In questa rubrica mi è capitato di rivolgere alcune critiche pungenti al presidente statunitense Barack Obama. Dimostrerei di non aver appreso certe lezioni – ovvero come tenersi lontano dall’ideologia e da quegli atteggiamenti ben rappresentati dal precetto del dirigente comunista Giancarlo Pajetta, «tra la rivoluzione e la verità scelgo la rivoluzione» – se non considerassi doveroso lodare senza riserve il discorso che Obama ha tenuto davanti a tremila afro-americani nel centenario della Naacp, la famosa associazione per i diritti civili. Tanto non mi è piaciuto Obama quando si è sdilinquito nel più melenso politicamente corretto – sia nel discorso del Cairo che nei discorsi che ha tenuto in Europa – tanto ho trovato eccellente il modo con cui ha gettato a mare il politicamente corretto davanti alla Naacp. Lo avrà fatto per controbilanciare gli eccessi dei precedenti discorsi e magari calmare un certo malcontento che avevano destato, oppure lo avrà fatto perché si è sentito più libero di parlare senza peli sulla lingua davanti a degli afro-americani come lui. Poco importa. Quel che conta sono le parole che sono state pronunziate.
Obama ha detto con franchezza ai suoi confratelli che, certo, non tutti i problemi sono superati, che rimangono ancora parecchie barriere, che «il dolore della discriminazione è ancora tra noi», ma che non si può fare dei torti subiti una scusa per non puntare al meglio. «Il destino è nelle vostre mani» ha detto Obama, aggiungendo con una certa durezza che non gli piace la tendenza dei giovani neri ad affermarsi pensando soltanto a diventare rapper o cestisti di successo: «Voglio che aspirino a diventare scienziati, ingegneri, dottori, insegnanti, giudici della Corte suprema e presidenti degli Stati Uniti». Un atteggiamento e un discorso analogo Obama l’ha tenuto in Ghana, quando ha invitato gli africani a prendere il destino nelle loro mani, a non indugiare nell’autocommiserazione e a costruire la democrazia. Forse ha ragione chi dice che Obama si sente più a suo agio quando parla alla gente di radici africane e si potrebbe auspicare che simili discorsi e simili inviti a costruire il futuro anziché coccolarsi con l’autocommiserazione, egli li rivolga ad altre platee e in altri contesti: per esempio, al mondo islamico e al mondo arabo.
Tuttavia, qui ci preme sottolineare una frase di Obama che ci è piaciuta molto: «I genitori devono assumersi le loro responsabilità, mettendo da parte i videogiochi e mandando i figli a letto presto». Mi figuro i commenti che si sarebbero sentiti se una frase del genere l’avesse pronunziata George Bush… Immaginatevi che levata di scudi da parte dei pedagogisti democratici, di coloro secondo cui “proibire è controproducente”, dei teorici che hanno sentenziato che i videogiochi sono “la più grande rivoluzione epistemologica del Novecento”, dei critici sarcastici del “severismo” e di tutta la coorte di coloro che compensano la loro vecchiaia mentale adulando la gioventù. E invece, visto che quella frasaccia l’ha detta Barack Obama, sono rimasti tutti chiusi in un imbarazzato silenzio.
Da me e da mia moglie, che combattiamo una lotta quotidiana contro tutti e contro tutto per mandare i figli a letto presto, invece di lasciarli stazionare davanti alla televisione, che non lasciamo entrare in casa Playstation e arnesi analoghi, che infiliamo tra le loro mani non schermi ma libri di fiabe (magari quelle classiche politicamente scorrette), vada un sentito ringraziamento al presidente degli Stati Uniti.
(Tempi 28 luglio 2009)
«Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante Alighieri)
venerdì 31 luglio 2009
sabato 25 luglio 2009
Eppure il “Muro della vergogna” è l’unico che non è neanche razzista
Parliamo di muri nel mondo, con qualche dato cortesemente fornito dalla cortesia di Valérie Amram D’Onofrio. Non è superfluo dire che si tratta di dati incompleti. Cominciamo con il Marocco, attorno alla cui regione sahariana si estende per 2.720 chilometri una grande muraglia detta anche “cintura di sicurezza”. La sua funzione è quella di proteggere il paese dai tentativi di infiltrazione del Fronte Polisario. L’Arabia Saudita ha provveduto a sua volta: un muro la separa dallo Yemen, è di cemento armato ed è munito di sofisticati apparati di controllo elettronico, un’altra barriera ultramoderna lunga 900 chilometri è in costruzione sulla frontiera con l’Iraq. Un altro muro è in costruzione tra Oman e Emirati Arabi Uniti. Passando all’Asia si trovano muri spettacolari. L’India rivendica territori attualmente occupati dalla Cina o ceduti alla Cina dal Pakistan, il quale a sua volta rivendica territori occupati dall’India: i due paesi in perenne conflitto sono divisi da un muro di 3.300 chilometri. A sua volta, il Pakistan sta costruendo una barriera di 2.400 km per controllare la frontiera con l’Afghanistan. Anche i punti caldi della frontiera thailandese con la Malaysia sono separati da muri. Restando all’Asia è quasi superfluo ricordare che la Corea del Sud e la Corea del Nord sono divise da un muro. E potremmo continuare con la barriera edificata dall’Uzbekistan per separarsi dal Tagikistan.
Anche in Africa le barriere non mancano: per esempio, il Botswana ha costruito una barriera elettrificata per impedire l’ingresso di coloro che sfuggono ai massacri etnici nello Zimbabwe. Da tempo esiste una barriera edificata dalla Turchia per separare la parte turca di Cipro da quella greca. Se passiamo all’Occidente spicca la barriera elettrificata che la Spagna ha eretto a Ceuta e Melilla per impedire (anche a fucilate) l’ingresso degli immigrati marocchini o subsahariani. Non vanno poi dimenticati i muri che dividono protestanti e cattolici in Irlanda. E che dire del muro che divide gli Stati Uniti dal Messico per prevenire l’immigrazione clandestina?
