Caro Direttore,
lasci che, approfittando del torpore semifestivo, Le racconti qualche piccolo aneddoto curioso.
Cominciando, ad esempio dal “Testamento morale“ di Henri Bergson, ebreo, premio Nobel, accademico di Francia, uno dei maggiori filosofi del Novecento. Approssimandosi alla morte , sopravvenuta nel 1941, nel 1938, a cinque anni dall’ascesa di Hitler, Bergson scriveva: «Le mie riflessioni mi hanno portato sempre di più verso il cattolicesimo, dove vedo la realizzazione completa del giudaismo. Mi sarei convertito, se non avessi visto prepararsi da anni (in gran parte, ahimè !, per colpa di un certo numero di ebrei interamente sprovvisti di senso morale) la formidabile ondata di antisemitismo che sta per scatenarsi sul mondo. Ho voluto restare tra coloro che saranno domani dei perseguitati. Ma spero che un prete cattolico vorrà, se il cardinale arcivescovo di Parigi lo autorizza, venire a dire delle preghiere alle mie esequie>>.
E’ un testo ben conosciuto in Francia ma quasi del tutto ignorato in Italia dove, le poche volte in cui è stato riprodotto, si è provveduto spesso a censurarlo, omettendo quanto Bergson ha messo tra parentesi su quella che egli, ebreo, chiama <
Qualche tempo dopo, pubblicavo da Mondadori una trouvaille non insignificante: in un archivio romano avevo rintracciato le memorie manoscritte e inedite di Edgardo Mortara, il bambino ebreo che fu sottratto da Pio IX alla sua famiglia perchè –battezzato segretamente in punto di morte dalla fantesca– secondo il diritto sia civile che canonico doveva essere allevato cristianamente sino alla maggiore età. Il “caso Mortara“ fu usato come un randello contro la Chiesa e ancora di recente lo si è tirato in campo per cercare di impedire la beatificazione di Pio IX. Quando Giovanni Paolo II si recò, ed era la prima volta per un papa, nella sinagoga di Roma, gli ebrei che lo accolsero gli ricordarono l’affaire come segno inespiabile dell’infamia cattolica. I molti che si sono occupati e si occupano di Mortara parlano di lui sempre e solo come il <
Ancora una volta Giorgio Israel ed altri non vollero confrontarsi con un testo autentico ma mi copersero – prima ancora di leggere -di accuse infamanti e di contumelie. Dunque, uno storico che si imbatte in un importante documento inedito non dovrebbe pubblicarlo se i contenuti non sono secondo le attese di un gruppo?
Per passare a un terzo aneddoto: in una rubrica che tengo su un mensile, mi capitò di ricordare, en passant, che l’emancipazione ottocentesca degli israeliti fu accolta da molti, ovviamente, con sollievo ma suscitò anche inquietudini in una larga fascia dell’ebraismo, preoccupato per assimilazioni, matrimoni misti, perdita di identità. La “nostalgia del ghetto“ è un fenomeno ben provato e ben noto agli storici. Del resto, sin dai tempi precristiani, gli ebrei della Diaspora scelsero di vivere tra loro, in quartieri separati dai “gentili“ . In ogni caso, la Roma pontificia fu la sola capitale, in Europa, nella quale nel quale il ghetto non fu mai svuotato perché gli ebrei non furono mai espulsi e da Roma non emigrarono neanche quando i correligionari si rifugiavano nelle Americhe a navi intere. Ma cose simili sembrano far parte, essa pure, delle constatazioni che, pur oggettive, non si possono fare. Dunque, da Giorgio Israel, e altri (tra essi, Gad Lerner, addirittura sulla prima pagina de la Repubblica) ne ricavai il frutto consueto: accuse infamanti e contumelie .
Un quarto episodio: in un dibattito televisivo, avvertii che bisogna distinguere con cura, come esigono giustizia e verità: l’indubbio antigiudaismo cristiano fu cosa sola religiosa e nulla aveva a che fare con l’antisemitismo razziale, che è cosa tutta moderna, darwiniana (il nazismo fu una forma radicale di darwinismo, una ideologia della modernità atea e postcristiana, alla pari del comunismo). Insomma, i Padri della Chiesa non vanno messi nel mazzo di Adolf Hitler. Da Giorgio Israel e da altri, accuse infamanti e contumelie.
