(Informazione Corretta, 28 giugno 2007)
Si vede proprio che al Corriere della Sera hanno deciso di farci venire un ardente nostalgia di D’Alema. Noi, da estremisti quali siamo, non sapevamo apprezzare il moderatismo del nostro ministro degli esteri, il suo equilibrio nel valutare la situazione mediorientale e il suo amore per Israele. Così, per farci rinsavire, a Via Solferino hanno deciso di usare l’“arma fine di mondo”, ovvero un’intervista del Presidente della Commissione Esteri del Senato, il senatore Lamberto Dini. In verità, neppure immaginavamo che fosse una simile “arma fine di mondo”.
Il senatore Dini è andato a trovare il presidente siriano Bashar Assad, in processione dopo Diliberto, ma ha voluto correggere l’impressione di freddezza che aveva lasciato il segretario dei comunisti italiani, così distaccato e formale nei confronti della Siria. Così ha messo in mostra tutta la simpatia che deve avere un Presidente della Commissione Esteri del Senato italiano per la pacifica democrazia siriana. Assad ha aperto gli occhi di Dini: sempre più giovani si stanno arruolando nella fila del fondamentalismo islamico e quindi anche la Siria rischia di diventare una polveriera. E di chi è la colpa? Ma di Israele, beninteso! È di quella potenza nucleare imperialista che si rifiuta di cedere le alture del Golan che trattiene non si sa perché. Già, perché mai se le tiene? Non ci avevamo pensato, ma questi israeliani sono veramente assurdi nella loro prepotenza! Pretendono pure di garantire militarmente la loro tranquillità, quando hanno l’atomica che potrebbero tranquillamente tirare su Damasco, in caso di tiri di katiushe. D’altra parte, è chiaro che quando il Golan tornasse alla Siria i giovani smetterebbero di credere nel fondamentalismo islamico e invaderebbero le strade di Damasco con le bandiere della pace. Evidente, no?
D’altra parte, è come per il Libano. Perché le cose vanno male laggiù? Perché «nessuno si è voluto sedere al tavolo delle trattative», dice il senatore. “Nessuno”, naturalmente, è Israele. E quali trattative? Ma è chiaro, sbadati che siete! Le trattative per restituire le fattorie di Sheeba e riottenere così i soldati rapiti. No, anzi, non esageriamo con le pretese: per «avviare una trattativa per il rilascio dei due soldati rapiti». Si avvia, poi si vede, però bisogna dar prova di buona volontà che diamine… Poi, se non restituiscono i soldati, pazienza, intanto si è applicata la regola aurea del “land for war” – volevo dire “land for peace”, scusate.
Non è questione per Dini di applicare le risoluzioni dell’ONU. Anzi, diciamola tutta. Il senatore non l’ha detto chiaramente, perché lui è un diplomatico, ma noi abbiamo capito: l’ONU è un’organizzazione in mano ai sionisti. Difatti, che senso hanno quelle risoluzioni, e quella storia del disarmo di Hezbollah? «Hezbollah è un’importante componente del parlamento libanese. Davanti al suo leader Nasrallah si inchinano tutti con rispetto per la sua saggezza». Proprio così… Si inchinano. Proprio tutti. Avete mai sentito i discorsi di Nasrallah? Sono capolavori di saggezza e moderazione, che manco fosse la sintesi di Kant, Ghandi e Martin Luther King (no, quello no, perché era amico dei sionisti). Persino il senatore Dini vorrebbe essere capace di fare dei discorsi parlamentari di quel livello, ma ancora non ci riesce, malgrado studi giorno e notte quei testi. Perché non invitiamo Nasrallah per un’audizione di fronte alla Commissione Esteri del Senato? Ne avremmo da guadagnare tutti. Ci insegnerebbe anche come fabbricare bunker e sparare missili sui civili dalle case abitate da civili.
Poi, per quanto riguarda tutto il resto di quelle risoluzioni ONU, si tratta di balle epocali. Per esempio, quella faccenda che passassero dalla Siria le armi per Hezbollah. Era soltanto un sospetto, ma per evitarne persino l’ombra la Siria ha chiuso le frontiere e ha dovuto e deve pagarne ingenti danni economici. Poveracci… Credete, ci scappa da piangere. Del resto, chi è il mascalzone che ha detto che c’entri la Siria con l’omicidio di Hariri? «Quali vantaggi potevano venirne alla Siria? L’assassinio potrebbe essere stato progettato da chi voleva il caos facendo ricadere la colpa sulla Siria». Chi sarà? Tolto Hezbollah, che è tanto rispettabile, ed anche Hamas, che «è un gruppo eletto democraticamente» - e giustamente, perché «la gente era stufa» e «i regimi corrotti vengono spazzati via da rivolte» -, chi sarà mai? A noi comincia a venire in mente che siano gli israeliani. In ogni caso, la Siria ha tutte le ragioni a non riconoscere il tribunale internazionale perché pensa che si tratti di un affare interno libanese. Insomma qui è in atto una vera congiura internazionale contro Assad, il derelitto.
Per fortuna però che «l’Italia sta giocando un ruolo importante, la Siria ce lo riconosce, ci considera un paese amico». Il guaio sono gli altri paesi europei, «troppo distratti». Anzi, diciamola tutta, non soltanto l’ONU ma anche l’UE è in mano ai sionisti. Questo è il problema.
Per concludere, non è che ci sia venuta la nostalgia di D’Alema, ma una cosa è certa: non ci vengano a parlare di un qualche governo di transizione, istituzionale o elettorale a presidenza Dini, perché allora auspichiamo che il presidente Napolitano faccia un colpo di stato e assuma i pieni poteri. Agli israeliani un piccolo consiglio: fate meno i buoni e i buonisti e guardate che “amici” avete nel governo e nella maggioranza italiane. E infine, già che viene Nasrallah per un’audizione alla commissione esteri, potremmo chiedere che lo accompagnino Haniyeh e Meshaal, così che tutti insieme ci spieghino, con la loro saggezza, come si cacciano via i regimi di cui si è stufi?
Giorgio Israel
«Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante Alighieri)
giovedì 28 giugno 2007
martedì 26 giugno 2007
Pure La Fontaine si indigna per la peste umanitarista contro Israele
(da Il Foglio, 26 giugno 2007)
La violazione dei diritti umani si abbatte sul mondo come una peste. Milioni di persone sono private della loro condizione umana e molto spesso della vita da regimi oppressivi, brutali e torturatori che non tollerano alcun dissenso e spesso neppure l’esistenza di persone che manifestano la minima forma di diversità dal paradigma ufficiale, per esempio di essere cristiani in terra islamica.
In questa situazione drammatica, la nuova commissione dell’Onu per i diritti umani, che era chiamata a far dimenticare i “fasti” della sciagurata precedente commissione, ha approvato il suo nuovo ordinamento ed è riuscita a far di peggio. Difatti, da un lato ha fatto una zelante opera di autoassoluzione e sbiancamento generale: Cuba e la Bielorussia sono stati eliminate dalla lista dei paesi sotto osservazione ereditata dalla precedente commissione. Vi sono rimasti, ma in modo molto blando e generico, Birmania, Zimbabwe, Sudan e Nord Corea. Ma, d’altro lato, ha posto sotto i riflettori di sorvegliato speciale un paese soltanto. Indovinate un po’… Israele. Soltanto un paese, il Canada, si è opposto a questa vergogna. Tutti gli altri hanno votato a favore. Il delegato italiano ha dichiarato che «le nuove misure sono largamente positive, anche se alcuni punti sono insoddisfacenti».