Però nel mondo si parla con orrore e sdegno soltanto di un muro: quello che ha costruito lo Stato d’Israele per impedire agli attentatori suicidi di entrare nel suo territorio e compiere stragi tra i civili. Questo muro ha fatto precipitare il numero delle vittime del 98,5 per cento. Ma di questo non importa un accidente a nessuno. Tutti lo condannano come il “Muro della vergogna”. È l’emblema del razzismo, dell’apartheid, il simbolo dell’oppressione dei palestinesi, la macchia indelebile sulla democrazia israeliana.
Quale distorsione mentale può condurre a considerare normale che si costruiscano barriere elettrificate e muri per impedire l’immigrazione clandestina e considerare criminale la costruzione di un muro per difendere dei civili dal terrorismo? La risposta è: il razzismo antisemita. Perché solo chi nutre un simile sentimento può infischiarsi di un morto ebreo e versare lacrime sui disagi dei palestinesi ai checkpoint. E far finta di non sentire che solo pochi giorni fa alla televisione palestinese un rappresentante di Fatah ha dichiarato: «Non stiamo negoziando la pace, la pace non è stata mai un nostro obiettivo, tutte le forme di lotta armata sono sul tavolo, nessuna esclusa». Un estremista isolato? L’autorevole “moderato” Mohammed Dahlan ha ribadito: «Lo dirò per la millesima volta, a nome di Fatah: non chiediamo a Hamas di riconoscere Israele, anzi chiediamo che non lo faccia perché noi non lo faremo». Però il muro di Israele è l’unico che deve essere abbattuto.
(Tempi, 23 luglio 2009)
Ed ecco una putrida manifestazione di antisemitismo sul giornale spagnolo El País:
Anche in Africa le barriere non mancano: per esempio, il Botswana ha costruito una barriera elettrificata per impedire l’ingresso di coloro che sfuggono ai massacri etnici nello Zimbabwe. Da tempo esiste una barriera edificata dalla Turchia per separare la parte turca di Cipro da quella greca. Se passiamo all’Occidente spicca la barriera elettrificata che la Spagna ha eretto a Ceuta e Melilla per impedire (anche a fucilate) l’ingresso degli immigrati marocchini o subsahariani. Non vanno poi dimenticati i muri che dividono protestanti e cattolici in Irlanda. E che dire del muro che divide gli Stati Uniti dal Messico per prevenire l’immigrazione clandestina?
Però nel mondo si parla con orrore e sdegno soltanto di un muro: quello che ha costruito lo Stato d’Israele per impedire agli attentatori suicidi di entrare nel suo territorio e compiere stragi tra i civili. Questo muro ha fatto precipitare il numero delle vittime del 98,5 per cento. Ma di questo non importa un accidente a nessuno. Tutti lo condannano come il “Muro della vergogna”. È l’emblema del razzismo, dell’apartheid, il simbolo dell’oppressione dei palestinesi, la macchia indelebile sulla democrazia israeliana.
Quale distorsione mentale può condurre a considerare normale che si costruiscano barriere elettrificate e muri per impedire l’immigrazione clandestina e considerare criminale la costruzione di un muro per difendere dei civili dal terrorismo? La risposta è: il razzismo antisemita. Perché solo chi nutre un simile sentimento può infischiarsi di un morto ebreo e versare lacrime sui disagi dei palestinesi ai checkpoint. E far finta di non sentire che solo pochi giorni fa alla televisione palestinese un rappresentante di Fatah ha dichiarato: «Non stiamo negoziando la pace, la pace non è stata mai un nostro obiettivo, tutte le forme di lotta armata sono sul tavolo, nessuna esclusa». Un estremista isolato? L’autorevole “moderato” Mohammed Dahlan ha ribadito: «Lo dirò per la millesima volta, a nome di Fatah: non chiediamo a Hamas di riconoscere Israele, anzi chiediamo che non lo faccia perché noi non lo faremo». Però il muro di Israele è l’unico che deve essere abbattuto.
(Tempi, 23 luglio 2009)
Ed ecco una putrida manifestazione di antisemitismo sul giornale spagnolo El País:
mercoledì 22 luglio 2009
Novello Kant
Scrive un ammiratore di Odifreddi in un gruppo di suoi fans:
"E' mia opinione che Odifreddi mi sembra abbia una statura paragonabile a Kant se non fosse che mi lascia un po' perplesso in campo ontologico-metafisico".
"E' mia opinione che Odifreddi mi sembra abbia una statura paragonabile a Kant se non fosse che mi lascia un po' perplesso in campo ontologico-metafisico".
domenica 19 luglio 2009
Ancora sull'aumento delle bocciature
In previsione delle prossime Olimpiadi il Comitato Olimpico annuncia solennemente che, quando si faranno le eliminatorie, quasi nessuno verrà escluso. Se le cose andassero diversamente il Comitato si dimetterà assieme a tutti gli organismi sportivi internazionali, perché l’eliminazione di un numero di atleti maggiore di qualche unità percentuale significherebbe il fallimento delle istituzioni preposte alla cultura sportiva e motoria. In verità – aggiunge il Comitato – un simile risultato deve estendersi a tutti gli esseri umani, altrimenti sarebbe la vittoria della cultura della discriminazione. Infine, è quasi superfluo dire che tutti i concorrenti dovranno conseguire risultati di poco diversi: insomma tutti i centometristi dovranno arrivare, diciamo, entro gli otto e i dieci secondi. Diversamente, anche questo sarebbe un segno di fallimento. È anche auspicabile che questa visione si estenda ad ogni ambito. Per esempio, i campionati del mondo di calcio dovrebbero concludersi con un vincitore che prevalga di poco e le eliminazioni ridursi a casi clamorosi di acclarata incapacità.
