giovedì 27 settembre 2012

UN'INTERVISTA DI TULLIO GREGORY


Gli assurdi guai creati dall'applicazione di criteri meccanici e aziendalisti alla valutazione dei professori. Intervista al filosofo Tullio Gregory sulla "rivoluzione meritocratica" dell'Anvur (Il manifesto, 15 settembre 2012)

Puzzle incomprensibili. Caos strisciante. Parvenus della ricerca. Questi, forse, sono i giudizi più benevoli espressi dalla comunità accademica sui criteri dell'Agenzia Nazionale della Valutazione (Anvur) che serviranno a giudicare i candidati all'abilitazione nazionale, il nuovo concorso che sta mettendo a soqquadro l'università. E che determineranno i futuri orientamenti della ricerca italiana assimilandola al mondo delle scuole di management e delle risorse umane. 
Anche se non è certamente l'unica, la parte più esposta a questo processo è quella delle scienze umane, storico-sociali e giuridiche che denunciano il tentativo di assimilazione ad un sistema meritocratico che simula il funzionamento di un'agenzia di rating, più che il reale esercizio di un giudizio critico. 
A Tullio Gregory, accademico dei Lincei, fondatore del Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee del Cnr, oltre che membro del comitato scientifico del Festival Filosofia di Modena chiediamo come funzionerà il nuovo sistema di valutazione centralistico, che molti hanno definito "da Unione Sovietica". "Lei è benevolo" - risponde Gregory. "Più che centralistico, quello dell'Anvur è un sistema aziendalistico, espressione di un potere incredibile, quello di valutare con criteri numerici oggettivi e quantitativi ciò che non può esserlo. Per loro, in filosofia, storia o nel diritto basta superare una 'mediana' su tre, cioè avere pubblicato un minimo numero di libri o articoli in dieci anni per diventare commissari o presentarsi agli esami dell'abilitazione. A parte il fatto che un articolo non è paragonabile ad una monografia, in questa situazione chi ha impegnato dieci anni per completare un'edizione critica della Divina Commedia non ha il diritto di presentarsi al concorso. Un altro criterio per l'accesso al ruolo è la 'capacità di attrarre finanziamenti competitivi'. Immagini quanto possa essere competitivo un professore di sanscrito! Prima hanno scassato l'università con le riforme, adesso impongono queste misure. È una tristezza indescrivibile". 
L'Anvur è il prodotto più autentico della riforma Gelmini. La mentalità di cui questa agenzia è il prodotto ispira anche le scelte del ministro Profumo. Ci aiuti a comprenderla.
La nascita di questa agenzia obbedisce ad una pretesa molto antica, quella di quantificare la qualità di un'attività scientifica. Un lavoro che ha impegnato da sempre logici e epistemologi, ma senza alcun risultato positivo. Leibniz scriveva in un frammento: "non discutiamo, calcoliamo". Il suo era un tentativo di tradurre i concetti in parametri formali. E da allora è stato lo sforzo compiuto da tutte le logiche formali che però non è mai andato in porto. Questo accade perché esistono molte logiche e non una sola, elemento trascurato dall'Anvur. Invocare questi precedenti sarebbe dare troppa importanza a questi valutatori che, più semplicemente, hanno ignorato alcuni dati di fatto. 
Quali?
Tutte le grandi istituzioni scientifiche europee, i Lincei, l'Académie des sciences di Parigi, la European Science Foundation hanno messo in guardia contro l'applicazione meccanica dei criteri bibliometrici per valutare le pubblicazioni. La valutazione è un giudizio critico, un esercizio della ragione e non della macchina calcolatrice. Invece l'Anvur marcia sicura e affida la valutazione a quello che loro chiamano, con vocabolario aziendalistico, "prodotto" e non ricerca. Conta la quantità delle citazioni ricevute su alcune riviste censite da due società schiettamente commerciali, e non scientifiche, come Scopus e Isi, società che guadagnano sulle riviste che inseriscono in elenco e sulle richieste che ricevono. Queste citazioni possono essere anche stroncature. Non importa, ciò che conta è che il prodotto si venda, cioè venga citato.  
La bibliometria è la panacea di tutti i mali dell'università. È il rimedio alla corruzione nei concorsi e premierà gli studiosi meritevoli?
Non sarà affatto così. La bibliometria è solo un esempio di una mentalità calcolatrice che si sta applicando a tutti i livelli dell'istruzione. Questa tendenza procede dai tempi dell'ottimo ministro Berlinguer, quando sono stati introdotti meccanicamente e stupidamente i crediti, pensando che i crediti equivalgano a ore di studio o di numeri di pagine. Oggi l'esame di maturità è il risultato di una somma di crediti accumulati in tre anni. Le commissioni possono attribuire solo 5 punti su 100 per assegnare il titolo. Praticamente è inutile farli. Il tutto può essere riassunto con una battuta di Boccaccio: «facessi un mare di teologia da far rincoglionir frate Cipolla». Hanno fatto un mare di numeri da far rincoglionire tutti quanti.

