lunedì 27 gennaio 2014

RIPENSARE IL GIORNO DELLA MEMORIA

Sono passati tredici anni dall’istituzione per legge del Giorno della Memoria, volto a ricordare la Shoah (lo sterminio del popolo ebraico) e i deportati italiani nei campi nazisti con «cerimonie, iniziative, incontri … in modo particolare nelle scuole», per «conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere».
Propositi ineccepibili, ma invece di aggiungere altre voci al coro che, di anno in anno, ha assunto le sembianze di una rotolante valanga – l’elenco delle iniziative in corso può riempire un volume – è più opportuno fare un bilancio e chiedersi se al moltiplicarsi di cerimonie e incontri abbia corrisposto un declino del razzismo e dell’antisemitismo. Purtroppo è accaduto il contrario: anche il razzismo e l’antisemitismo crescono a valanga.
L’invio di teste di maiale a tre luoghi simbolo dell’ebraismo a Roma è soltanto l’ultimo episodio. Basti pensare al dilagare nella rete, nei movimenti di protesta e nelle sortite di non isolati rappresentanti politici, della vecchia leggenda della congiura mondiale pluto-giudaica che sarebbe responsabile della presente crisi economico-sociale. L’antisemitismo è altresì contrabbandato sotto le spoglie dell’antisionismo: una vecchia mistificazione già denunciata decenni fa da Martin Luther King. Poi c’è il grande paradosso: sebbene pochi eventi storici come la Shoah abbiano il sostegno di una letteratura e di una documentazione imponente, viene fatto circolare il dubbio che non basti, che in realtà nulla sia provato. S’impancano a direttori d’orchestra di questo negazionismo alcuni “intellettuali” (i soliti “chierici traditori”, secondo la locuzione di Julien Benda) che voltano lo sguardo dall’altra parte di fronte ai documenti, come se tutto fosse ancora da dimostrare; o addirittura lasciano intendere che i Protocolli dei Savi di Sion potrebbero essere autentici; e che possono seminare questi veleni senza pagare pegno, continuando a essere coccolati, riveriti e invitati a tante iniziative culturali, come se nulla fosse.
Se questo è il risultato della valanga del 27 gennaio, allora sì che occorre fare una pausa di riflessione. In verità, i rischi erano evidenti dall’inizio. Ha sbagliato gravemente chi ha presentato la Shoah come un evento unico, impossibile da confrontare e persino da accostare a qualsiasi altro evento storico, fino al punto di imbastire una metafisica e una teologia della Shoah. Gli effetti di tale assolutizzazione si sono puntualmente verificati. Anche nelle menti non corrotte dall’ideologia è emerso un rigetto istintivo nei confronti di qualcosa che, non appartenendo alla storia terrena, appare estraneo e persino antipatico. Oppure, al contrario, è emersa una sorta di gelosia. Cosa di più appagante che far salire altre ingiustizie, anche di modesta portata, allo stesso rango di un crimine tanto grande da essere al di sopra di ogni accostamento? Così quando qualcosa va male, o è semplicemente spiacevole, è d’uso chiamarlo Olocausto o Auschwitz. Tre anni fa, un corteo di insegnanti sfilò con la stella gialla appuntata sul petto per protestare contro un provvedimento legislativo: era la loro Shoah. Si trattava piuttosto di un esempio da manuale di come il mito dell’unicità della Shoah porti al suo uso improprio e alla sua banalizzazione. Ma attenti a dirlo: i cattivi maestri sono pronti a colpirvi (come è accaduto a me) con l’accusa di “sacralizzare” la Shoah... La faziosità ideologica arriva al punto di legittimare confronti insensati e tragicomici, mentre rigetta accostamenti ben più fondati; come quello tra Lager e Gulag proposto dallo storico ebreo Victor Zaslavzky, emigrato dall’Unione Sovietica. Egli descrisse il massacro di Katyn come un caso emblematico della politica di “pulizia di classe”, come Auschwitz lo era della politica di “pulizia etnica”. E aggiunse: «Il terrore ideologico basato sull’idea della purificazione della società dai corpi estranei e nocivi, dai parassiti sociali, definiti in base all’appartenenza alla classe sociale antagonista oppure al gruppo etnico nemico, rappresenta il denominatore comune del regime nazista e di quello sovietico». Eppure c’è chi si scandalizza di fronte all’accostamento di Zaslavsky mentre trova naturale dire che Lampedusa è come Auschwitz.
Se l’analisi storica razionale cede il passo al mito o all’ideologia, la porta è spalancata per i mostri. Anche i viaggi scolastici ad Auschwitz possono essere controproducenti se non sono preparati da un approfondimento storico razionale. Altrimenti, di fronte a tanto orrore, di cui non sono chiare le cause, nella mente del ragazzo sorgerà la domanda: “se si è arrivati a tanto qualche colpa doveva essere stata commessa”. Purtroppo la scuola non fornisce l’ombra dei fondamenti storici necessari a capire i drammi totalitari del Novecento e il loro tragico lascito. Né potrebbe farlo, visto lo stato dell’insegnamento della storia, vittima di un implacabile attacco alla cultura umanistica, il quale è incurante del fatto che la morte della cultura umanistica è la morte della democrazia: me lo son sentito dire da uno storico sudafricano, qui dirlo comporta il rischio di essere messo alla gogna. Se poi lo svilimento della cultura si accompagna al deserto morale di una società senza ideali, che non crede nel proprio futuro e abbandona i giovani al culto del consumismo e alla derisione dei valori morali, non basteranno dieci Giorni della Memoria. Raccontano che, dopo la morte di Mandela, in alcune scuole è stato proiettato il film “Invictus” e che l’attenzione si è concentrata solo sulle partite di rugby nel totale disinteresse per la “noiosa” tematica dell’apartheid e del razzismo. Non c’è da stupirsi: come altrimenti potrebbe reagire chi è privo di coordinate storiche ed è stato educato a credere che il vertice della piramide sociale sia riservato a chi guadagna tanti quattrini, come i calciatori, mentre la cultura non si mangia e i principi morali sono roba da rottamare?
Commemorazione e memoria storica sono livelli distinti. Per la prima il migliore contesto è un silenzioso raccoglimento, poche iniziative mirate che non diano spazio ai presenzialisti che sgomitano per esibirsi. La seconda richiede un’opera complessa e di lungo respiro, in cui il ruolo centrale appartiene alla scuola, con un rafforzamento imponente dello studio della storia, condotto secondo una visione critica aliena da ogni ideologia. Neanche questo può bastare se la società considera la cultura non come strumento di libertà ma come una perdita di tempo e denaro, e il senso morale un orpello inutile da sostituire con le regolette del politicamente corretto. Se questo andazzo non cambierà, non basteranno leggi e divieti o cento Giorni della Memoria per evitare gli striscioni razzisti negli stadi contro i “negri” e gli “ebrei”.
(Il Messaggero, 27 gennaio 2014)