Immaginate che noia mortale sarebbero competizioni sportive del genere. Ma questa non è del tutto una fantasia. Difatti, pare che vi sia un caso (uno soltanto) in cui è consentito un modo di ragionare del genere: quello della scuola. Anche i fautori del più sfrenato spirito concorrenziale, secondo cui l’efficienza si raggiunge mettendo in competizione persone e strutture affinché prevalga il migliore, quando si parla di scuola ragionano sulla base di un’immagine fuori del mondo, in cui tutti debbono diventare capaci allo stesso livello. Per loro se i bocciati superano una frazione minima degli studenti e se i voti massimi non si estendono alla quasi totalità, è la scuola che ha fallito. Insomma, quasi nessuno deve essere eliminato. Passi pure che coloro che percorrono i 100 metri piani in 10 secondi siano una minoranza (non troppo esigua, per carità); il resto dell’umanità scolare deve percorrerli in 11 o 12 secondi. E non vale dire che il nostro esempio non funziona perché la scuola non è un sistema agonistico elitario. Ad esempio, i corsi di atletica della Federazione Italiana di Atletica Leggera sono una efficace scuola di educazione motoria che coinvolge migliaia di ragazzi perché pongono al centro il desiderio di essere il migliore, di avere successo, di salire sul podio e conquistare una medaglia o un diploma. Dovremmo forse credere che soltanto l’educazione intellettuale sia una sorta di genere di sussistenza dozzinale da distribuire e assimilare senza entusiasmo e voglia di primeggiare?
Quando ancora le riforme “moderne” dei sistemi scolastici erano agli inizi, Hannah Arendt già denunciava la tendenza a «mettere del tutto da parte ogni regola di sano giudizio umano, per amore di certe teorie, buone o cattive che fossero», il che è quanto dire la perversione dell’ideologia. Da quel momento il vizio di mettere da parte il buon senso quando si parla di istruzione ci perseguita.
Che cosa ci hanno offerto, in fin dei conti, i risultati degli esami di maturità? Un aumento modestissimo dei respinti dal 2,5 al 3,1 %, e una diminuzione dei voti dei promossi. Quest’ultimo è forse il dato più significativo. Ma – pensate un po’ – si tratta del fatto che il 0,9% dei promossi con 100 si è dimezzato ed è diminuito il numero di quelli che ha conseguito un voto tra 91 e 99. Si direbbe un puro e semplice ritorno alla realtà, ma per qualcuno questo è il sintomo drammatico di un insuccesso della scuola. Certi giornali intervistano solo i genitori che lamentano un esame molto più severo che non “ai tempi loro” (roba da sbellicarsi dalle risate) e non quei genitori che sono stufi di pagelle che attribuiscono un nove in matematica a scolari che credono che 6 più 2 fa 62.
In verità questa inversione di tendenza nelle valutazioni è positiva perché indica che la scuola, per quanto profondamente malata, non è defunta e reagisce, tentando di recuperare quei livelli minimi di dignità che danno senso all’istituzione. Poi, certo, resta tutto da ricostruire. Ma alla larga da chi adotta il solito procedimento di cambiare discorso per dire che occorre “ben altro”: non maggiore rigore ma controllo e valutazione dei docenti. Ben vengano – presto e bene – controllo e valutazione, ma non per contrabbandare l’idea che l’unico dovere in campo sia quello che la scuola faccia conseguire a tutti i costi allo studente quella cosa ridicolmente chiamata “successo educativo”; e che gli unici chiamati a rendere conto del mancato “successo educativo” siano gli insegnanti.
In verità, in questi primi sussulti di ripresa di serietà scolastica i veri bocciati non sono gli studenti ma quei riformatori, didatti e pedagoghi che hanno ridotto la scuola in queste condizioni e che ora si stracciano le vesti vedendo messe in discussione le loro fallimentari ricette. La loro bocciatura è tutta scritta nei commenti che sono comparsi in questi giorni, vera e propria raccolta di assurdità logiche e fattuali spesso esposte in pessimo italiano, da bocciatura, per l’appunto. Abbiamo letto commenti di “esperti scolastici” che lanciano il solito anatema contro la scuola “gentiliana” – un bersaglio facile perché non esiste più – che si nutrono della contrapposizione tra “vecchio” e “nuovo”, abusano dei termini “altro”, “diverso” – sempre buoni per atteggiarsi a “giovani” e “moderni” – e di un gergo pedagogico di infima qualità; ma non saprebbero dire una parola su come proporre un programma decente di matematica o di storia. Parlano di nuove generazioni che seguirebbero procedimenti mentali associativi anziché deduttivi, il che, se avesse un senso, somiglia a un insulto. Ammettono che i giovani hanno minori capacità di concentrazione, e questa caratteristica, che dovrebbe essere l’espressione di un vero insuccesso educativo, la esaltano come una qualità “diversa” e persino superiore… Poi propongono la solita tiritera sul computer che manca sui nostri banchi ed non mancherebbe all’estero – magari in scuole peggiori della nostra – in un mondo in cui tutti scrivono e pensano soltanto digitando. Chiunque abbia avuto la ventura di scrivere qualcosa di minimamente strutturato – non dico un libro, ma una composizione di minima organicità o anche un tentativo di risoluzione di un problema matematico – per quanto abituato a digitare da mane a sera non ha mai potuto evitare di tracciare uno schema su un foglio con quella rapidità e duttilità che soltanto la penna e la carta offrono. Ma i “maestri” e i “riformatori” della scuola italiana invitano a pensare digitando. Da loro non abbiamo sentito un solo commento sensato sul contenuto dei temi di maturità di quest’anno, mentre sono stati alcuni non addetti ai lavori – soprattutto giornalisti – a rilevare in modo perspicuo che essi contenevano novità di tutto rispetto. Insomma, il vero fatto nuovo di quest’anno – sempre più chiaro a un numero crescente di professori, di famiglie e anche di studenti – è che i veri bocciati sono coloro che si stracciano le vesti per l’aumento delle bocciature e che sono gli autori della catastrofe cui si tenta tanto faticosamente di porre riparo.