INTERVISTA SU AVVENIRE (25 settembre 2012)


C’è malcontento fra gli storici della matematica italiani, una piccola avanguardia della cultura scientifica nazionale minacciata da provvedimenti sull’università che rischiano di spazzare via studi di altissimo livello per i quali l’Italia ha eccellenti quotazioni all’estero, non meno decisive dello “spread”. A provocare la protesta sono gli indicatori bibliometrici introdotti nella valutazione dei lavori scientifici.

La valutazione delle università è necessaria, ma in Italia stiamo introducendo un sistema unico al mondo che valuta a priori, invece che ex-post, e con criteri statistici. Per la gioia dei fautori delle “due culture” si è diviso il settore “scientifico”, in cui vale il numero di citazioni dei lavori, dal settore “umanistico” in cui vale il numero di lavori pubblicati, soprattutto su riviste la cui qualità è stata classificata dall’Anvur (l’Agenzia di valutazione). La bibliometria per citazioni è criticata proprio in ambiente scientifico da autorevoli istituzioni internazionali come la European Physical Society o la International Mathematical Union e da personalità come il Nobel per la chimica Richard Ernst. Nessun paese l’ha adottata come procedura di stato e in Australia è stata proscritta. Ma qui si fanno orecchie da mercante a costo di creare situazioni incresciose: l’Anvur ha cambiato le procedure di calcolo varie volte, dimostrando la mancanza di oggettività della bibliometria. Nel settore umanistico, la classifica delle riviste ha stimolato l’arrembaggio a farsi accreditare certe riviste come di serie A, producendo esiti penosi.

Perché le novità introdotte colpiscono in particolare la storia delle matematiche?

La bibliometria ricorre a base dati gestiti da ditte private (ISI, Scopus) che indicizzano solo certe riviste, prevalentemente di scienza applicata: medicina, biotecnologie, ingegneria. Gli storici della matematica pubblicano su riviste poco indicizzate, e soprattutto libri ed edizioni critiche, che sono ignorati. D’altra parte, in quanto professori di matematica, appartengono al settore bibliometrico. Dovrebbero essere premiati per gettare un ponte tra le due culture” e invece sono bastonati senza pietà dagli algoritmi dell’Anvur: tutti gli ordinari del settore sono stati esclusi come commissari (salvo, per caso, il sottoscritto che comunque non ha fatto domanda). È uno scandalo che grida vendetta tenendo conto della qualità e intensità della loro produzione scientifica.

La protesta degli storici della matematica è sostenuta da un appello rivolto da 150 docenti di 14 Paesi al Governo italiano. Esprime “viva preoccupazione” per l’esclusivo uso di parametri quantitativi in luogo di giudizi qualitativi.

In condizioni normali un appello firmato dai maggiori storici della matematica del mondo dovrebbe condurre a un ripensamento. Al contrario, si risponde che qualche ingiustizia è accettabile pur di applicare il sistema. È un modo di ragionare da commissari politici più che da professori.

Perché, e quanto, questa disciplina ha uno spiccato ruolo formativo ed è quindi utilissima ai giovani? Sono preoccupati i matematici ma anche i professori di discipline umanistiche. La tradizione testimonia un forte collegamento tra i due rami del sapere. Nell’appello internazionale al governo si ricorda che per cinque secoli, dal XII al XVII, l’Italia è stata la sede principale della cultura matematica del globo. L’italiano è stato la prima lingua vivente delle matematiche.

Non c’è dubbio. In Italia abbiamo una tradizione di prim’ordine nella storia della matematica che risale a Aldo Mieli e Federigo Enriques, uno dei maggiori matematici del Novecento e un grande intellettuale che ha promosso il ruolo di questa disciplina nella ricerca e nell’insegnamento, Del resto, un altro grande matematico, Henri Poincaré, sosteneva che l’unico modo di prevedere il futuro della matematica è studiarne la storia e lo stato presente.

