice già tutto mantenendo sobrietà di toni, e indica che impresa si dovrebbe intraprendere, una cosetta da nulla di corto respiro. So che la parola con la quale termina l'articolo le serve solo per schermirsi un po'.

Gianfranco Massi ha detto...

Il rapporto tra cultura e democrazia è stato sempre conflittuale. La sua analisi ha impegnato menti eccelse, da Platone a Tocqueville, da Machiavelli a Frankling , e tutte hanno oscillato tra ardori e pessimismi.
Il mio modestissimo parere sulla questione della conservazione dei beni culturali è quella di provare a dare qualcosa in gestione ai privati: nessuno obbliga a scelte del tipo “tutto o niente”. E poi non usiamo più la dizione “conservazione dei beni culturali” , è un eufemismo fuorviante: parliamo invece di “manutenzione e restauro dei beni storici”, secondo me più consono alla realtà operativa.

Giovanni Lagnese ha detto...

Tutti parlano di Pompei. E non si dà invece la giusta rilevanza al fatto che il Museo MADRE - che è "il" museo d'arte contemporanea di Napoli - rischia di chiudere. Per me gli scavi di Pompei potrebbero anche scomparire. È più importante il Museo MADRE, è più importante l'Auditorium di Niemeyer di Ravello, è più importante la cultura dei giorni nostri. Il problema dell'Italia è proprio il compiacimento retorico passatista. In Italia ci si riempie troppo la bocca di espressione quali "la nostra identità" e bla bla bla. La cultura vera è tutt'altro, la cultura vera è ben altro. La cultura vera è quella che SPACCA. I cranii, innanzitutto. La cultura del passato è comoda perché a suo tempo ha SPACCATO, ma oggi è metabolizzata, storicizzata, acquisita. Non rappresenta più un'istanza di cambiamento dei modi di pensare, delle immagini del mondo delle persone. Troppo facile difendere il Colosseo, gli Scavi di Pompei, la Cupola del Duomo di Firenze. Dimenticando che la Cupola del Brunelleschi al suo tempo era all'avanguardia. È più importante, oggi, pensare a costruirne di nuove, di Cupole del Brunelleschi. A fare cose ("cose" in senso lato) all'avanguardia OGGI. Se ci fosse questo, gli Scavi di Pompei potrebbero anche scomparire.
Abbiamo avuto il Futurismo, in Italia. Ma purtroppo ha vinto lo storicismo di Croce e Gentile. E i risultati sono quelli che si possono vedere.

Giovanni