(Il Messaggero, 18 luglio 2009)
Un certo Signor Maurizio Tiriticco che mi si dice abbia avuto qualche ruolo come funzionario in ambito scolastico ha polemizzato su Il Messaggero.it con il mio articolo dal titolo "Il vizio di mettere da parte il buon senso" pubblicato su Il Messaggero del 18 luglio. Non entro nel merito delle sue critiche (http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=66477&sez=HOME_MAIL) che sono totalmente fuori bersaglio poiché io non sono ovviamente - come egli invece tenta di dipingermi - un fautore di una scuola intesa come «arengo in cui si impara fin da piccoli a fregare i più deboli». Anche un cultore di quelle attività motorie, sportive e olimpioniche cui accennavo nel mio articolo non potrebbe che sentirsi offeso dal sentirle considerare come un arengo del genere. Oltretutto Tiriticco non ha compreso che l'inizio del mio articolo era parodistico poiché la decisione del Comitato Olimpico contro cui io polemizzerei (?!) non esiste...
Ma quel che mi preme sottolineare è il modo con cui Tiriticco prosegue:
«... che cosa ne faremmo dei peggiori? Questo interrogativo il didatta pedagogo se lo pone, anche perché è un “animale” politico e sa che una società non è giusta e non è democratica se incentiva i “migliori” a danno dei “peggiori”! Qualcuno nel secolo scorso pensò bene che milioni di peggiori dovessero finire nelle camere a gas per permettere ai migliori di godere appieno del loro privilegiato status razziale! Dopo quella terribile esperienza altri invece, nell’immediato dopoguerra, ebbero il coraggio di sognare una Società aperta ed inclusiva, che si assumesse il carico di educare tutti e a tutto campo, e ciò sulla scorta di impegni politici forti, sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dalla nostra stessa Carta costituzionale, ambedue del 1948».
Qualsiasi persona ragionevole non può che trovare vergognoso tirar fuori in questo contesto le camere a gas. Sarebbe fuori luogo e parimenti vergognoso rappresentare come un nazista anche un fautore dell'"arengo". Inoltre questo abuso strumentale del tema dello sterminio degli ebrei appartiene a una prassi di infimo livello ormai nota e deprecata dalle persone perbene.
Quando poi si usa un'argomentazione del genere nei confronti di una persona dal cognome "Israel", ovvero da una persona che ha avuto buona parte della famiglia sterminata nelle camere a gas, si superano i confini della decenza (oltre che entrare nel terreno della diffamazione). È il classico tema dei "perseguitati" che sono divenuti "persecutori": "Israel" che diventa un ideologo di stampo nazista ed è fuori dai principi dei Diritti dell'uomo e persino della Carta Costituzionale. Qualsiasi persona in buona fede sa benissimo con quali parole definire un comportamento del genere.
Se nel passato la scuola ha goduto del contributo di persone di questa levatura non c'è davvero da stupirsi che sia ridotta in questo stato.
Giorgio Israel
Immaginate che noia mortale sarebbero competizioni sportive del genere. Ma questa non è del tutto una fantasia. Difatti, pare che vi sia un caso (uno soltanto) in cui è consentito un modo di ragionare del genere: quello della scuola. Anche i fautori del più sfrenato spirito concorrenziale, secondo cui l’efficienza si raggiunge mettendo in competizione persone e strutture affinché prevalga il migliore, quando si parla di scuola ragionano sulla base di un’immagine fuori del mondo, in cui tutti debbono diventare capaci allo stesso livello. Per loro se i bocciati superano una frazione minima degli studenti e se i voti massimi non si estendono alla quasi totalità, è la scuola che ha fallito. Insomma, quasi nessuno deve essere eliminato. Passi pure che coloro che percorrono i 100 metri piani in 10 secondi siano una minoranza (non troppo esigua, per carità); il resto dell’umanità scolare deve percorrerli in 11 o 12 secondi. E non vale dire che il nostro esempio non funziona perché la scuola non è un sistema agonistico elitario. Ad esempio, i corsi di atletica della Federazione Italiana di Atletica Leggera sono una efficace scuola di educazione motoria che coinvolge migliaia di ragazzi perché pongono al centro il desiderio di essere il migliore, di avere successo, di salire sul podio e conquistare una medaglia o un diploma. Dovremmo forse credere che soltanto l’educazione intellettuale sia una sorta di genere di sussistenza dozzinale da distribuire e assimilare senza entusiasmo e voglia di primeggiare?
Quando ancora le riforme “moderne” dei sistemi scolastici erano agli inizi, Hannah Arendt già denunciava la tendenza a «mettere del tutto da parte ogni regola di sano giudizio umano, per amore di certe teorie, buone o cattive che fossero», il che è quanto dire la perversione dell’ideologia. Da quel momento il vizio di mettere da parte il buon senso quando si parla di istruzione ci perseguita.