Per finire (a causa dello spazio, non della serie degli aneddoti, ben più numerosi) un quinto episodio. In un articolo ricordavo ciò che ogni storico aggiornato conosce: la ricerca moderna ha smontato buona parte della “leggenda nera“ sulla Inquisizione, ridimensionando drasticamente il numero delle vittime e riconoscendo che quei tribunali seguivano regole e concedevano garanzie ben superiori a quelle della contemporanea giustizia laica. In ogni caso, lo studioso degno del nome non deve cadere nell’anacronismo e deve cercare di comprendere le motivazioni dei protagonisti della storia, inquadrandoli nel loro tempo: humanas actiones intelligere! Altrimenti, che dire della inquisizione ebraica che scomunicò e perseguitò Baruch Spinoza, rammaricandosi che la legge dei Paesi Bassi le impedisse misure più radicali? Citavo anche il laicisssimo, l’anticlericale Luigi Firpo (mio maestro, tra l’altro, all’università di Torino) che scrisse, e mi ripetè più volte, che avrebbe preferito di gran lunga comparire davanti a un inquisitore domenicano che al giudice imparruccato di qualunque reame. Citazione insospettabile; ma, ancora una volta, da Israel e amici, accuse infamanti e contumelie.
Vedo ora (il Foglio di sabato scorso) che Israel sintetizza alcuni di questi temi per mettermi tra coloro che, come l’ebreo Harold Bloom, <
Lo dico con rammarico: Giorgio Israel ed io non ci conosciamo personalmente, mai ci è stato dato di incontrarci. Amici comuni mi parlano di lui con simpatia: e non ho difficoltà alcuna a credere loro. Se questo incontro ci sarà, come mi auguro, forse questo eccellente docente- cui, tra l’altro, va la mia stima per le sue cose, che ho letto con interesse e frutto, a metà come sono tra umanesimo e scienza, scritte con competenza e al contempo con una passione che mi è simpatetica– potrà rendersi conto che, da un cattolico come me (e siamo la maggioranza: creda a me, che conosco il milieu ), un ebreo ha da temere una cosa soltanto. Ciò che lo minaccia non sarà mai altro che l’invito a confrontarsi, con franchezza fraterna, su quel tema del messianismo che per Israel –e in questo concordo in pieno con lui- è il tema cruciale: è Gesù il Cristo annunciato dai Profeti o occorre attendere un altro? Non è questo, parola di vangelo, il dovere primario di ogni cristiano? Eppure, Israel mi ha diagnosticato -anche sull’ultimo numero di Shalom, la rivista ebraica- una <
In ogni caso, un auspicio. Che il confronto, se ha da esserci, avvenga sui fatti e sugli argomenti e non sul pregiudizio che sia un pericoloso avversario chi cerca una verità che non appare in linea con quella stabilita e autorizzata una volta per tutte. Tanto per dire : nessuno tra coloro che mi hanno aggredito con epiteti pesanti si è confrontato con l’autobiografia di Mortara, che volle divenire Padre Pio Maria in onore di Pio IX e della Madonna. Gli insulti erano motivati solo dalla decisione di pubblicarla, per giunta presso un editore come Mondadori che le ha assicurato una vasta diffusione. Attenzione –lo dico con affetto preoccupato- a non dare il sospetto di una “polizia del pensiero“: conoscendo le traversie troppo spesso tragiche del giudaismo, comprendo e rispetto una suscettibilità che non può però spingersi a considerare come nemica, e dunque da tacitare, ogni voce dialettica. Penso, ad esempio, a quanto avvenuto con un amico di Israele (al pari, almeno, di me) come Sergio Romano. Penso a certe leggi di un’Europa, libera in tutto, ma non nella possibilità per gli storici -fossero pure irritanti e persino faziosi- di indagare su momenti essenziali della storia del Continente. Per tornare a un caso specifico, è davvero giustificato che Giorgio Israel si sia liberato del memoriale Mortara, che imporrebbe di riconsiderare tutta la vicenda, con un aggettivo e un sostantivo: <
Grazie, caro Direttore, dell’ospitalità. E buon anno.
Vittorio Messori
Il Foglio – 4 gennaio 2006
Vittorio Messori è persona molto audace o che confida troppo nell’amnesia altrui. Sostiene di non avermi mai conosciuto, di aver sentito parlare di me da amici comuni, di auspicare un incontro e un dialogo, che io l’avrei sempre e soltanto ricoperto di contumelie e, a riprova, cita il caso di un suo articolo del 2001 sul Corriere della Sera in cui proponeva una frase di Henri Bergson come una pista per spiegare la Shoah. Quell’articolo suscitò reazioni sdegnate, fra cui quella di Claudio Magris. Al contrario, fra Messori e il sottoscritto – che egli non ha mai conosciuto – si sviluppò una corrispondenza che ho sottomano. Per dare un’idea quantitativa della mia disponibilità al dialogo, dirò che consta di 50401 battute, salvo altre lettere e telefonate.
Se Messori acconsente a pubblicarla (magari in rete) si potrà constatare quanto egli abbia apprezzato le mie critiche, che lo avevano fatto riflettere sulle sue frasi maldestre, dichiarando la sua amicizia nei miei confronti, della persona che non ha mai conosciuto. Frattanto, il Corriere pubblicava una sua lettera che ribadiva puntigliosamente le tesi dell’articolo su Bergson. Alle mie proteste, Messori dichiarò di averla scritta prima che io l’avessi fatto riflettere. Pubblicò quindi un articolo sulla rivista Jesus in cui ritornava sulla questione, limitandosi a dire che io gli avevo fornito una pista interpretativa.