In che modo le nuove procedure penalizzano anche le scienze umanistiche?

Ne abbasseranno la qualità. È possibile che entrino in commissione docenti senza un libro e con un solo articolo pubblicato in riviste di serie A. Si giunti all’incredibile di accreditare come “scientifici” periodici che non sono tali, pur essendo rispettabili, come “Suinicoltura”, Yacht, Barche, Libertiamo, Etruria oggi, ecc.. Accreditandoli l’Anvur, invece di promuovere il rigore, si è fatto specchio di comportamenti deplorevoli e ha fallito.

Quale effetto avranno queste nuove modalità di valutazione dei docenti sullo sviluppo culturale e sull’uso della lingua italiana negli studi scientifici? I giovani che s’iscrivono a matematica e sono molto motivati non avranno interesse a imbarcarsi in ricerche di ampio respiro.

I settori più colpiti sono le ricerche di base e interdisciplinari. Da tempo declina l’interesse a imbarcarsi in ricerche “disinteressate” come la storia della scienza. Figuriamoci ora che arriva la mazzata finale… Quanto alla lotta contro l’italiano fa parte di una macchiettistica che risale a “Un americano a Roma” di Alberto Sordi.

Ma l’obiettivo di questo “stato di agitazione” non è di bloccare i concorsi universitari.

No, di certo. Ma un intervento che sani le situazioni ingiuste e accantoni metodologie senza fondamento è indispensabile. Altrimenti i concorsi rischiano di arenarsi sugli scogli dei ricorsi che si annunciano numerosi e fondati.

Più in generale, a proposito di matematica, che cosa offre questa disciplina oggi ai giovani?

La matematica pervade ogni aspetto della nostra esistenza, è il fondamento della tecnologia, ha un ruolo sempre più rilevante in un numero crescente di discipline e quindi l’ignoranza matematica diventa un vero ostacolo nell’esercizio di molte professioni e attività, teoriche o pratiche. Eppure, il più grande paradosso del presente è che la matematica continui a essere una delle discipline più ignorate e detestate, secondo stereotipi che la contrappongono falsamente alle scienze umane, quasi fosse una forma di sapere ostile all’umanità. Ed è certo che, se è vista in modo acritico e meramente pratico, lo è davvero.

Come superare questo rifiuto e questa ignoranza?

In libro appena uscito, “Pensare in matematica” (Zanichelli), Ana Millán Gasca ed io sosteniamo che la via non è quella – apparentemente facile, di fatto sbagliata e fallimentare – di ridurre la matematica a un insegnamento pratico, alla “matematica del cittadino”, quella che serve per fare la dichiarazione dei redditi e la contabilità di casa. È bensì quella di restituire la matematica alla cultura, di mostrarne i profondi legami con le discipline umanistiche. L’interesse per la matematica è stimolato dalla consapevolezza che il suo modo di pensare è una componente della cultura essenziale quanto le arti, la letteratura, la filosofia, la linguistica o l’antropologia e che i suoi concetti hanno origine nell’operare umano. L’esperienza d’insegnamento ci ha convinti che suscitare la passione per il valore conoscitivo della matematica conduce ad apprezzarne anche i tecnicismi. E la storia ha un ruolo centrale in questo.

Replica dell'Anvur e controreplica

Due commissari rispondono al mio articolo sul Messaggero (Ancora sull'abilitazione universitaria) e questa è la controreplica.

venerdì 21 settembre 2012

L'indecenza non ha più limite...

Leggete
E se tutto questo passa, ci meritiamo qualsiasi cosa.