Che cosa ci hanno offerto, in fin dei conti, i risultati degli esami di maturità? Un aumento modestissimo dei respinti dal 2,5 al 3,1 %, e una diminuzione dei voti dei promossi. Quest’ultimo è forse il dato più significativo. Ma – pensate un po’ – si tratta del fatto che il 0,9% dei promossi con 100 si è dimezzato ed è diminuito il numero di quelli che ha conseguito un voto tra 91 e 99. Si direbbe un puro e semplice ritorno alla realtà, ma per qualcuno questo è il sintomo drammatico di un insuccesso della scuola. Certi giornali intervistano solo i genitori che lamentano un esame molto più severo che non “ai tempi loro” (roba da sbellicarsi dalle risate) e non quei genitori che sono stufi di pagelle che attribuiscono un nove in matematica a scolari che credono che 6 più 2 fa 62.
In verità questa inversione di tendenza nelle valutazioni è positiva perché indica che la scuola, per quanto profondamente malata, non è defunta e reagisce, tentando di recuperare quei livelli minimi di dignità che danno senso all’istituzione. Poi, certo, resta tutto da ricostruire. Ma alla larga da chi adotta il solito procedimento di cambiare discorso per dire che occorre “ben altro”: non maggiore rigore ma controllo e valutazione dei docenti. Ben vengano – presto e bene – controllo e valutazione, ma non per contrabbandare l’idea che l’unico dovere in campo sia quello che la scuola faccia conseguire a tutti i costi allo studente quella cosa ridicolmente chiamata “successo educativo”; e che gli unici chiamati a rendere conto del mancato “successo educativo” siano gli insegnanti.
In verità, in questi primi sussulti di ripresa di serietà scolastica i veri bocciati non sono gli studenti ma quei riformatori, didatti e pedagoghi che hanno ridotto la scuola in queste condizioni e che ora si stracciano le vesti vedendo messe in discussione le loro fallimentari ricette. La loro bocciatura è tutta scritta nei commenti che sono comparsi in questi giorni, vera e propria raccolta di assurdità logiche e fattuali spesso esposte in pessimo italiano, da bocciatura, per l’appunto. Abbiamo letto commenti di “esperti scolastici” che lanciano il solito anatema contro la scuola “gentiliana” – un bersaglio facile perché non esiste più – che si nutrono della contrapposizione tra “vecchio” e “nuovo”, abusano dei termini “altro”, “diverso” – sempre buoni per atteggiarsi a “giovani” e “moderni” – e di un gergo pedagogico di infima qualità; ma non saprebbero dire una parola su come proporre un programma decente di matematica o di storia. Parlano di nuove generazioni che seguirebbero procedimenti mentali associativi anziché deduttivi, il che, se avesse un senso, somiglia a un insulto. Ammettono che i giovani hanno minori capacità di concentrazione, e questa caratteristica, che dovrebbe essere l’espressione di un vero insuccesso educativo, la esaltano come una qualità “diversa” e persino superiore… Poi propongono la solita tiritera sul computer che manca sui nostri banchi ed non mancherebbe all’estero – magari in scuole peggiori della nostra – in un mondo in cui tutti scrivono e pensano soltanto digitando. Chiunque abbia avuto la ventura di scrivere qualcosa di minimamente strutturato – non dico un libro, ma una composizione di minima organicità o anche un tentativo di risoluzione di un problema matematico – per quanto abituato a digitare da mane a sera non ha mai potuto evitare di tracciare uno schema su un foglio con quella rapidità e duttilità che soltanto la penna e la carta offrono. Ma i “maestri” e i “riformatori” della scuola italiana invitano a pensare digitando. Da loro non abbiamo sentito un solo commento sensato sul contenuto dei temi di maturità di quest’anno, mentre sono stati alcuni non addetti ai lavori – soprattutto giornalisti – a rilevare in modo perspicuo che essi contenevano novità di tutto rispetto. Insomma, il vero fatto nuovo di quest’anno – sempre più chiaro a un numero crescente di professori, di famiglie e anche di studenti – è che i veri bocciati sono coloro che si stracciano le vesti per l’aumento delle bocciature e che sono gli autori della catastrofe cui si tenta tanto faticosamente di porre riparo.
(Il Messaggero, 18 luglio 2009)
Un certo Signor Maurizio Tiriticco che mi si dice abbia avuto qualche ruolo come funzionario in ambito scolastico ha polemizzato su Il Messaggero.it con il mio articolo dal titolo "Il vizio di mettere da parte il buon senso" pubblicato su Il Messaggero del 18 luglio. Non entro nel merito delle sue critiche (http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=66477&sez=HOME_MAIL) che sono totalmente fuori bersaglio poiché io non sono ovviamente - come egli invece tenta di dipingermi - un fautore di una scuola intesa come «arengo in cui si impara fin da piccoli a fregare i più deboli». Anche un cultore di quelle attività motorie, sportive e olimpioniche cui accennavo nel mio articolo non potrebbe che sentirsi offeso dal sentirle considerare come un arengo del genere. Oltretutto Tiriticco non ha compreso che l'inizio del mio articolo era parodistico poiché la decisione del Comitato Olimpico contro cui io polemizzerei (?!) non esiste...
Ma quel che mi preme sottolineare è il modo con cui Tiriticco prosegue:
«... che cosa ne faremmo dei peggiori? Questo interrogativo il didatta pedagogo se lo pone, anche perché è un “animale” politico e sa che una società non è giusta e non è democratica se incentiva i “migliori” a danno dei “peggiori”! Qualcuno nel secolo scorso pensò bene che milioni di peggiori dovessero finire nelle camere a gas per permettere ai migliori di godere appieno del loro privilegiato status razziale! Dopo quella terribile esperienza altri invece, nell’immediato dopoguerra, ebbero il coraggio di sognare una Società aperta ed inclusiva, che si assumesse il carico di educare tutti e a tutto campo, e ciò sulla scorta di impegni politici forti, sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dalla nostra stessa Carta costituzionale, ambedue del 1948».