venerdì 24 gennaio 2014

QUALE MATEMATICA INSEGNARE

Sul blog "Pensare in matematica"
http://pensareinmatematica.blogspot.it/2014/01/quale-matematica-insegnare.html

lunedì 20 gennaio 2014

Mandela e il senso della storia

Penso che la saggistica postmoderna che addebita alla cultura occidentale “essenzialista” tutti i mali del mondo sia un prodotto ideologico deteriore. A tale categoria appartiene il celebre saggio “Orientalism” di Edward Said che riduce tutte le manifestazioni culturali dell’occidente a espressioni di una mitologia razzista che vede le culture “diverse” come un folklore “orientale” e, mette nel mirino soprattutto il sionismo visto come somma manifestazione di questo razzismo. Le generalizzazioni sfociano sempre nella più rozza intolleranza, ma il rigetto di quegli eccessi non può farci chiudere gli occhi di fronte alle manifestazioni di razzismo della cultura europea che racchiudono i germi delle tragedie del Novecento.
Lasciano esterrefatti i passaggi dedicati da Georg Wilhelm Friedrich Hegel all’Africa, che egli considerava come un continente privo di storia. Egli scriveva: «Nell’Africa vera e propria (l’Africa subsahariana) è la sensibilità il punto a cui l’uomo resta fermo: l’assoluta incapacità di evolversi. […] È il paese dell’oro, che resta concentrato in sé: il paese infantile, avviluppato nel nero colore della notte al di là del giorno della storia consapevole di sé. [...] 
 