ANCORA SULL'ABILITAZIONE UNIVERSITARIA

CAMBIARE I CONCORSI SENZA MERITO
articolo su Il Messaggero (oppure qui)

APPELLO INTERNAZIONALE IN DIFESA DELLA STORIA DELLA MATEMATICA ITALIANA MINACCIATA DI DISTRUZIONE DALLE DECISIONI DELL'ANVUR

CENTOCINQUANTA DOCENTI UNIVERSITARI DI QUATTORDICI PAESI HANNO FIRMATO UN APPELLO VOLTO A DENUNCIARE LA MINACCIA CHE INCOMBE SULLA STORIA DELLA MATEMATICA ITALIANA, LA QUALE SARA' DISTRUTTA SE ANDRANNO IN PORTO I PROCEDIMENTI VALUTATIVI DELL'ANVUR.
IL DOCUMENTO SI PUO' SCARICARE QUI.

martedì 18 settembre 2012

BESTIARIO MATEMATICO n. 16



ANVUR NON POTUTO FARE ALTRO

La sconcertante sceneggiata del calcolo delle mediane per l’abilitazione nazionale universitaria è giunta, con il comunicato del 14 settembre a un livello tale che ogni persona ragionevole non può che considerare finale. La decenza imporrebbe di abbassare il sipario e di congedare gli “attori”. Quali, non è chiaro, visto che l’Anvur ha chiamato in causa il Ministero, e quindi il Ministro, e il Ministero tace.
Questo comunicato è un imbarazzante documento che è stato commentato dettagliatamente nel sito Roars.
Noi qui vogliamo contenerci entro la cornice dei “bestiari matematici”, per commentare il seguente impagabile passaggio:

« Il terzo motivo di incertezza è costituito dal fatto che il DM 76 (art. 1 lettera p) definisce il concetto di mediana come “il valore di un indicatore o altra modalità prescelta per ordinare una lista di soggetti, che divide la lista medesima in due parti uguali”. Questa definizione, pur univoca, lascia però un importante punto di ambiguità nella decisione su come procedere se la mediana viene usata per selezionare tra una serie di soggetti (i docenti), nel caso in cui più soggetti abbiano lo stesso valore mediano. In altre parole, se più soggetti hanno lo stesso valore dell’indicatore e questo corrisponde alla mediana, non vi sono criteri per creare tra di essi una lista ordinata. Questa circostanza è aggravata dal fatto che il decreto dispone (agli allegati A e B) che per soddisfare il criterio i soggetti devono avere valori degli indicatori “superiori” alla mediana, e non superiori o uguali. Diviene quindi, di fatto, impossibile utilizzare il valore mediano così definito come separatore tra il 50% inferiore ed il 50% superiore di un insieme di soggetti, e ciò sostanzialmente contrasta con una possibile interpretazione dello spirito del decreto, ciò quello di consentire la partecipazione alle commissioni a quei professori ordinari che si trovano, rispetto ad almeno uno o due (a seconda dei settori concorsuali) dei parametri considerati, nel 50% superiore rispetto all’insieme. In linea teorica, potrebbe darsi il caso, per distribuzioni particolari, di un numero di soggetti che superano la mediana pari a zero, o in ogni caso molto piccolo. Ciò accade quando una elevata proporzione dei soggetti si trova con lo stesso indicatore, e questo rappresenta proprio il valore mediano. Per i motivi sopraccitati, e anche per i limiti delle persone coinvolte (“errare humanum…”), le tabelle con i valori numerici delle mediane degli indicatori sono state pubblicate in più riprese, e anche con errori».

1 — L’Ente Supremo preposto alla valutazione dell’università e della ricerca propone il seguente nuovo concetto: quello di definizione univoca che lascia punti di ambiguità. Noi, poveracci, abituati all’aridità del pensiero matematico, avevamo l’idea rozza che, se una definizione è univoca, non dà luogo ad ambiguità, essendo questo tipico delle definizioni non univoche. Non ci era venuto in mente che potessero esistere definizioni univoche e al contempo ambigue. Siamo di fronte alla più grande scoperta della logica, dai tempi del teorema di Gödel, e – poteva essere altrimenti? – essa è opera del supremo Presidium della scienza italiana.