Qualsiasi persona ragionevole non può che trovare vergognoso tirar fuori in questo contesto le camere a gas. Sarebbe fuori luogo e parimenti vergognoso rappresentare come un nazista anche un fautore dell'"arengo". Inoltre questo abuso strumentale del tema dello sterminio degli ebrei appartiene a una prassi di infimo livello ormai nota e deprecata dalle persone perbene.
Quando poi si usa un'argomentazione del genere nei confronti di una persona dal cognome "Israel", ovvero da una persona che ha avuto buona parte della famiglia sterminata nelle camere a gas, si superano i confini della decenza (oltre che entrare nel terreno della diffamazione). È il classico tema dei "perseguitati" che sono divenuti "persecutori": "Israel" che diventa un ideologo di stampo nazista ed è fuori dai principi dei Diritti dell'uomo e persino della Carta Costituzionale. Qualsiasi persona in buona fede sa benissimo con quali parole definire un comportamento del genere.
Se nel passato la scuola ha goduto del contributo di persone di questa levatura non c'è davvero da stupirsi che sia ridotta in questo stato.
Giorgio Israel
sabato 18 luglio 2009
La Utet informa che darà un taglio drastico ai classici. «Si tende a una preparazione a parti di libro». C’è da rabbrividire
La stampa informa che la prestigiosa casa editrice Utet darà un taglio drastico ai classici: alcune serie continueranno, sia pure puntando su edizioni di pregio dedicate a un pubblico di elite e altre serie saranno riprogrammate con drastiche riduzioni. Sia chiaro: non c’è motivo di polemizzare con l’amministratore delegato della Utet. Molto giustamente egli osserva che un editore «non fa il mercato» e deve fare i conti con le richieste del pubblico e pertanto adeguare le collane al mercato e «programmarle in base alle nuove richieste». È proprio il tema delle “richieste” che ci interessa. L’ad della Utet Gian Luca Pulvirenti informa che collane di classici che un tempo erano ricercate non sono più sostenibili in termini di costi «anche per i nuovi percorsi universitari. Ormai si tende a una preparazione a moduli, a parti di libro».
Insomma, addio alla lettura organica di un testo. Oggi si tende a leggere, in conformità ai nuovi percorsi universitari, a “moduli” e a pezzi di libro. C’è da rabbrividire. Ecco servito chi difende la nuova struttura universitaria “leggera” e “moderna”, basata su corsi corti o minicorsi: gli effetti di quella scelta si stanno facendo sentire sul modo di vedere la cultura. Non c’era da attendersi nulla di diverso da una struttura dell’apprendimento basata su corsi sempre più brevi, fino a 30, 20 e persino 10 ore, in cui ogni “credito” si traduce numericamente in un certo numero di pagine di testi e di ore di studio a casa. Il sistema consistente nel pesare ogni corso a “crediti” è stato sviluppato nelle forme della più esasperata autonomia, giostrando con le combinazioni numeriche più fantasiose – corsi da 9, 8, 6, 4, 3 crediti – fino a costringere lo studente che si trova a mancare di uno o due crediti a completare il suo piano chiedendo miniesami consistente nello studio di un “modulo” di una ventina di pagine. Tutti sono consapevoli dei bizantinismi deliranti e formali introdotti da questo sistema, tanto che è stato imposto un riassetto che riporti a corsi più consistenti e lunghi. Ma ormai la perversione “creditizia” ha contagiato la comunità universitaria a un punto tale che anche questa razionalizzazione procede attraverso mille aggiustamenti ed escogitazioni che non riescono a domare la tendenza allo spezzettamento in entità modulari.
C’è chi dirà che questo andazzo colpirà soltanto i classici più elitari ed aristocratici del settore umanistico, quelli che interessano soltanto gli specialisti di altissimo livello e non le scienze. Pia illusione. Informa ancora l’ad della Utet che i settori in drastica contrazione di domanda sono: religione, politica, scienza, sociologia, storiografia, ecc. Che questo fosse l’andazzo in storiografia era noto: si studia un pezzo di storia moderna ignorando anche l’esistenza dell’Impero romano. Ma ora dobbiamo constatare che anche la scienza finisce sotto la mannaia. In fin dei conti non sorprende, visto che persino nei corsi di laurea di matematica si tagliano le dimostrazioni perché non c’è tempo per farle (il che è come addestrare un falegname senza che tocchi mai un pezzo di legno). Tutti sanno che un buon ricercatore scientifico è una persona che ha dietro di sé il possesso e il continuo riferimento ad alcuni grandi testi e la conoscenza della letteratura di punta. Ma se, lasciando pur perdere il “decrepito” Galileo, costui non avrà nel suo bagaglio la conoscenza di alcuni grandi manuali del Novecento, come potrà elevarsi al di sopra del livello di un tecnicuccio da quattro soldi? Ci sono modi più delicati ma non meno efficaci per dar fuoco alla cultura di quello brutale di Farenheit 451.