Dunque, tutti gli orrori e le ingiustizie del mondo si concentrano solo ed esclusivamente in Israele. C’è bisogno di commento? Ci limiteremmo a proporre una descrizione dei lavori dello Human Rights Council dell’Onu con la parole di una favola di La Fontaine, “Gli animali malati della peste”, di cui offriamo qui la nostra traduzione.
«Un male che spande il terrore,
Male che il cielo nel suo furore
Inventò per punire i crimini della terra.
La peste (poiché occorre chiamarla col suo nome),
Capace di arricchire in un giorno l’Acheronte,
Faceva agli animali la guerra.
Non morivano tutti, ma tutti ne erano colpiti:
Non se ne vedevano intenti
A cercare il sostegno di una vita morente;
Nessun cibo eccitava i loro desideri;
Né i lupi né le volpi spiavano
La dolce e innocente preda;
Le tortorelle fuggivano:
Niente più amore e quindi niente più gioia.
Il leone chiamò a consiglio e disse: “Miei cari amici,
Credo che il cielo abbia permesso
Questa disgrazia a causa dei nostri peccati.
Che il più colpevole di noi
Si sacrifichi ai dardi dell’ira celeste;
Forse otterrà la guarigione di tutti.
La storia ci insegna che in simili disgrazie
Si fanno simili sacrifizi.
Non concediamoci alcuna blandizie: esaminiamo senza indulgenza
Lo stato della nostra coscienza.
Quanto a me, per soddisfare i miei ghiotti appetiti,
Ha divorato molti agnelli.
Cosa mi avevano fatto? nessuna offesa;
Mi è anche successo talvolta di mangiare
Il pastore.
Mi sacrificherò dunque, se è necessario: ma penso
Che è bene che ciascuno si accusi al pari di me;
Perché occorre augurarsi che, secondo giustizia,
Perisca il più colpevole.
Sire, disse la volpe, siete un re troppo buono;
I vostri scrupoli mostrano troppa delicatezza.
Ebbene! mangiare pecore, canaglie, gente spregevole,
È forse un peccato? No, no, voi faceste loro, signore,
Mangiandoli, molto onore;
E quanto al pastore, si può dire
Che era degno di ogni male,
Essendo di quella genìa che sugli animali
Sogna un impero illusorio.
Così disse la volpe tra gli applausi degli adulatori.
Non si osò troppo approfondire
Della tigre, dell’orso, e di altre potenze,
le più imperdonabili offese.
Tutte le persone litigiose, fino ai semplici mastini,
erano, secondo il parere di tutti, dei santarelli.
L’asino venne quando fu il suo turno e disse: Mi sovviene
Che passando in un prato di monaci,
Spinto dalla fame, dall’occasione, dall’erba tenera e, penso,
Mosso anche da qualche diavolo,
Tosai di questo prato la larghezza della mia lingua;
Non ne avevo alcun diritto, visto che occorre parlar chiaro.
A queste parole tutti si sollevarono gridando contro il somaro.
Un lupo, un po’ chierico, dimostrò con la sua arringa
Che occorreva sacrificare quel maledetto animale,
Quel pelato, quel rognoso, da cui venivano tutti i loro mali.
Il suo peccatuccio fu giudicato un caso da forca.
Mangiare l’erba altrui! Che crimine abominevole!
Soltanto la morte poteva
Espiare la sua colpa. Glielo fecero vedere».
Giorgio Israel
La violazione dei diritti umani si abbatte sul mondo come una peste. Milioni di persone sono private della loro condizione umana e molto spesso della vita da regimi oppressivi, brutali e torturatori che non tollerano alcun dissenso e spesso neppure l’esistenza di persone che manifestano la minima forma di diversità dal paradigma ufficiale, per esempio di essere cristiani in terra islamica.
In questa situazione drammatica, la nuova commissione dell’Onu per i diritti umani, che era chiamata a far dimenticare i “fasti” della sciagurata precedente commissione, ha approvato il suo nuovo ordinamento ed è riuscita a far di peggio. Difatti, da un lato ha fatto una zelante opera di autoassoluzione e sbiancamento generale: Cuba e la Bielorussia sono stati eliminate dalla lista dei paesi sotto osservazione ereditata dalla precedente commissione. Vi sono rimasti, ma in modo molto blando e generico, Birmania, Zimbabwe, Sudan e Nord Corea. Ma, d’altro lato, ha posto sotto i riflettori di sorvegliato speciale un paese soltanto. Indovinate un po’… Israele. Soltanto un paese, il Canada, si è opposto a questa vergogna. Tutti gli altri hanno votato a favore. Il delegato italiano ha dichiarato che «le nuove misure sono largamente positive, anche se alcuni punti sono insoddisfacenti».
Dunque, tutti gli orrori e le ingiustizie del mondo si concentrano solo ed esclusivamente in Israele. C’è bisogno di commento? Ci limiteremmo a proporre una descrizione dei lavori dello Human Rights Council dell’Onu con la parole di una favola di La Fontaine, “Gli animali malati della peste”, di cui offriamo qui la nostra traduzione.
«Un male che spande il terrore,
Male che il cielo nel suo furore
Inventò per punire i crimini della terra.
La peste (poiché occorre chiamarla col suo nome),
Capace di arricchire in un giorno l’Acheronte,
Faceva agli animali la guerra.
Non morivano tutti, ma tutti ne erano colpiti:
Non se ne vedevano intenti
A cercare il sostegno di una vita morente;
Nessun cibo eccitava i loro desideri;
Né i lupi né le volpi spiavano
La dolce e innocente preda;
Le tortorelle fuggivano:
Niente più amore e quindi niente più gioia.
Il leone chiamò a consiglio e disse: “Miei cari amici,
Credo che il cielo abbia permesso
Questa disgrazia a causa dei nostri peccati.
Che il più colpevole di noi
Si sacrifichi ai dardi dell’ira celeste;
Forse otterrà la guarigione di tutti.
La storia ci insegna che in simili disgrazie
Si fanno simili sacrifizi.
Non concediamoci alcuna blandizie: esaminiamo senza indulgenza
Lo stato della nostra coscienza.
Quanto a me, per soddisfare i miei ghiotti appetiti,
Ha divorato molti agnelli.
Cosa mi avevano fatto? nessuna offesa;
Mi è anche successo talvolta di mangiare
Il pastore.
Mi sacrificherò dunque, se è necessario: ma penso
Che è bene che ciascuno si accusi al pari di me;
Perché occorre augurarsi che, secondo giustizia,
Perisca il più colpevole.
Sire, disse la volpe, siete un re troppo buono;
I vostri scrupoli mostrano troppa delicatezza.
Ebbene! mangiare pecore, canaglie, gente spregevole,
È forse un peccato? No, no, voi faceste loro, signore,
Mangiandoli, molto onore;
E quanto al pastore, si può dire
Che era degno di ogni male,
Essendo di quella genìa che sugli animali
Sogna un impero illusorio.
Così disse la volpe tra gli applausi degli adulatori.
