L’unica cosa chiara
della vicenda della riforma della “buona scuola” è che quella che era stata
indicata fin dai primi giorni del governo Renzi come una delle priorità
assolute sta passando in seconda, terza o quarta linea. Sarebbe facile parlare
di una sconfitta dei propositi decisionisti e dell’ottimismo che li ispirava,
ma forse, a mente fredda, sarebbe meglio considerare questi passi indietro come
una necessaria resa al buon senso e al realismo. Quando una problematica è
stata resa troppo complicata – al punto che qualcuno considera addirittura la
scuola italiana come irriformabile – credere di poterne uscir fuori con il
metodo del taglio dei nodi gordiani, è un’illusione. Per anni – diciamo pure
per decenni – la scuola italiana è stata sottoposta a una valanga di interventi
parziali, di “sperimentazioni” avventate e anche da riforme complessive, come
quella Moratti, il cui impianto fortemente ideologico ha suscitato tante
critiche e diffidenze da non farle mai diventare operative, con il solito
sistema di bloccarne i decreti attuativi.
Frattanto, i
problemi non hanno fatto che aggravarsi e incancrenirsi, in un va e vieni di
decisioni dettate da pressioni corporative e da interessi elettorali, spesso in
contraddizione tra loro a seconda dell’avvicendarsi dei governi, in particolare
per quel che riguarda il problema del
precariato, con la chiusura e la riapertura delle graduatorie che hanno
gonfiato a dismisura e mai svuotato secondo un piano organico il serbatoio
degli “aventi diritto”. E tutto ciò è avvenuto mentre l’unico punto fermo dello
scenario è stata la quantità decrescente delle risorse dedicate al sistema
dell’istruzione (inclusa l’università) a livelli di penuria che hanno pochi
riferimenti all’estero. In queste condizioni, pensare di risolvere tutto d’un
colpo, con le modeste risorse disponibili, o addirittura a risorse ancora
decrescenti, era ed è una pia illusione. Qualcuno nel governo aveva
avventatamente motivato il ricorso al decreto legge d’urgenza come un modo per
non cacciarsi nella “palude” del parlamento. Ora si parla di voler mostrare una
maggiore attenzione per questa “palude”, ma sarebbe meglio riconoscere che imboccando
la linea delle riforme radicali significherebbe cascare dentro una palude ben
più pericolosa e capace di inghiottire i più esperti esploratori. Di fronte a
un terreno ridotto a sabbie mobili la scelta più saggia è procedere a piccoli
passi, sondando il terreno, seguendo un piano preciso (soprattutto se si
ritiene di avere di fronte a sé un tempo di governo abbastanza lungo) e
chiamando i vari attori a un atteggiamento responsabile che accetti di
contemperare le varie esigenze.
Pensare di
risolvere il problema dei precari d’un sol colpo è velleitario: ci permettiamo
di dubitare che persino al ministero non abbiano un’idea del tutto precisa dei
numeri e dei vari “diritti”. Inoltre – teniamo sempre sullo sfondo la questione
delle risorse fisse o decrescenti – scegliere questa via significa chiudere la
porta ai giovani per i prossimi dieci e venti anni, costruendo una scuola di
insegnanti anziani, in barba agli slogan giovanilisti. Sette anni fa, quando si
procedette a una profonda revisione del processo di formazione degli insegnanti
(con il TFA, Tirocinio Formativo Attivo), la prospettiva che sembrava ineludibile,
anche se avrebbe creato scontentezze da tutti i lati, era un immissione
graduale dei precari assieme a una immissione numericamente pari di nuove leve.
Poi si è fatto di tutto per scassare e rendere ridicolo il nuovo sistema senza
affrontare in modo organico e metodico il problema delle graduatorie, e ora ci
ritroviamo daccapo. Non sarebbe meglio prendere atto che non esiste alcuna
altra via ragionevole.
Anche senza
prendere posizione sul tema del finanziamento delle scuole paritarie è fin
troppo facile osservare che in una situazione di carenza di risorse – che vede
scuole il cui tetto cade a pezzi, con i bagni rotti e senza i quattrini per la
carta igienica – spostarne a favore delle scuole paritarie rischia di attizzare
una polemica devastante che alla fine sfocerà in un conflitto tra laici e
cattolici di cui non v’è affatto bisogno. È ben vero che le scuole paritarie
hanno in certi casi un ruolo di supplenza, ma questo accade soprattutto a
livello delle scuole dell’infanzia e delle primarie per cui, non aumentare o
addirittura diminuire – tramite il proposito sconsiderato di tagliare di un
anno i licei – significa lasciare andare allo sbando le scuole superiori,
ancora prevalentemente statali. Insomma, molti propositi possono essere
eccellenti, ma se non vi sono risorse e se, addirittura, si mette in opera una
cosmetica che nasconde malamente altri tagli, è meglio guardare la realtà in
faccia, essere sinceri, dire che i quattrini non ci sono – o non si vogliono
dare – per l’istruzione e definire una scala di priorità.
Lo stesso discorso
vale per i numerosi altri temi affrontati dal progetto della “buona scuola”.
Anche qui tralasciamo di entrare nel merito di certi propositi che, a nostro
avviso, sono largamente discutibili: non basta parlare di “merito” perché ciò
sia necessariamente un bene, se la promozione e la verifica del merito sono mal
congegnate e rischiano di dar luogo a fenomeni clientelari. Il punto – ancora
una volta – è un buon sistema di valutazione costa, e non poco e tanto più viene
realizzato con i fichi secchi tanto più si adatta soltanto a nozze di infima
categoria. Nessuno vuole nascondere l’esistenza di strati di docenti mal
preparati e poco disposti ad aggiornarsi e a impegnarsi: ma l’impegno deve
consistere nel mostrare buone competenze nell’insegnamento delle materie di
base che qualificano una buona scuola, come la matematica, l’italiano, le
scienze, la storia, e non nel mascherare l’incompetenza dietro un attivismo nel
promuovere i cosiddetti “progetti” che spesso consistono nel trasformare una
lezione di storia o geografia in una chiacchierata a ruota libera su temi di
attualità.
Un discorso analogo
vale per l’insegnamento delle lingue straniere e in particolare dell’inglese.
Tutti sanno che abbiamo pochi insegnanti di inglese davvero competenti (per non
dire delle altre lingue). Qual è allora il senso, anziché di adoperarsi a
potenziare questa che è la vera priorità lanciare il progetto dell’insegnamento
in lingua inglese di una materia nell’ultimo anno delle superiori per poi
ammettere che non esiste personale adatto a farlo, e trasferire il proposito al
quarto e quinto anno delle elementari? È un modo di procedere che assomiglia
troppo allo smercio di perline per incantare gli sprovveduti. Potremmo aprire
un discorso analogo sull’edilizia scolastica, lanciata con gran rullo di
tamburi e da tempo ferma al palo.
Sarebbe quindi
importante per il bene del paese, della sua scuola (e anche per la salute del
governo) cogliere l’occasione di questo passo indietro per una riflessione
ispirata al realismo e al buon senso che parta da una chiarezza estrema sul
punto cruciale: quali risorse si vogliono mettere nella scuola? E di qui
passare alla definizione di una scala di priorità.
(Il Messaggero e Il Mattino, 4 marzo 2015)