(Tempi, 16 luglio 2009)
Insomma, addio alla lettura organica di un testo. Oggi si tende a leggere, in conformità ai nuovi percorsi universitari, a “moduli” e a pezzi di libro. C’è da rabbrividire. Ecco servito chi difende la nuova struttura universitaria “leggera” e “moderna”, basata su corsi corti o minicorsi: gli effetti di quella scelta si stanno facendo sentire sul modo di vedere la cultura. Non c’era da attendersi nulla di diverso da una struttura dell’apprendimento basata su corsi sempre più brevi, fino a 30, 20 e persino 10 ore, in cui ogni “credito” si traduce numericamente in un certo numero di pagine di testi e di ore di studio a casa. Il sistema consistente nel pesare ogni corso a “crediti” è stato sviluppato nelle forme della più esasperata autonomia, giostrando con le combinazioni numeriche più fantasiose – corsi da 9, 8, 6, 4, 3 crediti – fino a costringere lo studente che si trova a mancare di uno o due crediti a completare il suo piano chiedendo miniesami consistente nello studio di un “modulo” di una ventina di pagine. Tutti sono consapevoli dei bizantinismi deliranti e formali introdotti da questo sistema, tanto che è stato imposto un riassetto che riporti a corsi più consistenti e lunghi. Ma ormai la perversione “creditizia” ha contagiato la comunità universitaria a un punto tale che anche questa razionalizzazione procede attraverso mille aggiustamenti ed escogitazioni che non riescono a domare la tendenza allo spezzettamento in entità modulari.
C’è chi dirà che questo andazzo colpirà soltanto i classici più elitari ed aristocratici del settore umanistico, quelli che interessano soltanto gli specialisti di altissimo livello e non le scienze. Pia illusione. Informa ancora l’ad della Utet che i settori in drastica contrazione di domanda sono: religione, politica, scienza, sociologia, storiografia, ecc. Che questo fosse l’andazzo in storiografia era noto: si studia un pezzo di storia moderna ignorando anche l’esistenza dell’Impero romano. Ma ora dobbiamo constatare che anche la scienza finisce sotto la mannaia. In fin dei conti non sorprende, visto che persino nei corsi di laurea di matematica si tagliano le dimostrazioni perché non c’è tempo per farle (il che è come addestrare un falegname senza che tocchi mai un pezzo di legno). Tutti sanno che un buon ricercatore scientifico è una persona che ha dietro di sé il possesso e il continuo riferimento ad alcuni grandi testi e la conoscenza della letteratura di punta. Ma se, lasciando pur perdere il “decrepito” Galileo, costui non avrà nel suo bagaglio la conoscenza di alcuni grandi manuali del Novecento, come potrà elevarsi al di sopra del livello di un tecnicuccio da quattro soldi? Ci sono modi più delicati ma non meno efficaci per dar fuoco alla cultura di quello brutale di Farenheit 451.
(Tempi, 16 luglio 2009)
mercoledì 15 luglio 2009
Ipocrisie sull'università
Tra le tante ipocrisie che aleggiano sulla questione universitaria ve n’è una tanto più grande in quanto se ne parla poco. Si tratta del fatto che nell’arco di un decennio metà del corpo docente andrà in pensione e avverrà un colossale ricambio generazionale, tanto più radicale in quanto, per i continui “stop and go” nel reclutamento, mancheranno all’appello intere fasce di età. È ipocrita strepitare contro i “baronati”, additati come resistenza corporativa alle riforme, visto che saranno smantellati: la responsabilità del futuro dell’università sta tutta nelle mani della politica e dei giovani docenti, per lo più dei docenti da reclutare.
Come al solito, le generalizzazioni sono sballate e l’attribuzione di tutte le colpe ai vecchi “baroni” è una grande e ipocrita bugia. In verità, il sistema di reclutamento per cooptazione vigente nelle università fino agli anni settanta era di gran lunga più rispettoso del merito di tutti i sistemi successivi. Il trentennio passato ha visto un diluvio di assunzioni ope legis esplicite o mascherate da concorsi, il tutto assortito da “riforme” che sotto le nobili etichette dell’“autonomia” e della “modernizzazione” hanno frantumato la didattica in minicorsi e corsi molecolari, in dispregio di ogni seria visione culturale; costringendo gli studenti (che se ne lamentano) a rincorrere miriadi di esamini, senza una pausa per riflettere e assimilare; trasformando i docenti in burocrati dediti non più a pensare ai contenuti dei loro corsi, bensì a discettare sulla ripartizione dei crediti attraverso conteggi da far impallidire un cabalista. Più che la categoria indifferenziata dei “baroni”, i docenti da criticare sono quelli che si sono adeguati a questi autentici misfatti commessi da politici irresponsabili e da sindacati avidi di potere. Spesso è stata subordinazione politica nei confronti di una sinistra che non sapendo cosa fare dell’università pensò che l’unica soluzione fosse fare a pezzi tutto e poi ricominciare daccapo (fu detto esplicitamente!), anche se non riuscì a fare nessuna delle due cose, bensì soltanto a sgretolare il sistema. Le acquiescenze e le complicità sono state gravi, ma offrire una falsa autonomia – che non concedeva nulla sul piano economico e tutto circa la possibilità di inventarsi i corsi di laurea più strampalati – era un invito esplicito al degrado.
Il problema che abbiamo di fronte è l’eredità di un trentennio in cui si è disperso il senso del ruolo dell’istituzione. L’università andrà in mano a chi non ne ha conosciuto un’altra, bensì soltanto una in cui è considerato normale che un credito valga per legge un certo numero fissato di ore di studio indipendentemente dal fatto che lo studente sia Einstein o l’ultimo degli asini, in nome del più stolido egualitarismo demagogico contrabbandato sotto l’etichetta dell’oggettività nell’organizzazione della didattica. Abbiamo educato intere generazioni a considerare normale che una quota esorbitante del proprio tempo di lavoro sia dedicata a mansioni organizzative e burocratiche inutili e ridicole. Grande è la vitalità della mente umana e la capacità della cultura di rigenerarsi. Ma qui ci vuole una dose di ottimismo da cavalli.