In questa parte principale dell’Africa non può aver luogo storia vera e propria. Sono accidentalità, sorprese, che si susseguono. Non vi è un fine, uno stato, a cui si possa mirare: non vi è una soggettività, ma solo una serie di soggetti che si distruggono». E a proposito degli africani: «Nel caso dei negri, l’elemento caratteristico è dato proprio dal fatto che la loro coscienza non è ancora giunta a intuire una qualsiasi oggettività – come, per esempio, Dio, la legge: mediante tale oggettività l’uomo se ne starebbe con la propria volontà e intuirebbe la propria essenza. Nella sua unità indistinta, compressa, l’africano non è ancora giunto alla distinzione fra se stesso considerato ora come individuo ora come universalità essenziale, onde gli manca qualsiasi nozione di un’essenza assoluta, diversa e superiore rispetto all’esistenza individuale. […] il negro incarna l’uomo allo stato di natura in tutta in tutta la sua selvatichezza e sfrenatezza. Se vogliamo farci di lui un’idea corretta, dobbiamo fare astrazione da qualsiasi nozione di rispetto, di morale, da tutto ciò che va sotto il nome di sentimento: in questo carattere non possiamo trovare nulla che contenga anche soltanto un’eco di umanità».
È anche ben nota la lettera in cui Hegel raccontava le sue impressioni di fronte a Napoleone che entrava a cavallo in Jena alla testa delle truppe francesi vittoriose: «Ho visto l’imperatore – quest’anima del mondo – cavalcare attraverso la città per andare in ricognizione: è davvero un sentimento meraviglioso la vista di un tale individuo che, concentrato qui in un punto, seduto su di un cavallo, abbraccia il mondo e lo domina».
Sarebbe interessante chiedere a Hegel redivivo quali sentimenti desta la fotografia di Nelson Mandela che stringe la mano al capitano degli Springboks, la squadra di rugby sudafricana, che era uno dei simboli dell’apartheid, mentre ne indossava egli stesso la maglia. Forse è un’immagine meno pomposa di un uomo a cavallo. Ma non è una straordinaria espressione dell’anima del mondo, di un mondo che vuole rompere le barriere dell’odio con un atto di suprema generosità? Non diremmo che in quella persona e in quel luogo africano si è avuta una delle massime manifestazioni della storia? Altro che continente e uomini senza storia! È piuttosto il nostro continente a essersi svuotato di storia, prima per aver coltivato i miti dell’igiene razziale e sociale, e ora per l’incapacità di vivere grandi sentimenti e ideali e per la miseria di credere che sia possibile sopravvivere appesi ad aride manipolazioni tecnocratiche. Oggi il Sudafrica è un paese attraversato da terribili contraddizioni che potrebbero far fallire il progetto di Nelson Mandela, ma gli resta lo spirito impresso dal suo messaggio e cioè una voglia fortissima di andare avanti e costruire, qualcosa di cui le nostre stanche società sono sempre più povere.
Il rischio della retorica è sempre in agguato e v’è chi ha messo in guardia contro di esso in questi tempi di commemorazione della figura di Mandela, ma questo non può essere un pretesto per sminuirne la grandezza in tempi così poveri di ideali e della loro realizzazione. L’esempio concreto dell’abbattimento di barriere di odio che erano state consolidate per tanto tempo in modo implacabile non può non essere a cuore di chi, come gli ebrei, è stato vittima per eccellenza dell’odio razziale. Fa piacere leggere l’analisi documentata con cui si è mostrato che il famoso parallelismo tra palestinesi e neri sudafricani non è stato mai pronunciato da Mandela, ma anche se egli avesse commesso questa scivolata il giudizio su di lui non sarebbe potuto essere diverso e una presenza ai massimi livelli del governo israeliano ai funerali sarebbe stata una scelta giusta. Sappiamo bene che il parallelismo tra la condizione palestinese e l’apartheid ha attecchito, soprattutto in parecchie università sudafricane (pur con significative prese di distanza), ma questo è un motivo di più per combattere senza quartiere la propaganda che tenta di alimentare l’odio e le divisioni. Una persona mi ha scritto chiedendosi perché non vi sia un Mandela nel mondo arabo. In verità, vi è stato, nella persona del presidente egiziano Sadat, e si sa quale ne fu la sorte. Si sa anche quale fu la risposta da parte israeliana, a dimostrazione che il riconoscimento del diritto all’esistenza di Israele è la chiave che apre tutte le porte. È un esempio che andrebbe ricordato continuamente per far capire quanto sia sbagliato ogni paragone con l’apartheid e quanto sarebbe facile aprire le porte della pace. Tanto quanto è difficile che nasca un Mandela dove manca un autentico senso della storia.

(Shalom, gennaio 2014)

giovedì 9 gennaio 2014

La medicalizzazione della pedagogia

Sono anni che mi batto su questa faccenda e, troppo spesso, inascoltato.
È bene che si inizi a rendere conto da più parti, come in questo articolo, del disastro che si sta combinando.