Da
un lato un boom di iscritti ai test d’ingresso al Politecnico di Milano e una
propensione per le lauree di ingegneria o direttamente correlate a una
professione definita; dall’altro, un declino delle iscrizioni ai licei, in
particolar modo al liceo classico. Alcuni commenti salutano questi dati come
espressione di una tendenza positiva verso la “laurea utile”, verso l’abbandono
delle propensioni “generaliste”, verso una preparazione corrispondente alle
figure richieste dalle aziende. A noi sembra invece che la valutazione vada
divisa: ottima è la prima tendenza, perché la rivalutazione delle professioni
ingegneristiche e tecnologiche anche a livello della formazione professionale,
è essenziale per un paese in via di declino industriale; pessima è la seconda
tendenza per motivi che dovrebbe essere superfluo dire. Come può un paese che
possiede più della metà dei beni culturali, artistici, architettonici del mondo
non preoccuparsi di coltivare un ceto di persone di altissima competenza capace
di valorizzare quel patrimonio che, se non altro, ha un enorme potenziale
economico? Si badi bene: non si tratta solo della necessità di formare un
esercito di archeologi, di restauratori, di persone all’altezza di gestire
musei e l’immenso, quando degradato e depredato, patrimonio librario del paese.
Si tratta di non disperdere la memoria dell’identità storico-culturale italiana.
Come è possibile pensare che il patrimonio culturale del paese possa essere
preservato se quasi nessuno conosce più neanche i nomi degli architetti, dei
pittori, dei letterati, degli scienziati che l’hanno costruito e finisce col
considerarlo un irriconoscibile ciarpame? Il disprezzo dell’umanesimo (anche
sul fronte della cultura scientifica!) è la via per il sicuro declino.
Ci
potremmo fermare qui, ma c’è di peggio. A chi ha sempre difeso le assurde
accuse di stampo idealistico alle scienze esatte non può piacere il disprezzo
simmetrico per l’“altra cultura” tacciata di non fornire né conoscenze né
saperi pratici, insomma di essere un cumulo di prodotti inutili e di
chiacchiere di dubbio valore. La sciagurata diatriba tra le due culture
danneggia entrambe. Nella furia di distinguerle, le scienze vengono separate
dalla cultura e pensate come mere abilità pratiche, predicando che solo ciò che
ha un’utilità diretta vale qualcosa. Non a caso stiamo perdendo il senso della
parola “ricerca”, ormai sinonimo di “innovazione tecnologica”.
Invece,
lo straordinario successo della scienza occidentale è stato fondare la tecnica
sulla scienza, creando la “tecnologia”. Tutte le grandi scoperte scientifiche
che hanno cambiato il volto del mondo – a partire dal computer digitale – sono
frutto di idee teoriche, fondate sulla “scienza di base”. Un grande ingegnere
come Leonardo da Vinci ammoniva: «Studia prima la scienza, e poi seguita la
pratica, nata da essa scienza. Quelli che s’innamoran di pratica senza scienza
son come ‘l nocchier ch’entra in navilio senza timone o bussola, che mai ha
certezza dove si vada». Oggi questo è più vero di ieri. Giorni fa un illustre
ingegnere osservava che nel contesto odierno, sempre più complesso e ricco di
interrelazioni, servono persone di formazione vasta e aperta, in breve di
formazione umanistica, che spesso solo il liceo classico può dare.
L’innovazione tecnologica richiede una cultura vasta capace di attingere ai
campi più disparati, altro che specializzazione. Mi ha profondamente colpito
l’osservazione che ho sentito da diversi ingegneri che le automobili di oggi
sono, in fondo, ancora “bricolage” del modello originario, mentre occorrerebbe
ripensarne uno nuovo non soltanto in termini tecnici stretti, ma tenendo conto del
senso del “trasporto” nella realtà economico-sociale di oggi. Come può farlo questo
chi non sappia di economia, di sociologia, di storia? In un’università
tecnologica francese mi raccontarono: «Un’importante ditta automobilistica ci
chiede come migliorare una difficoltà di carburazione. Un ricercatore elabora
un modello e conclude che occorre aumentare di tot millimetri il diametro di un
tubo. Cosa di veramente nuovo può venire da questo?».
È
comprensibile che le imprese abbiano fretta e desiderino un sistema
dell’istruzione funzionale alle formazione di addetti. Ma ciò può portare solo al
disastro. Nè vale produrre l’esempio di paesi che imboccano questa via: qui il
mal comune non è mezzo gaudio. Tanto meno può esserlo in un paese che non solo
possiede gran parte del patrimonio culturale e artistico mondiale, ma ha una
grande tradizione: aver saputo sintetizzare con successo, dal periodo postunitario,
visione umanistica, scientifica e tecnologica. Di tale sintesi è stata
espressione l’ingegneria italiana, costellata di grandi personalità che non
erano solo “pratici” di prim’ordine, ma scienziati e umanisti. Tale fu Luigi
Cremona, matematico puro, fondatore della Scuola di Ingegneria e ministro
dell’istruzione. Tale fu Francesco Brioschi. Tale fu Vilfredo Pareto ingegnere
ferroviario, imprenditore, e grande teorico dell’economia e della sociologia.
Scienziato umanista fu il creatore della plastica Giulio Natta (diplomato in un
liceo classico). Questa è la tradizione cui riallacciarsi, invece di credere
che sia un progresso distruggere la formazione umanistica classica, proprio
mentre viene riscoperta in paesi privi delle nostre tradizioni.
Abbiamo
bisogno di persone di ampia formazione e capaci di scelte autonome, e non di
polli di batteria formati per una sola funzione che, col procedere tumultuoso
della tecnologia, potrebbe diventare obsoleta nel giro di poco tempo. Per
formare persone del genere serve anche il liceo classico. Chi gioisce per il suo
declino ride mentre è segato il ramo su cui sta seduto.
(Il Mattino e Il Messaggero, 25 agosto 2013)