Non si osò troppo approfondire
Della tigre, dell’orso, e di altre potenze,
le più imperdonabili offese.
Tutte le persone litigiose, fino ai semplici mastini,
erano, secondo il parere di tutti, dei santarelli.
L’asino venne quando fu il suo turno e disse: Mi sovviene
Che passando in un prato di monaci,
Spinto dalla fame, dall’occasione, dall’erba tenera e, penso,
Mosso anche da qualche diavolo,
Tosai di questo prato la larghezza della mia lingua;
Non ne avevo alcun diritto, visto che occorre parlar chiaro.
A queste parole tutti si sollevarono gridando contro il somaro.
Un lupo, un po’ chierico, dimostrò con la sua arringa
Che occorreva sacrificare quel maledetto animale,
Quel pelato, quel rognoso, da cui venivano tutti i loro mali.
Il suo peccatuccio fu giudicato un caso da forca.
Mangiare l’erba altrui! Che crimine abominevole!
Soltanto la morte poteva
Espiare la sua colpa. Glielo fecero vedere».
Giorgio Israel
domenica 3 giugno 2007
Come e perché è morta la questione palestinese
Gli eventi mediorientali di questi giorni rappresentano una svolta talmente radicale e drammatica da non consentire più mezzi discorsi. Non sappiamo cosa starà accadendo nelle ore in cui questo articolo sarà pubblicato, se gli scontri interpalestinesi staranno continuando o se sarà stata raggiunta una tregua abborracciata e senza futuro, se altri missili Qassam saranno caduti su Sderot e l’intervento di Tsahal si sarà fatto più pesante. Non possiamo prevederlo, ma in fondo si tratta di cosa secondaria. Né è facile prevedere cosa accadrà nel breve periodo: se Hamas rafforzerà la sua presa e ciò determinerà un aggravarsi della tensione con una possibile riesplosione del fronte libanese fino a una guerra regionale in estate. È una previsione difficile e in definitiva inutile rispetto al problema principale che sta esplodendo: la questione palestinese.
Ascoltando attentamente in giro si è sentita una sola voce che ha avuto il coraggio di dire apertamente qual sia la posta in gioco. Hanna Siniora, osservando di non aver «mai visto nulla di così grave come le battaglie di questi giorni», ha emesso una sentenza pesantissima: «È la morte del progetto nazionale palestinese».
Intorno a questa frase si sente soltanto retorica bellicista o pacifista, slogan vuoti e “langue de bois” della diplomazia più formale. È a dir poco stupefacente che proprio nel momento più tragico, più denso di prospettive conflittuali, più intriso di odî insolubili come pietre, si senta parlare addirittura con ottimismo di “nuove prospettive” di pace aperte da un piano saudita vecchio di decenni e intessuto di idee impossibili, di “due popoli, due stati” e di altre tragiche amenità, che forse vengono dette e ripetute da tutti per il semplice motivo che nessuno se la sente di dire l’indicibile, e cioè che tutte queste chiacchiere sono fuori dalla realtà e che l’obbiettivo “due popoli, due stati” è lontano come non mai, se mai ha avuto prospettive reali. Nessuno dice l’indicibile forse per non essere accusato di aver rotto la bolla di sapone dei buoni sentimenti e dei buoni propositi.
Ma i buoni sentimenti e i buoni propositi quando sono fuori della realtà lastricano la strada dell’inferno e, nella fattispecie, condannano i “due popoli” a percorrerla l’uno accanto all’altro; e, di certo, i palestinesi in modo non meno drammatico degli israeliani. E questa davvero non è retorica. Non intendiamo minimizzare affatto la condizione in cui vivono i palestinesi: morte, sangue, miseria e sofferenze senza fine e di cui non si vede la fine e che, anzi, si proiettano nella prospettiva di un conflitto che può cessare soltanto con la distruzione dell’ “entità sionista” e che può conoscere come tregua soltanto il conseguimento di obbiettivi assolutamente irrealistici, come quelli del piano saudita (ritorno al confini del 1967 e rientro di alcuni milioni di profughi sul suolo di Israele). Oltretutto, si tratta di un conflitto che si interseca con una guerra civile volta ad affermare l’egemonia di un gruppo sull’altro, in cui persino una parte di Hamas scavalca l’altra ed altri gruppi scavalcano Hamas, in una rincorsa senza fine verso l’estremismo.
Questo inferno politico-terroristico, che trascina centinaia di migliaia di persone in un baratro senza fondo e senza prospettive, è proprio quel che Siniora ha definito «la morte del progetto nazionale palestinese». E che questo sia l’esito è di evidenza solare, perché soltanto un pazzo o un ipocrita potrebbe sostenere che sia realista e praticabile una ripartizione territoriale in due stati, uno dei quali anziché essere governato da una classe dirigente capace di garantire l’ordine e la legalità all’interno e di trattare la pace all’esterno, resta in balìa di una sanguinosa guerra per bande la cui posta in gioco è il decidere quale sia il modo migliore di arrostire lo stato confinante. Ma se siamo a questo punto, occorre chiedersi come ci si sia arrivati e come se ne possa uscire. È una risposta dovuta a due popoli che soffrono e, in particolare, al popolo palestinese che è ostaggio e vittima di un mito assurdo e impossibile e le cui sofferenze possono cessare soltanto uscendo da questo mito.
Immaginiamo già le grida di scandalo: dunque Israele avrebbe diritto ad essere un’entità nazionale e i palestinesi non l’avrebbero? È quasi superfluo dire che non ci curiamo di chi strepita contro i diritti di Israele in nome di una critica del sionismo in quanto espressione di un’odiata ideologia “nazionalista”. È davvero una bella coerenza considerare nobile l’idea di identità nazionale quando si tratta dei palestinesi e spregevole nel caso del progetto sionista! Per parte nostra, non abbiamo nulla contro l’idea di nazione. Siamo anzi fermamente convinti che l’idea di democrazia, e in particolare di democrazia liberale, e la sua intrinseca propensione a diffondere i principi dei diritti della persona in una cornice universalistica, abbia preso corpo storicamente entro le realtà nazionali e che ancor oggi nessuno sia riuscito a definire chiaramente un contesto diverso entro cui far vivere e prosperare la democrazia. Può certamente darsi una realtà nazionale senza democrazia ma è difficilmente pensabile una democrazia al di fuori del supporto di un tessuto nazionale. Inoltre, il costituirsi di un’identità nazionale ha sempre implicato un esercizio della forza e anche una certa dose di violenza e non può quindi negarsi che la creazione dello stato d’Israele abbia determinato sofferenze e ingiustizie per la popolazione araba residente nei territori su cui lo stato d’Israele si è costituito. Del resto, non è abituale, in certi ambienti, giustificare l’esercizio della violenza da parte dei palestinesi con l’argomento che essa sarebbe l’espressione inevitabile di una lotta di liberazione nazionale?