2 — A noi risultava che la definizione di mediana fosse la seguente: dicesi mediana di una variabile aleatoria, posti i suoi valori in ordine di grandezza crescente, il valore centrale dei dati se il numero dei dati è dispari, o la media aritmetica dei due valori centrali, se il numero dei dati è pari. Ora la definizione del DM 76 è che la mediana è un indicatore che divide la lista medesima in due parti uguali. Se il numero dei dati è dispari non c’è problema: l’indicatore può essere scelto come il valore centrale dei dati. Se i dati sono 101, sarà il cinquantunesimo: 50 da un lato, e 50 dall’altro. Per esempio, la mediana della sequenza 1, 2, 2, 3, 5 è 2. Ma se il numero dei dati è pari che si fa? Qualsiasi numero compreso tra i due valori centrali va bene… Se la sequenza è 1, 2, 3, 5, vi sono infiniti valori che che dividono la lista in due parti uguali. Potrebbe essere 2.1 come 2.3, 2.5 oppure 2.8 ecc. ecc. La definizione classica evita questa ambiguità prescrivendo di scegliere come “mediana” la media aritmetica dei due valori centrali, ovvero, nell’esempio citato 2.5. Insomma, a meno che i due valori centrali non siano uguali, la definizione del DM non è per niente univoca. E quindi è ambigua. Perché non univoca. Ci sarebbe da commentare ancora. Difatti, noi abbiamo ragionato sui numeri della sequenza, ma qui si parla di “valore di un indicatore”. Che vuol dire? Che si potrebbe scegliere un indicatore numerico esterno alla sequenza? Peggio ancora: si apre la strada ad “altra modalità prescelta”. Quale, di grazia? Qui, altro che univocità, non dispiaccia all’Ente Supremo. E altro che ambiguità. Siamo in presenza di una vera bruttura.

3. — Chi ha scritto quella definizione? Dal comunicato dell’Anvur si desume che non è l’Agenzia, ma qualcun altro. Sarebbe interessante sapere chi, visto che tutte queste cose sono fatte a spese del contribuente. Ma quel che è impagabile è: (a) che l’Anvur si produca in una duplice baggianata: dare per univoca una definizione che non lo è, e ribaltare la logica elementare introducendo il concetto di definizione univoca ma ambigua; (b) scoprire soltanto ora, dopo che da almeno un anno sta torturando l’universo mondo con questa immensa bufala della mediana, che la definizione con cui sta misurando la qualità di migliaia di professori universitari è fasulla. Forse siamo di fronte a qualcosa che oltre ad essere esibizione di incompetenza è materia da Corte dei Conti.

3 — Leggiamo la seguente frase che si presta a una sola definizione “univoca”: «Se più soggetti hanno lo stesso valore dell’indicatore e questo corrisponde alla mediana, non vi sono criteri per creare tra di essi una lista ordinata»… Ma pensa un po’… E chi se l’era immaginato? Se prendo la sequenza dei numeri 3, 3, 3, 3, 3, 3 non c’è modo di metterli in lista ordinata, perché – accidenti – sono tutti uguali. Per esempio, se metto il primo 3 al posto del secondo, mi viene sempre fuori 3, 3, 3, 3, 3, 3. Un vero problema, e ci volevano mesi per scovare questa difficoltà. Saranno diventati calvi per lo sforzo di scoprirla. Anche qui siamo di fronte a una scoperta matematica che rivolta da cima a fondo l’aritmetica dai tempi dei Greci. Tralasciamo il resto delle considerazioni perché confessiamo umilmente di averle rilette una decina di volte senza capirci un acca, anche perché la sintassi e la grammatica non aiutano. Si dice: «… potrebbe darsi il caso, per distribuzioni particolari, di un numero di soggetti che superano la mediana pari a zero, o in ogni caso molto piccolo». Chi è molto piccolo? Lo zero? Uno zero molto piccolo è una novità, ma non ci sarebbe da stupirsi, qui siamo di fronte a continue scoperte rivoluzionarie. Oppure un numero di soggetti molto piccolo? Perché? E, soprattutto, perché mai “in ogni caso”? Forse perché le distribuzioni sono particolari? E quali sarebbero queste distribuzioni particolari? Oppure molto “piccolo” è il mediana? Ma anche così non si capisce niente. Ci sfugge anche il concetto di “elevata proporzione di soggetti”, ma lasciamo perdere. L’unico commento chiarissimo è quello finale: le tabelle sono state pubblicate a più riprese e con errori («errare humanum», e anche se non ci credete l’Anvur è composto da esseri umani), per i motivi anzidetti e  «per i limiti delle persone coinvolte».

Ah, questo è davvero il punto più chiaro e condivisibile. Limiti pesanti, non c’è che dire.

Bene, tutto questo sarebbe materia per quattro risate se non fosse il prodotto del lavoro di un Comitato di “luminari” chiamato a valutare l’università e la ricerca scientifica italiane. E se questo lavoro non fosse costato un patrimonio, in un momento in cui l’università è soggetta a tagli pesanti (sui quali, per il modo con cui vengono fatti, ci sarebbe molto da dire). I commissari dell’Ente Supremo prendono circa 180.000 euro l’anno ciascuno (200.000 il presidente) per scrivere questi documenti, senza contare le retribuzioni dei dirigenti e dell’amministrazione, i compensi ai “valutatori” ingaggiati e quel che sarà costato l’uso dei database ISI e Scopus per calcolare le mediane di migliaia di professori universitari, la classificazione delle riviste e il calcolo della terza mediana.

