Sono
passati tredici anni dall’istituzione per legge del Giorno della Memoria, volto
a ricordare la Shoah (lo sterminio del popolo ebraico) e i deportati italiani
nei campi nazisti con «cerimonie, iniziative, incontri … in modo particolare
nelle scuole», per «conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico
ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili
eventi non possano mai più accadere».
Propositi
ineccepibili, ma invece di aggiungere altre voci al coro che, di anno in anno,
ha assunto le sembianze di una rotolante valanga – l’elenco delle iniziative in
corso può riempire un volume – è più opportuno fare un bilancio e chiedersi se
al moltiplicarsi di cerimonie e incontri abbia corrisposto un declino del
razzismo e dell’antisemitismo. Purtroppo è accaduto il contrario: anche il
razzismo e l’antisemitismo crescono a valanga.
L’invio
di teste di maiale a tre luoghi simbolo dell’ebraismo a Roma è soltanto
l’ultimo episodio. Basti pensare al dilagare nella rete, nei movimenti di
protesta e nelle sortite di non isolati rappresentanti politici, della vecchia leggenda
della congiura mondiale pluto-giudaica che sarebbe responsabile della presente crisi
economico-sociale. L’antisemitismo è altresì contrabbandato sotto le spoglie dell’antisionismo:
una vecchia mistificazione già denunciata decenni fa da Martin Luther King. Poi
c’è il grande paradosso: sebbene pochi eventi storici come la Shoah abbiano il
sostegno di una letteratura e di una documentazione imponente, viene fatto
circolare il dubbio che non basti, che in realtà nulla sia provato. S’impancano
a direttori d’orchestra di questo negazionismo alcuni “intellettuali” (i soliti
“chierici traditori”, secondo la locuzione di Julien Benda) che voltano lo
sguardo dall’altra parte di fronte ai documenti, come se tutto fosse ancora da
dimostrare; o addirittura lasciano intendere che i Protocolli dei Savi di Sion potrebbero essere autentici; e che possono
seminare questi veleni senza pagare pegno, continuando a essere coccolati,
riveriti e invitati a tante iniziative culturali, come se nulla fosse.
Se
questo è il risultato della valanga del 27 gennaio, allora sì che occorre fare
una pausa di riflessione. In verità, i rischi erano evidenti dall’inizio. Ha
sbagliato gravemente chi ha presentato la Shoah come un evento unico,
impossibile da confrontare e persino da accostare a qualsiasi altro evento
storico, fino al punto di imbastire una metafisica e una teologia della Shoah.
Gli effetti di tale assolutizzazione si sono puntualmente verificati. Anche
nelle menti non corrotte dall’ideologia è emerso un rigetto istintivo nei
confronti di qualcosa che, non appartenendo alla storia terrena, appare estraneo
e persino antipatico. Oppure, al contrario, è emersa una sorta di gelosia. Cosa
di più appagante che far salire altre ingiustizie, anche di modesta portata, allo
stesso rango di un crimine tanto grande da essere al di sopra di ogni
accostamento? Così quando qualcosa va male, o è semplicemente spiacevole, è d’uso
chiamarlo Olocausto o Auschwitz. Tre anni fa, un corteo di insegnanti sfilò con
la stella gialla appuntata sul petto per protestare contro un provvedimento
legislativo: era la loro Shoah. Si trattava piuttosto di un esempio da manuale
di come il mito dell’unicità della Shoah porti al suo uso improprio e alla sua
banalizzazione. Ma attenti a dirlo: i cattivi maestri sono pronti a colpirvi
(come è accaduto a me) con l’accusa di “sacralizzare” la Shoah... La faziosità
ideologica arriva al punto di legittimare confronti insensati e tragicomici, mentre
rigetta accostamenti ben più fondati; come quello tra Lager e Gulag proposto
dallo storico ebreo Victor Zaslavzky, emigrato dall’Unione Sovietica. Egli descrisse
il massacro di Katyn come un caso emblematico della politica di “pulizia di
classe”, come Auschwitz lo era della politica di “pulizia etnica”. E aggiunse:
«Il terrore ideologico basato sull’idea della purificazione della società dai
corpi estranei e nocivi, dai parassiti sociali, definiti in base
all’appartenenza alla classe sociale antagonista oppure al gruppo etnico
nemico, rappresenta il denominatore comune del regime nazista e di quello
sovietico». Eppure c’è chi si scandalizza di fronte all’accostamento di Zaslavsky
mentre trova naturale dire che Lampedusa è come Auschwitz.