Tuttavia, se non abbiamo nulla contro l’idea di nazione, la costituzione di una nazione non è un diritto astratto e non si realizza a tavolino, bensì trova la sua legittimità nella realtà storica concreta. Altrimenti, semplicemente non ha luogo ad essere. La formazione di un’identità nazionale ha come condizioni necessarie l’esistenza di un progetto condiviso di costruzione di una società, di ideali comuni, un tessuto culturale e linguistico, e inoltre la manifestazione più chiara – e assolutamente indispensabile – di tale comunione di intenti: ovvero che il potere di esercitare il diritto e la forza deve appartenere a un’entità statuale unica. Soltanto lo stato può avere un esercito, una polizia, una magistratura: l’inesistenza di questo requisito è la prova assoluta che non esistono le condizioni minime per un progetto di costruzione di una società nazionale. Israele è riuscito a soddisfare queste condizioni, ed è riuscito a realizzare l’ultimo e imprescindibile requisito disarmando i suoi gruppi terroristici; e lo ha fatto addirittura nel vivo dello scontro con le potenze arabe circostanti che volevano soffocarne la nascita. Se Israele non fosse riuscito a fare questo non sarebbe mai nato, o si sarebbe rapidamente dissolto. Non entreremo quindi nelle interminabili diatribe circa il carattere “artificiale” del recupero di un’identità nazionale ebraica dopo duemila anni di dispersione: i fatti storici hanno dato la risposta e hanno mostrato che tale identità aveva un senso, era perfettamente possibile ed aveva basi così solide da superare prove di incredibile durezza. Il discorso dell’“artificialità” potrebbe essere applicato alla formazione della nazione italiana e, ancor di più, di quella greca, in cui il recupero di una lingua greca unificata ha avuto caratteristiche non molto dissimili dall’istituzione dell’ebraico moderno; e un discorso analogo ai applica a molte altre situazioni. In tutti questi casi, la risposta è venuta dai processi storici reali che hanno visto il realizzarsi di quei requisiti indispensabili di cui si diceva sopra.
Spesso si ha l’impressione che si sia diffuso un modo irrazionale di leggere i fatti storici. Non mi riferisco soltanto alle tesi bizzarramente relativiste di chi sostiene che “noi occidentali” siamo prepotenti perché pretendiamo di imporre l’idea che lo stato debba essere l’unico detentore del potere mentre è “legittimo” che altri ritengano che un partito politico (per esempio, Hezbollah) possa possedere la propria forza militare. Penso alle tesi non nuove di chi ha giustificato il terrorismo palestinese sostenendo che anche il Risorgimento italiano ha avuto i suoi terroristi (Mazzini) e i suoi eversori dell’autorità costituita (Garibaldi). Ragionamento quanto mai bislacco perché, se anche concedessimo per esercizio dialettico – e non lo concediamo affatto – che Mazzini fosse un qualsiasi terrorista, la legittimità della nazione italiana si è fondata sull’affermazione, persino brutale ma sacrosanta e salutare, di un’autorità statuale unica detentrice del diritto di esercitare la forza (come apprese Garibaldi in Aspromonte). Il guaio è che, dimenticando o denigrando i processi storici che hanno condotto alla formazione delle realtà nazionali democratiche occidentali – e, quel che è peggio, perdendo così gli strumenti per capire per quali ragioni la democrazia vi è stata distrutta nel Novecento – si arriva a giustificare il terrorismo come via legittima per la formazione di una realtà nazionale, anziché come un’escrescenza infetta da eliminare al più presto, proprio nell’interesse di quella causa.
Ma andiamo indietro. Oggi abbiamo dimenticato che nessuno ha mai conosciuto, fino al 1964, la parola “palestinese”, peraltro derivata da una denominazione imposta dall’Impero romano a quelle terre dopo la dispersione della presenza ebraica. La storia non ha mai conosciuto né l’esistenza né il nome di un “popolo palestinese”: si ricordi che fino al 1967 si è sempre e soltanto parlato di conflitto “arabo-israeliano”. L’attribuzione di un’identità specifica alle popolazioni residenti nella regione è frutto della creazione dello stato di Israele, una sorta di feed-back di tale evento, peraltro largamente favorito dal rifiuto dei paesi arabi delle modalità di risoluzione del contenzioso proposte dalle risoluzioni Onu e dalla decisione con cui, nel 1964, una conferenza della Lega araba creò una “Organizzazione di Liberazione della Palestina” dapprima retta da un pallido fantoccio, Ahmed Shukeiri, e poi passata nelle mani del capo del movimento terroristico Fatah, Yasser Arafat. Creazione assolutamente artificiale, quindi. Ma – si dirà, sulla base del discorso precedente – anche le creazioni artificiali, persino le più artificiali, possono riuscire a farsi un posto nella storia e ad acquisire dei diritti. Guardiamo allora a cosa è avvenuto in quarant’anni di lotte per la costituzione di un’identità nazionale palestinese e se esso ha corrisposto alle condizioni minime che abbiamo sopra enunciato. La risposta è negli eventi di quest’ultimo anno e di questi ultimi giorni e nella pesante frase di Hanna Siniora: nulla. Non è stato costruito nulla altro che un progetto di distruzione di cui sono vittime non soltanto gli israeliani ma ancor più i palestinesi.
Le cause sono molteplici e sono da ricondursi principalmente alla responsabilità della grande maggioranza dei paesi arabi e islamici, oltre che a una diffusa ipocrisia dell’occidente. Il progetto della costituzione di un’entità nazionale palestinese era profondamente insincero: nella politica dei paesi arabi quel progetto era pensato non con l’intento di realizzarlo davvero, ma soltanto come un’arma di pressione contro Israele e un modo per scaricare esclusivamente su Israele il problema dei profughi. Nelle mani di Arafat poi, esso è divenuto un programma apocalittico di distruzione di Israele che non ha mai contemplato seriamente alcun accordo di pace, se non come tappa provvisoria verso l’esito finale della distruzione dell’ “entità sionista”, come ancor oggi recita la carta di Fatah. E, soprattutto, non ha mai contemplato alcuna idea di costruzione di un’entità nazionale proiettata verso la solidarietà sociale, la crescita economica, il benessere, una vita ordinata e regolata dalla legge, una struttura statuale fondata sul conferimento della forza a un potere legittimo, la soppressione delle bande armate. Taluno dirà, ovviamente, che Israele ha reso ciò impossibile. Ma si guardi ai fatti. Non appena si sono realizzati degli accordi di pace essi hanno prodotto l’effetto contrario a quel che ci si doveva attendere. Dopo Oslo vi fu un’esplosione drammatica del terrorismo. La formazione di un’Autorità Nazionale Palestinese non ha prodotto affatto la sparizione delle bande armate, al contrario. Il ritiro da Gaza non ha suscitato la minima spinta a uno sviluppo economico e sociale e a una riorganizzazione dei poteri in senso democratico, bensì la striscia è diventata un’enorme deposito di armi e una base per il lancio di missili verso Israele che hanno ridotto Sderot a una città fantasma. Gli ingentissimi aiuti economici dell’occidente – che, come è stato osservato, avrebbero consentito di costruire una villa con piscina per ogni palestinese – sono stati interamente utilizzati per procurarsi armi, finanziare il terrorismo e produrre una enorme e capillare propaganda antiebraica.