Ma, come è stato detto, ANVUR NON POTUTO FARE ALTRO
Fa venire in mente la canzoncina del film di Alberto Sordi: «Bongo, bongo, bongo, stare bene solo al Congo, io rimango qui…»
Quando questa storia si saprà all’estero – e si saprà – affonderemo nel ridicolo universale.

mercoledì 5 settembre 2012

Garfield, l'Anvur e la macchina della "verità"

Garfield, l'Anvur e la macchina della "verità"

L'Università : c'è chi sta lavorando per chiuderla

Il magistero a rischio


Non si può che ammirare chi ha il coraggio di sedersi su una poltrona difficile come quella della Pubblica Istruzione. Da anni ogni ministro riceve in dote dal precedente un’eredità sempre più pesante, per l’accumularsi di problemi aggravati da mediocri compromessi politico-sindacali e da cattive riforme ispirate all’ideologia anziché al buon senso, una merce ormai rara nel sistema dell’istruzione. Quindi, l’unica via per un ministro è perseguire il difficile dosaggio tra una grande determinazione nel tagliare nodi aggrovigliati fino all’inverosimile e una grande saggezza nel tener conto di esigenze tutte rispettabili. È una miscela necessaria di fronte al lascito di personale scolastico precario e all’esigenza di aprire una porta ai giovani; perché un sistema dell’istruzione che non sia alimentato da nuovi apporti innestati con continuità sulle esperienze precedenti è destinato a sicuro declino. Inoltre, occorre por fine alla prassi disastrosa dell’immissione in ruolo di nuovi insegnanti senza verifiche di merito.
Pertanto, la scelta del ministro Profumo di ripartire un contigente di posti per metà al fine di sanare le situazioni pregresse e per l’altra metà per far svolgere un concorso, va considerata come una decisione coraggiosa ed equilibrata. Purtroppo le buone intenzioni non bastano. Pare che il concorso sarà riservato agli abilitati, il che, in linea di principio, è sacrosanto. Ma, nei fatti non si conferiscono abilitazioni da anni né si avranno nuovi abilitati – con i TFA, Tirocini Formativi Attivi – prima di un anno, per cui si rischia di fare una sola cosa, ossia assumere precari, con due modalità diverse. Non sarebbe meglio far svolgere il concorso al termine del primo anno di TFA? Si è anche proposto di aprirlo agli ammessi ai TFA, sotto la condizione che conseguano l’abilitazione. Ad ogni modo, una soluzione va trovata, altrimenti i più giovani si troveranno di fronte alla solita porta chiusa, che tale resterà per chissà quanto tempo. Difatti, sarebbe un miracolo se il proposito di bandire concorsi “leggeri” a brevi intervalli finalmente si realizzasse.
Sorvoliamo sui problemi enormi che pone un concorso “pesante”, soprattutto se aperto da un test preliminare di “scrematura”, indispensabile dato il numero enorme dei candidati. Si è parlato di un test unificato per tutte le classi di concorso mirato alle capacità “logico-deduttive” il che suscita allarme, sopra ove si pensi ai disastri passati, dal concorso per dirigenti scolastici a quello per i TFA. Ma lasciamo da parte la tematica dei test per porre un problema più generale di cui essa è solo un aspetto.
Di anno in anno, gli adempimenti e le verifiche che si accumulano sul sistema scolastico crescono come una palla di neve che diventa valanga. La quantità di scartoffie che incombono su insegnanti e dirigenti cresce esponenzialmente. Ora si prospetta l’autovalutazione delle scuole mediante  griglie fornite dal ministero, poi la valutazione mediante commissioni ispettive gestite dall’Invalsi (l’Istituto di valutazione del sistema scolastico), poi la formazione in servizio gestita dell’Indire (l’Istituto di documentazione e ricerca educativa); e così via. Un’immensa macchina burocratico-amministrativa si appesantisce sempre di più sulla scuola. La massa di prescrizioni e direttive si infittisce lasciando sempre meno spazio alla libertà metodologica personale, e restringendo il tempo dedicato all’insegnamento propriamente detto.