Quindi, a dialogare apertamente e civilmente con Messori ci ho provato, eccome. Del resto, i lettori del Foglio sanno che non sono certamente un difensore dell’intangibilità degli ebrei, e che ho criticato – attirandomi non poche ostilità – il mito dell’unicità della Shoah. E proprio su queste pagine ho sostenuto polemiche con Messori (21 e 26 febbraio 2004 e 25 febbraio 2005), dure quanto si vuole, ma sui contenuti e senza contumelie. Non dice il vero quindi Messori quando pretende che io avrei liquidato i suoi argomenti sul caso Mortara con mere invettive. È lui piuttosto a esibire un’assoluta impenetrabilità agli argomenti altrui e a non vedere le travi nei suoi occhi. Chi provi a farlo, constaterà che dialogare con Messori è come sbattere la testa contro un muro di pietra. Mi sono dovuto progressivamente arrendere alla constatazione che Messori nutre un interesse spasmodico per gli ebrei che lo porta sempre e comunque a rivalutare i peggiori stereotipi e a giustificare (o “spiegare”) l’ingiustificabile, persino i processi dell’Inquisizione o le tirate antisemite di padre Ballerini su “Civiltà Cattolica”. E mi sono reso conto che Messori compie queste operazioni con un metodo che con la storiografia ha poco a che fare: spigola notizie disparate, seleziona una frase qua e là e ne ricava costruzioni senza fondamento, ma che magari portano a trovar prove del complotto dei “Protocolli” nel Talmud. (E che cos’è, di grazia, l’“inquisizione ebraica”?)
Un anno fa ho scritto sul Foglio un articolo dal titolo “Ebrei e cattolici smettano di ferirsi a colpi di passato”. È una cosa a cui credo profondamente. Non bisogna lasciarsi afferrare indefinitamente per i piedi dal passato. Tantomeno penso che si debba chiedere ai discendenti di chi ti ha fatto un torto di vivere in stato di eterna prostrazione. Ma, per favore, si aiuti un poco a coltivare simili sentimenti. È un aiuto sbatterti in faccia un’interpretazione storica che nega fino alla più totale sfida dell’evidenza qualsiasi responsabilità cristiana nell’antisemitismo? Quando, per la prima volta, scesi dall’aereo a Berlino ero molto emozionato perché calcavo la terra del paese in cui era stata distrutta la mia famiglia. Era un congresso internazionale scientifico, e nell’atrio incontrai un’esposizione dedicata al dramma dell’emigrazione degli scienziati ebrei tedeschi con l’avvento del nazismo. Mi fece così bene che, in quei giorni, circolavo per le vie di Berlino come se fosse casa mia, con un sentimento di riconciliazione profonda. Era bastato poco. Ma quali sentimenti avrei provato se mi fossi trovato di fronte ad affermazioni negazioniste o minimizzatrici? Invece Messori, con le sue minimizzazioni dell’Inquisizione, è capace di farti tornare un rigurgito di rabbia per la violenza subita, nel lontano 1492, dalla famiglia originaria della Spagna.
Un ultimo esempio. Nel suo libro sul caso Mortara, Messori ha parlato dell’Alliance Israélite Universelle. Chiunque conosca un minimo di storia seria sa che questa organizzazione s’inscriveva nella linea dei diritti dell’uomo del 1789 e mirava a organizzare il giudaismo su una base universalistica, ispirata ai principi illuministici di libertà, uguaglianza e laicità. I fondatori ritenevano che il progresso morale degli ebrei potesse conseguirsi attraverso la diffusione dell’istruzione fin nei territori più perduti e difatti venne creata una grande rete scolastica mondiale. Ebbene, per Messori, l’AIU sarebbe stata «la prima organizzazione ebraica di autodifesa in prospettiva mondiale», e non di autodifesa generica, ma propriamente militare. Insomma, un’organizzazione che preparava «incursioni» che erano «quasi una prefigurazione degli omicidi mirati dell’esercito israeliano»…
Non ho nulla contro i militari o i servizi di sicurezza, figurarsi. Ma sarebbe ragionevole affermare che l’ordine dei francescani è un reparto di teste di cuoio? Che dire? In questo caso, soltanto che, come pronipote del fondatore in Oriente dell’AIU, il rabbino Judah Nehama, spirito illuminato e tollerante, mi sento semplicemente offeso. Continui pure Messori a tirarci per i piedi con il passato, ma poi non si lamenti se il dialogo con lui è impossibile.
Giorgio Israel
Nessun commento:
Posta un commento