Qui arriviamo all’altro aspetto centrale che evidenzia il carattere distruttivo del “progetto nazionale” e l’irresponsabile follìa con cui è stato condotto dai gruppi dirigenti palestinesi. Nulla è stato fatto per creare una disposizione alla convivenza pacifica e tutto quel che era possibile fare è stato fatto per alimentare l’odio più sfrenato, la giustificazione del terrorismo più efferato, fino alla terrificante esaltazione dell’esplosione suicida persino presso i bambini di pochi anni. Tutto è stato fatto per denigrare la figura dell’ebreo, persino tentando di svellere i diritti di Israele con il ricorso al negazionismo della Shoah e diffondendone i veleni in un’Europa che già è abbastanza malata di per sé per non dover subire ulteriori contagi.
Abbiamo detto che un progetto nazionale contiene inevitabilmente una certa dose di violenza intrinseca, ma quando non contiene alcuna spinta positiva interna e volta a finalità condivise, bensì trova soltanto ragion d’essere e alimento nell’odio e nella volontà di distruzione dell’altro, allora esso è minato dalle fondamenta. Si parla tanto di negazione israeliana dei diritti dei palestinesi e non si dice una sola parola dell’oscena campagna cui stiamo assistendo in un crescendo che ha assunto toni parossistici da Camp David in poi – e che sta contaminando anche le coscienze in occidente – secondo cui una presenza ebraica in Palestina non ci sarebbe mai stata, secondo cui persino il Tempio di Gerusalemme non è mai esistito e il Muro del Pianto è un insieme di pietracce qualsiasi. Tutto è ed è sempre stato “palestinese”; anche – supremo obbrobrio – Gesù era “palestinese”… Persino i fatti storici più inconfutabili vengono sostituiti con una storia che, ancor più che artificiale, è assolutamente inesistente. Si parla dei diritti conculcati dei musulmani ad accedere a Gerusalemme, dimenticando che mai la città ha conosciuto una simile condizione di libertà di accesso ai luoghi santi quanto negli ultimi quarant’anni; prima dei quali agli ebrei era vietato l’accesso al Muro occidentale, l’antico quartiere ebraico era stato distrutto e le lapidi del millenario cimitero del Monte degli Ulivi erano usate come pisciatoi o per lastricare strade. Oggi, l’indicazione di quel che diventerebbe Gerusalemme vecchia sotto controllo palestinese è data dal comportamento dell’autorità islamica delle Moschee sul Monte del Tempio che, mentre protesta per ogni scavo israeliano condotto all’esterno del complesso, ha svuotato il sottosuolo dove sorgeva il Tempio per costruirvi una terza moschea, gettando nella spazzatura quintali di resti archeologici, compiendo così quella che, per un ebreo religioso, è un’autentica profanazione.
Si possono legittimamente criticare i governi israeliani, i loro errori, le loro sordità, ma qui siamo in presenza di una situazione inaccettabile. È impossibile non vedere che la formazione di uno stato su queste basi è soltanto la premessa per la creazione di un mattatoio.
Ha detto ancora Siniora: «Noi palestinesi non siamo abbastanza maturi per accettare di condividere l’autorità e per far funzionare una coalizione. Yasser Arafat ha dominato per quarant’anni conservando tutto il controllo nelle sue mani. Dopo di lui, Hamas ha governato per un anno come un partito unico. Non siamo capaci di capire che cosa significhi un’alleanza politica». Ed ha aggiunto che l’accordo di febbraio a La Mecca «era fragile fin dall’inizio. È stato come incollare due materiali opposti, senza cemento. Le violenze interne sono colpa di Hamas e del Fatah. Avrebbero dovuto porsi come priorità la fine dell’occupazione israeliana e poi discutere di chi comanda. Non hanno messo gli interessi della causa palestinese in cima ai loro obbiettivi. È una vergogna».
E qui già non ci siamo più. La vergogna non è che Hamas e Fatah non abbiano messo come priorità la fine dell’occupazione israeliana per poi discutere di chi comanda, Difatti, proprio la chiarificazione di chi comanda costituisce la condizione minima per pretendere la fine dell’occupazione israeliana. Sarebbe stato forse ragionevole far finta di mettersi d’accordo per ottenere i territori occupati e poi regolare i conti sparando? È davvero pensabile che possa nascere una nazione degna di questo nome su simili basi? Ed è pensabile che anche il governo israeliano più pacifista e aperto possa accettare la costituzione di uno stato strettamente adiacente, anzi avvinghiato al suo e per di più dotato di continuità territoriale, ridotto essenzialmente a una base di bande terroriste? Sarebbe quanto accettare signorilmente il suicidio, senza che questo serva a far avanzare di un centimetro il popolo palestinese verso una condizione migliore.
È indicativo e inquietante che anche una persona ragionevole come Siniora coltivi una simile confusione. Egli dice che «gli israeliani si sono ritirati da Gaza senza offrire una soluzione politica. Questo ha permesso a Hamas di proclamare che “la resistenza porta a risultati”». In tal modo, egli non fa altro che approfondire la spiegazione delle cause della «morte del progetto nazionale palestinese». È difatti assurdo pretendere la nascita di uno stato palestinese indipendente e poi chiedere che Israele lo tuteli e lo organizzi. Israele non poteva né doveva offrire una soluzione politica: doveva forse imporre militarmente il prevalere di un’autorità statuale unificata? Il ritiro da Gaza era la grande occasione per mostrare che poteva nascere finalmente un primo nucleo della nazione palestinese, capace di autogovernarsi e di compiere quegli stessi atti che avevano legittimato la formazione dell’entità nazionale israeliana e che (nel progetto di Sharon e di Kadimah) avrebbe aperto la strada ad ulteriori ritiri. Al contrario, si è affermata una strategia opposta e proiettata verso la guerra eterna.
Se errore di Israele vi è stato, è stato quello di trascurare il fatto che gli accordi seri, duraturi e costruttivi non si fanno con i gruppi terroristici bensì tra nazioni che, se pure non pienamente democratiche, quantomeno siano fondate sul principio che la gestione del potere appartiene esclusivamente allo stato. Israele ha dapprima esperito il tentativo di fare un trattato di pace con un’organizzazione terrorista. Si è visto a cosa abbia portato questo: alla seconda intifada degli attentati suicidi. Ha quindi provato la via opposta, e cioè di un disimpegno unilaterale, sperando che emergesse una leadership palestinese postarafattiana capace di porre le basi di un’entità statuale con cui trattare credibilmente il resto del contenzioso. Anche questo secondo tentativo è fallito ed ora siamo nel punto più basso della catastrofe. È comprensibile che l’ipocrisia dominante abbia reso, e renda, difficile dire che gli unici interlocutori possibili e credibili erano, e sono, le nazioni confinanti. Ma ormai siamo arrivati allo snodo finale.
In fondo, sembra che questa situazione Siniora la comprenda appieno, più o meno nel modo in cui la stiamo presentando noi. Difatti egli dice che «Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est dovrebbero essere collocate sotto l’amministrazione della Lega Araba, dopo una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. I negoziati di pace ripartirebbero tra gli israeliani e la Lega, sulla base dell’iniziativa saudita e del documento approvato a Beirut nel 2002. È ora che le nazioni arabe si prendano le loro responsabilità, siamo stanchi della retorica».