Nell’ambito della politica economica è difficile trovare chi sia contrario alla crescita: ma poi ci si divide (anche in modo politicamente trasversale) sull’idea se vada perseguita con interventi dirigisti o rimuovendo i vincoli che intralciano lo sviluppo delle forze produttive. Non diversamente nel campo dell’istruzione: c’è chi pensa che la crisi della scuola si possa superare con un controllo sempre più stringente dall’esterno – da parte di “tecnici” – e chi pensa che occorra mettere in atto solo i meccanismi che favoriscono l’emergere delle forze migliori. Per i primi la valutazione del merito si fa a monte, per i secondi a valle. I primi vedono il ministero come un controllore onnipresente, i secondi gli attribuiscono il ruolo di favorire discretamente e costruttivamente l’evoluzione positiva del sistema. Il ministero italiano, per una lunga tradizione, propende a un dirigismo che sta diventando ipertrofico, parossistico, ed è sostenuto da ideologie didattiche soffocanti. Non esitiamo a dire che sarebbe auspicabile che il ministro si orientasse a contrastare tendenze più adatte a un paese totalitario che a una democrazia liberale. Si risolverebbero così anche tanti disastri (si pensi ancora ai test) che sono conseguenza del potere eccessivo di “esperti” che valutano il “prodotto” senza sapere cosa contiene, e cioè sulla base di analisi statistiche e dati quantitativi e formali nell’ignoranza completa dei contenuti in gioco. Non è elementare buon senso che prima di escogitare rimedi per la scuola si faccia un’analisi dei suoi mali? E chi ha mai fatto una simile analisi in modo serio, ovvero sui contenuti, e non limitandosi a statistiche di dubbia interpretazione? Per esempio: chi ha mai fatto un’analisi seria dei contenuti che circolano nei libri scolastici? E questo non per imporre questo o quel modo di insegnare ma per aprire un dibattito di merito che solo può far migliorare la qualità dell’insegnamento.
Inutile dire che, oltre ad avere buoni testi, vorremmo avere buoni insegnanti. Il ministro ha recentemente proposto la sua visione di come deve essere un buon insegnante. A noi pare che sarebbe meglio non impelagarsi nel tentativo di definire una figura tanto complessa. Tuttavia, se proprio dovessimo scegliere la definizione preferita, ricorderemmo quella di Hannah Arendt: l’insegnante è colui che «si qualifica per conoscere il mondo e per essere in grado di istruire altri in proposito, mentre è autorevole in quanto, di quel mondo, si assume la responsabilità. Di fronte al ragazzo è una sorta di rappresentante di tutti i cittadini della terra che indica i particolari dicendo: ecco il nostro mondo». E così facendo – osserva Arendt – fornisce al giovane gli strumenti per avanzare liberamente con le proprie gambe.
Secondo il ministro l’insegnante deve saper stabilire e gestire buone relazioni con gli studenti, saper stare bene in classe, e alternare la sua posizione di docente con quella di discente, lasciando talora la cattedra agli allievi. A parte quest’ultimo aspetto che riporta a sessantottismi di cui non v’è proprio bisogno, la figura che emerge è quella del “facilitatore” nell’ideologia dell’autoapprendimento. Sapere star bene in classe e gestire bene i rapporti con gli allievi è molto importante, ma non crediamo che si tratti di una scienza codificabile. Colpisce l’omissione di un requisito cruciale: che l’insegnante sia colto, che conosca la sua materia. Tolto questo, tanto varrebbe affidarsi a Pippo Baudo, che certamente ne sa più di certi teorici dello “stare in classe”, che propinano i loro precetti nel modo più noioso, cattedratico e trasmissivo che si possa immaginare. Abbiamo il ricordo di insegnanti non molto capaci di gestire la classe, ma dotati di una cultura tale da lasciare una traccia indelebile sugli allievi; ed altri, brillanti e simpatici quanto vacui. Migliorare il mondo dell’insegnamento si può. Mettere le brache al mondo è tipico delle visioni illiberali. Se poi riduciamo i contenuti dell’insegnamento a un “optional”, a qualcosa che può essere “costruito” pescando indifferentemente ovunque, senza distinguere tra libri seri e Wikipedia, possiamo scommettere sul definitivo declino della scuola italiana.  
(Il Messaggero, 3 settembre 2012)