Se
l’analisi storica razionale cede il passo al mito o all’ideologia, la porta è
spalancata per i mostri. Anche i viaggi scolastici ad Auschwitz possono essere
controproducenti se non sono preparati da un approfondimento storico razionale.
Altrimenti, di fronte a tanto orrore, di cui non sono chiare le cause, nella mente
del ragazzo sorgerà la domanda: “se si è arrivati a tanto qualche colpa doveva
essere stata commessa”. Purtroppo la scuola non fornisce l’ombra dei fondamenti
storici necessari a capire i drammi totalitari del Novecento e il loro tragico
lascito. Né potrebbe farlo, visto lo stato dell’insegnamento della storia, vittima
di un implacabile attacco alla cultura umanistica, il quale è incurante del
fatto che la morte della cultura umanistica è la morte della democrazia: me lo
son sentito dire da uno storico sudafricano, qui dirlo comporta il rischio di
essere messo alla gogna. Se poi lo svilimento della cultura si accompagna al
deserto morale di una società senza ideali, che non crede nel proprio futuro e
abbandona i giovani al culto del consumismo e alla derisione dei valori morali,
non basteranno dieci Giorni della Memoria. Raccontano che, dopo la morte di
Mandela, in alcune scuole è stato proiettato il film “Invictus” e che
l’attenzione si è concentrata solo sulle partite di rugby nel totale
disinteresse per la “noiosa” tematica dell’apartheid e del razzismo. Non c’è da
stupirsi: come altrimenti potrebbe reagire chi è privo di coordinate storiche
ed è stato educato a credere che il vertice della piramide sociale sia
riservato a chi guadagna tanti quattrini, come i calciatori, mentre la cultura
non si mangia e i principi morali sono roba da rottamare?
Commemorazione e memoria storica sono livelli distinti. Per la prima il migliore contesto è un silenzioso raccoglimento, poche iniziative mirate che non diano spazio ai presenzialisti che sgomitano per esibirsi. La seconda richiede un’opera complessa e di lungo respiro, in cui il ruolo centrale appartiene alla scuola, con un rafforzamento imponente dello studio della storia, condotto secondo una visione critica aliena da ogni ideologia. Neanche questo può bastare se la società considera la cultura non come strumento di libertà ma come una perdita di tempo e denaro, e il senso morale un orpello inutile da sostituire con le regolette del politicamente corretto. Se questo andazzo non cambierà, non basteranno leggi e divieti o cento Giorni della Memoria per evitare gli striscioni razzisti negli stadi contro i “negri” e gli “ebrei”.
Commemorazione e memoria storica sono livelli distinti. Per la prima il migliore contesto è un silenzioso raccoglimento, poche iniziative mirate che non diano spazio ai presenzialisti che sgomitano per esibirsi. La seconda richiede un’opera complessa e di lungo respiro, in cui il ruolo centrale appartiene alla scuola, con un rafforzamento imponente dello studio della storia, condotto secondo una visione critica aliena da ogni ideologia. Neanche questo può bastare se la società considera la cultura non come strumento di libertà ma come una perdita di tempo e denaro, e il senso morale un orpello inutile da sostituire con le regolette del politicamente corretto. Se questo andazzo non cambierà, non basteranno leggi e divieti o cento Giorni della Memoria per evitare gli striscioni razzisti negli stadi contro i “negri” e gli “ebrei”.
(Il Messaggero, 27 gennaio 2014)