Mettiamo via gli ultimi orpelli retorici, come il richiamo all’iniziativa saudita: a questo punto, un negoziato serio deve partire da zero e senza condizioni preliminari. A parte questi orpelli, occorre dar atto a Siniora di aver detto l’indicibile, e cioè che occorre mettere da parte il tema della costituzione della nazione palestinese e andare a un negoziato diretto tra Israele e i paesi arabi. Sarebbe ancor più concreto dire che occorre andare a un accordo tra Israele e i paesi confinanti coinvolti direttamente nella vicenda, ovvero Giordania ed Egitto. E questo per realizzare la costituzione di entità territoriali associate a questi stati in forme federali e da dotare di autonomia amministrativa in un futuro pacificato, in modo da garantire finalmente alle popolazioni condizioni di vita degne, libere dal terrorismo e dalla violenza e proiettate verso un progresso economico e civile cui contribuirà la comunità internazionale. È inutile dire che, in un simile processo, Israele dovrà assumersi tutte le sue responsabilità e giocare un ruolo determinante. Non soltanto le nazioni arabe, ma tutta la comunità internazionale deve uscire dalla retorica e dall’ipocrisia. Ormai, nel mondo opaco del politicamente corretto in cui viviamo, l’indicibile è diventato l’unico modo di parlare della realtà e in modo realistico.
Giorgio Israel e Giuliano Ferrara
(da Il Foglio)
Ascoltando attentamente in giro si è sentita una sola voce che ha avuto il coraggio di dire apertamente qual sia la posta in gioco. Hanna Siniora, osservando di non aver «mai visto nulla di così grave come le battaglie di questi giorni», ha emesso una sentenza pesantissima: «È la morte del progetto nazionale palestinese».
Intorno a questa frase si sente soltanto retorica bellicista o pacifista, slogan vuoti e “langue de bois” della diplomazia più formale. È a dir poco stupefacente che proprio nel momento più tragico, più denso di prospettive conflittuali, più intriso di odî insolubili come pietre, si senta parlare addirittura con ottimismo di “nuove prospettive” di pace aperte da un piano saudita vecchio di decenni e intessuto di idee impossibili, di “due popoli, due stati” e di altre tragiche amenità, che forse vengono dette e ripetute da tutti per il semplice motivo che nessuno se la sente di dire l’indicibile, e cioè che tutte queste chiacchiere sono fuori dalla realtà e che l’obbiettivo “due popoli, due stati” è lontano come non mai, se mai ha avuto prospettive reali. Nessuno dice l’indicibile forse per non essere accusato di aver rotto la bolla di sapone dei buoni sentimenti e dei buoni propositi.
Ma i buoni sentimenti e i buoni propositi quando sono fuori della realtà lastricano la strada dell’inferno e, nella fattispecie, condannano i “due popoli” a percorrerla l’uno accanto all’altro; e, di certo, i palestinesi in modo non meno drammatico degli israeliani. E questa davvero non è retorica. Non intendiamo minimizzare affatto la condizione in cui vivono i palestinesi: morte, sangue, miseria e sofferenze senza fine e di cui non si vede la fine e che, anzi, si proiettano nella prospettiva di un conflitto che può cessare soltanto con la distruzione dell’ “entità sionista” e che può conoscere come tregua soltanto il conseguimento di obbiettivi assolutamente irrealistici, come quelli del piano saudita (ritorno al confini del 1967 e rientro di alcuni milioni di profughi sul suolo di Israele). Oltretutto, si tratta di un conflitto che si interseca con una guerra civile volta ad affermare l’egemonia di un gruppo sull’altro, in cui persino una parte di Hamas scavalca l’altra ed altri gruppi scavalcano Hamas, in una rincorsa senza fine verso l’estremismo.
Questo inferno politico-terroristico, che trascina centinaia di migliaia di persone in un baratro senza fondo e senza prospettive, è proprio quel che Siniora ha definito «la morte del progetto nazionale palestinese». E che questo sia l’esito è di evidenza solare, perché soltanto un pazzo o un ipocrita potrebbe sostenere che sia realista e praticabile una ripartizione territoriale in due stati, uno dei quali anziché essere governato da una classe dirigente capace di garantire l’ordine e la legalità all’interno e di trattare la pace all’esterno, resta in balìa di una sanguinosa guerra per bande la cui posta in gioco è il decidere quale sia il modo migliore di arrostire lo stato confinante. Ma se siamo a questo punto, occorre chiedersi come ci si sia arrivati e come se ne possa uscire. È una risposta dovuta a due popoli che soffrono e, in particolare, al popolo palestinese che è ostaggio e vittima di un mito assurdo e impossibile e le cui sofferenze possono cessare soltanto uscendo da questo mito.
Immaginiamo già le grida di scandalo: dunque Israele avrebbe diritto ad essere un’entità nazionale e i palestinesi non l’avrebbero? È quasi superfluo dire che non ci curiamo di chi strepita contro i diritti di Israele in nome di una critica del sionismo in quanto espressione di un’odiata ideologia “nazionalista”. È davvero una bella coerenza considerare nobile l’idea di identità nazionale quando si tratta dei palestinesi e spregevole nel caso del progetto sionista! Per parte nostra, non abbiamo nulla contro l’idea di nazione. Siamo anzi fermamente convinti che l’idea di democrazia, e in particolare di democrazia liberale, e la sua intrinseca propensione a diffondere i principi dei diritti della persona in una cornice universalistica, abbia preso corpo storicamente entro le realtà nazionali e che ancor oggi nessuno sia riuscito a definire chiaramente un contesto diverso entro cui far vivere e prosperare la democrazia. Può certamente darsi una realtà nazionale senza democrazia ma è difficilmente pensabile una democrazia al di fuori del supporto di un tessuto nazionale. Inoltre, il costituirsi di un’identità nazionale ha sempre implicato un esercizio della forza e anche una certa dose di violenza e non può quindi negarsi che la creazione dello stato d’Israele abbia determinato sofferenze e ingiustizie per la popolazione araba residente nei territori su cui lo stato d’Israele si è costituito. Del resto, non è abituale, in certi ambienti, giustificare l’esercizio della violenza da parte dei palestinesi con l’argomento che essa sarebbe l’espressione inevitabile di una lotta di liberazione nazionale?
Tuttavia, se non abbiamo nulla contro l’idea di nazione, la costituzione di una nazione non è un diritto astratto e non si realizza a tavolino, bensì trova la sua legittimità nella realtà storica concreta. Altrimenti, semplicemente non ha luogo ad essere. La formazione di un’identità nazionale ha come condizioni necessarie l’esistenza di un progetto condiviso di costruzione di una società, di ideali comuni, un tessuto culturale e linguistico, e inoltre la manifestazione più chiara – e assolutamente indispensabile – di tale comunione di intenti: ovvero che il potere di esercitare il diritto e la forza deve appartenere a un’entità statuale unica. Soltanto lo stato può avere un esercito, una polizia, una magistratura: l’inesistenza di questo requisito è la prova assoluta che non esistono le condizioni minime per un progetto di costruzione di una società nazionale. Israele è riuscito a soddisfare queste condizioni, ed è riuscito a realizzare l’ultimo e imprescindibile requisito disarmando i suoi gruppi terroristici; e lo ha fatto addirittura nel vivo dello scontro con le potenze arabe circostanti che volevano soffocarne la nascita. Se Israele non fosse riuscito a fare questo non sarebbe mai nato, o si sarebbe rapidamente dissolto. Non entreremo quindi nelle interminabili diatribe circa il carattere “artificiale” del recupero di un’identità nazionale ebraica dopo duemila anni di dispersione: i fatti storici hanno dato la risposta e hanno mostrato che tale identità aveva un senso, era perfettamente possibile ed aveva basi così solide da superare prove di incredibile durezza. Il discorso dell’“artificialità” potrebbe essere applicato alla formazione della nazione italiana e, ancor di più, di quella greca, in cui il recupero di una lingua greca unificata ha avuto caratteristiche non molto dissimili dall’istituzione dell’ebraico moderno; e un discorso analogo ai applica a molte altre situazioni. In tutti questi casi, la risposta è venuta dai processi storici reali che hanno visto il realizzarsi di quei requisiti indispensabili di cui si diceva sopra.
Spesso si ha l’impressione che si sia diffuso un modo irrazionale di leggere i fatti storici. Non mi riferisco soltanto alle tesi bizzarramente relativiste di chi sostiene che “noi occidentali” siamo prepotenti perché pretendiamo di imporre l’idea che lo stato debba essere l’unico detentore del potere mentre è “legittimo” che altri ritengano che un partito politico (per esempio, Hezbollah) possa possedere la propria forza militare. Penso alle tesi non nuove di chi ha giustificato il terrorismo palestinese sostenendo che anche il Risorgimento italiano ha avuto i suoi terroristi (Mazzini) e i suoi eversori dell’autorità costituita (Garibaldi). Ragionamento quanto mai bislacco perché, se anche concedessimo per esercizio dialettico – e non lo concediamo affatto – che Mazzini fosse un qualsiasi terrorista, la legittimità della nazione italiana si è fondata sull’affermazione, persino brutale ma sacrosanta e salutare, di un’autorità statuale unica detentrice del diritto di esercitare la forza (come apprese Garibaldi in Aspromonte). Il guaio è che, dimenticando o denigrando i processi storici che hanno condotto alla formazione delle realtà nazionali democratiche occidentali – e, quel che è peggio, perdendo così gli strumenti per capire per quali ragioni la democrazia vi è stata distrutta nel Novecento – si arriva a giustificare il terrorismo come via legittima per la formazione di una realtà nazionale, anziché come un’escrescenza infetta da eliminare al più presto, proprio nell’interesse di quella causa.
Ma andiamo indietro. Oggi abbiamo dimenticato che nessuno ha mai conosciuto, fino al 1964, la parola “palestinese”, peraltro derivata da una denominazione imposta dall’Impero romano a quelle terre dopo la dispersione della presenza ebraica. La storia non ha mai conosciuto né l’esistenza né il nome di un “popolo palestinese”: si ricordi che fino al 1967 si è sempre e soltanto parlato di conflitto “arabo-israeliano”. L’attribuzione di un’identità specifica alle popolazioni residenti nella regione è frutto della creazione dello stato di Israele, una sorta di feed-back di tale evento, peraltro largamente favorito dal rifiuto dei paesi arabi delle modalità di risoluzione del contenzioso proposte dalle risoluzioni Onu e dalla decisione con cui, nel 1964, una conferenza della Lega araba creò una “Organizzazione di Liberazione della Palestina” dapprima retta da un pallido fantoccio, Ahmed Shukeiri, e poi passata nelle mani del capo del movimento terroristico Fatah, Yasser Arafat. Creazione assolutamente artificiale, quindi. Ma – si dirà, sulla base del discorso precedente – anche le creazioni artificiali, persino le più artificiali, possono riuscire a farsi un posto nella storia e ad acquisire dei diritti. Guardiamo allora a cosa è avvenuto in quarant’anni di lotte per la costituzione di un’identità nazionale palestinese e se esso ha corrisposto alle condizioni minime che abbiamo sopra enunciato. La risposta è negli eventi di quest’ultimo anno e di questi ultimi giorni e nella pesante frase di Hanna Siniora: nulla. Non è stato costruito nulla altro che un progetto di distruzione di cui sono vittime non soltanto gli israeliani ma ancor più i palestinesi.
Le cause sono molteplici e sono da ricondursi principalmente alla responsabilità della grande maggioranza dei paesi arabi e islamici, oltre che a una diffusa ipocrisia dell’occidente. Il progetto della costituzione di un’entità nazionale palestinese era profondamente insincero: nella politica dei paesi arabi quel progetto era pensato non con l’intento di realizzarlo davvero, ma soltanto come un’arma di pressione contro Israele e un modo per scaricare esclusivamente su Israele il problema dei profughi. Nelle mani di Arafat poi, esso è divenuto un programma apocalittico di distruzione di Israele che non ha mai contemplato seriamente alcun accordo di pace, se non come tappa provvisoria verso l’esito finale della distruzione dell’ “entità sionista”, come ancor oggi recita la carta di Fatah. E, soprattutto, non ha mai contemplato alcuna idea di costruzione di un’entità nazionale proiettata verso la solidarietà sociale, la crescita economica, il benessere, una vita ordinata e regolata dalla legge, una struttura statuale fondata sul conferimento della forza a un potere legittimo, la soppressione delle bande armate. Taluno dirà, ovviamente, che Israele ha reso ciò impossibile. Ma si guardi ai fatti. Non appena si sono realizzati degli accordi di pace essi hanno prodotto l’effetto contrario a quel che ci si doveva attendere. Dopo Oslo vi fu un’esplosione drammatica del terrorismo. La formazione di un’Autorità Nazionale Palestinese non ha prodotto affatto la sparizione delle bande armate, al contrario. Il ritiro da Gaza non ha suscitato la minima spinta a uno sviluppo economico e sociale e a una riorganizzazione dei poteri in senso democratico, bensì la striscia è diventata un’enorme deposito di armi e una base per il lancio di missili verso Israele che hanno ridotto Sderot a una città fantasma. Gli ingentissimi aiuti economici dell’occidente – che, come è stato osservato, avrebbero consentito di costruire una villa con piscina per ogni palestinese – sono stati interamente utilizzati per procurarsi armi, finanziare il terrorismo e produrre una enorme e capillare propaganda antiebraica.
Qui arriviamo all’altro aspetto centrale che evidenzia il carattere distruttivo del “progetto nazionale” e l’irresponsabile follìa con cui è stato condotto dai gruppi dirigenti palestinesi. Nulla è stato fatto per creare una disposizione alla convivenza pacifica e tutto quel che era possibile fare è stato fatto per alimentare l’odio più sfrenato, la giustificazione del terrorismo più efferato, fino alla terrificante esaltazione dell’esplosione suicida persino presso i bambini di pochi anni. Tutto è stato fatto per denigrare la figura dell’ebreo, persino tentando di svellere i diritti di Israele con il ricorso al negazionismo della Shoah e diffondendone i veleni in un’Europa che già è abbastanza malata di per sé per non dover subire ulteriori contagi.
Abbiamo detto che un progetto nazionale contiene inevitabilmente una certa dose di violenza intrinseca, ma quando non contiene alcuna spinta positiva interna e volta a finalità condivise, bensì trova soltanto ragion d’essere e alimento nell’odio e nella volontà di distruzione dell’altro, allora esso è minato dalle fondamenta. Si parla tanto di negazione israeliana dei diritti dei palestinesi e non si dice una sola parola dell’oscena campagna cui stiamo assistendo in un crescendo che ha assunto toni parossistici da Camp David in poi – e che sta contaminando anche le coscienze in occidente – secondo cui una presenza ebraica in Palestina non ci sarebbe mai stata, secondo cui persino il Tempio di Gerusalemme non è mai esistito e il Muro del Pianto è un insieme di pietracce qualsiasi. Tutto è ed è sempre stato “palestinese”; anche – supremo obbrobrio – Gesù era “palestinese”… Persino i fatti storici più inconfutabili vengono sostituiti con una storia che, ancor più che artificiale, è assolutamente inesistente. Si parla dei diritti conculcati dei musulmani ad accedere a Gerusalemme, dimenticando che mai la città ha conosciuto una simile condizione di libertà di accesso ai luoghi santi quanto negli ultimi quarant’anni; prima dei quali agli ebrei era vietato l’accesso al Muro occidentale, l’antico quartiere ebraico era stato distrutto e le lapidi del millenario cimitero del Monte degli Ulivi erano usate come pisciatoi o per lastricare strade. Oggi, l’indicazione di quel che diventerebbe Gerusalemme vecchia sotto controllo palestinese è data dal comportamento dell’autorità islamica delle Moschee sul Monte del Tempio che, mentre protesta per ogni scavo israeliano condotto all’esterno del complesso, ha svuotato il sottosuolo dove sorgeva il Tempio per costruirvi una terza moschea, gettando nella spazzatura quintali di resti archeologici, compiendo così quella che, per un ebreo religioso, è un’autentica profanazione.
Si possono legittimamente criticare i governi israeliani, i loro errori, le loro sordità, ma qui siamo in presenza di una situazione inaccettabile. È impossibile non vedere che la formazione di uno stato su queste basi è soltanto la premessa per la creazione di un mattatoio.
Ha detto ancora Siniora: «Noi palestinesi non siamo abbastanza maturi per accettare di condividere l’autorità e per far funzionare una coalizione. Yasser Arafat ha dominato per quarant’anni conservando tutto il controllo nelle sue mani. Dopo di lui, Hamas ha governato per un anno come un partito unico. Non siamo capaci di capire che cosa significhi un’alleanza politica». Ed ha aggiunto che l’accordo di febbraio a La Mecca «era fragile fin dall’inizio. È stato come incollare due materiali opposti, senza cemento. Le violenze interne sono colpa di Hamas e del Fatah. Avrebbero dovuto porsi come priorità la fine dell’occupazione israeliana e poi discutere di chi comanda. Non hanno messo gli interessi della causa palestinese in cima ai loro obbiettivi. È una vergogna».
E qui già non ci siamo più. La vergogna non è che Hamas e Fatah non abbiano messo come priorità la fine dell’occupazione israeliana per poi discutere di chi comanda, Difatti, proprio la chiarificazione di chi comanda costituisce la condizione minima per pretendere la fine dell’occupazione israeliana. Sarebbe stato forse ragionevole far finta di mettersi d’accordo per ottenere i territori occupati e poi regolare i conti sparando? È davvero pensabile che possa nascere una nazione degna di questo nome su simili basi? Ed è pensabile che anche il governo israeliano più pacifista e aperto possa accettare la costituzione di uno stato strettamente adiacente, anzi avvinghiato al suo e per di più dotato di continuità territoriale, ridotto essenzialmente a una base di bande terroriste? Sarebbe quanto accettare signorilmente il suicidio, senza che questo serva a far avanzare di un centimetro il popolo palestinese verso una condizione migliore.
È indicativo e inquietante che anche una persona ragionevole come Siniora coltivi una simile confusione. Egli dice che «gli israeliani si sono ritirati da Gaza senza offrire una soluzione politica. Questo ha permesso a Hamas di proclamare che “la resistenza porta a risultati”». In tal modo, egli non fa altro che approfondire la spiegazione delle cause della «morte del progetto nazionale palestinese». È difatti assurdo pretendere la nascita di uno stato palestinese indipendente e poi chiedere che Israele lo tuteli e lo organizzi. Israele non poteva né doveva offrire una soluzione politica: doveva forse imporre militarmente il prevalere di un’autorità statuale unificata? Il ritiro da Gaza era la grande occasione per mostrare che poteva nascere finalmente un primo nucleo della nazione palestinese, capace di autogovernarsi e di compiere quegli stessi atti che avevano legittimato la formazione dell’entità nazionale israeliana e che (nel progetto di Sharon e di Kadimah) avrebbe aperto la strada ad ulteriori ritiri. Al contrario, si è affermata una strategia opposta e proiettata verso la guerra eterna.
Se errore di Israele vi è stato, è stato quello di trascurare il fatto che gli accordi seri, duraturi e costruttivi non si fanno con i gruppi terroristici bensì tra nazioni che, se pure non pienamente democratiche, quantomeno siano fondate sul principio che la gestione del potere appartiene esclusivamente allo stato. Israele ha dapprima esperito il tentativo di fare un trattato di pace con un’organizzazione terrorista. Si è visto a cosa abbia portato questo: alla seconda intifada degli attentati suicidi. Ha quindi provato la via opposta, e cioè di un disimpegno unilaterale, sperando che emergesse una leadership palestinese postarafattiana capace di porre le basi di un’entità statuale con cui trattare credibilmente il resto del contenzioso. Anche questo secondo tentativo è fallito ed ora siamo nel punto più basso della catastrofe. È comprensibile che l’ipocrisia dominante abbia reso, e renda, difficile dire che gli unici interlocutori possibili e credibili erano, e sono, le nazioni confinanti. Ma ormai siamo arrivati allo snodo finale.
In fondo, sembra che questa situazione Siniora la comprenda appieno, più o meno nel modo in cui la stiamo presentando noi. Difatti egli dice che «Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est dovrebbero essere collocate sotto l’amministrazione della Lega Araba, dopo una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. I negoziati di pace ripartirebbero tra gli israeliani e la Lega, sulla base dell’iniziativa saudita e del documento approvato a Beirut nel 2002. È ora che le nazioni arabe si prendano le loro responsabilità, siamo stanchi della retorica».
Mettiamo via gli ultimi orpelli retorici, come il richiamo all’iniziativa saudita: a questo punto, un negoziato serio deve partire da zero e senza condizioni preliminari. A parte questi orpelli, occorre dar atto a Siniora di aver detto l’indicibile, e cioè che occorre mettere da parte il tema della costituzione della nazione palestinese e andare a un negoziato diretto tra Israele e i paesi arabi. Sarebbe ancor più concreto dire che occorre andare a un accordo tra Israele e i paesi confinanti coinvolti direttamente nella vicenda, ovvero Giordania ed Egitto. E questo per realizzare la costituzione di entità territoriali associate a questi stati in forme federali e da dotare di autonomia amministrativa in un futuro pacificato, in modo da garantire finalmente alle popolazioni condizioni di vita degne, libere dal terrorismo e dalla violenza e proiettate verso un progresso economico e civile cui contribuirà la comunità internazionale. È inutile dire che, in un simile processo, Israele dovrà assumersi tutte le sue responsabilità e giocare un ruolo determinante. Non soltanto le nazioni arabe, ma tutta la comunità internazionale deve uscire dalla retorica e dall’ipocrisia. Ormai, nel mondo opaco del politicamente corretto in cui viviamo, l’indicibile è diventato l’unico modo di parlare della realtà e in modo realistico.
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