Pertanto una delle più grandi ipocrisie è che non si parli di queste cose, che non si parli mai di contenuti bensì soltanto di marchingegni di ingegneria istituzionale. Ha ragione Giavazzi a battere sul tasto dell’autonomia finanziaria e della necessità di permettere alle università di aumentare le tasse creando borse di studio per i meritevoli. Ma cascano le braccia quando si sentono riproporre altre litanie, come quella di rendere le università centri sempre più dipendenti dal territorio. Ma davvero, nell’epoca della globalizzazione, può credersi che una grande università sia tale perché collega ricerca e insegnamento alle forme produttive del territorio – piastrelle, sedie – e non perché è un grande centro di formazione e ricerca internazionale? Davvero qualcuno crede che la qualità di Harvard dipenda dal rapporto con il tessuto produttivo bostoniano? E cascano parimenti le braccia quando si sente dire che il toccasana è mettere in mano le scelte della ricerca e dell’insegnamento a un “management” puramente extrauniversitario – sul modello fallimentare della riforma sanitaria. Chi pensa così o non sa cosa sia un’università propriamente detta, oppure, avendo perso ogni speranza circa il futuro della nostra, mira a farne un ufficio studi confindustriale. In entrambi i casi avremmo messo il coperchio sulla pentola fabbricata da un trentennio di scelte sbagliate.
Auguriamo al ministro Gelmini di riuscire a infondere nell’università un impulso di riscatto morale e culturale, similmente a quanto sembra accadere nella scuola, da alcuni primi sintomi. Ma certo la partita è dura, soprattutto se ci si mette di mezzo l’ipocrisia e la pervicace volontà di non apprendere le lezioni.
(Libero, 15 luglio 2009)
Come al solito, le generalizzazioni sono sballate e l’attribuzione di tutte le colpe ai vecchi “baroni” è una grande e ipocrita bugia. In verità, il sistema di reclutamento per cooptazione vigente nelle università fino agli anni settanta era di gran lunga più rispettoso del merito di tutti i sistemi successivi. Il trentennio passato ha visto un diluvio di assunzioni ope legis esplicite o mascherate da concorsi, il tutto assortito da “riforme” che sotto le nobili etichette dell’“autonomia” e della “modernizzazione” hanno frantumato la didattica in minicorsi e corsi molecolari, in dispregio di ogni seria visione culturale; costringendo gli studenti (che se ne lamentano) a rincorrere miriadi di esamini, senza una pausa per riflettere e assimilare; trasformando i docenti in burocrati dediti non più a pensare ai contenuti dei loro corsi, bensì a discettare sulla ripartizione dei crediti attraverso conteggi da far impallidire un cabalista. Più che la categoria indifferenziata dei “baroni”, i docenti da criticare sono quelli che si sono adeguati a questi autentici misfatti commessi da politici irresponsabili e da sindacati avidi di potere. Spesso è stata subordinazione politica nei confronti di una sinistra che non sapendo cosa fare dell’università pensò che l’unica soluzione fosse fare a pezzi tutto e poi ricominciare daccapo (fu detto esplicitamente!), anche se non riuscì a fare nessuna delle due cose, bensì soltanto a sgretolare il sistema. Le acquiescenze e le complicità sono state gravi, ma offrire una falsa autonomia – che non concedeva nulla sul piano economico e tutto circa la possibilità di inventarsi i corsi di laurea più strampalati – era un invito esplicito al degrado.
Il problema che abbiamo di fronte è l’eredità di un trentennio in cui si è disperso il senso del ruolo dell’istituzione. L’università andrà in mano a chi non ne ha conosciuto un’altra, bensì soltanto una in cui è considerato normale che un credito valga per legge un certo numero fissato di ore di studio indipendentemente dal fatto che lo studente sia Einstein o l’ultimo degli asini, in nome del più stolido egualitarismo demagogico contrabbandato sotto l’etichetta dell’oggettività nell’organizzazione della didattica. Abbiamo educato intere generazioni a considerare normale che una quota esorbitante del proprio tempo di lavoro sia dedicata a mansioni organizzative e burocratiche inutili e ridicole. Grande è la vitalità della mente umana e la capacità della cultura di rigenerarsi. Ma qui ci vuole una dose di ottimismo da cavalli.
Pertanto una delle più grandi ipocrisie è che non si parli di queste cose, che non si parli mai di contenuti bensì soltanto di marchingegni di ingegneria istituzionale. Ha ragione Giavazzi a battere sul tasto dell’autonomia finanziaria e della necessità di permettere alle università di aumentare le tasse creando borse di studio per i meritevoli. Ma cascano le braccia quando si sentono riproporre altre litanie, come quella di rendere le università centri sempre più dipendenti dal territorio. Ma davvero, nell’epoca della globalizzazione, può credersi che una grande università sia tale perché collega ricerca e insegnamento alle forme produttive del territorio – piastrelle, sedie – e non perché è un grande centro di formazione e ricerca internazionale? Davvero qualcuno crede che la qualità di Harvard dipenda dal rapporto con il tessuto produttivo bostoniano? E cascano parimenti le braccia quando si sente dire che il toccasana è mettere in mano le scelte della ricerca e dell’insegnamento a un “management” puramente extrauniversitario – sul modello fallimentare della riforma sanitaria. Chi pensa così o non sa cosa sia un’università propriamente detta, oppure, avendo perso ogni speranza circa il futuro della nostra, mira a farne un ufficio studi confindustriale. In entrambi i casi avremmo messo il coperchio sulla pentola fabbricata da un trentennio di scelte sbagliate.
Auguriamo al ministro Gelmini di riuscire a infondere nell’università un impulso di riscatto morale e culturale, similmente a quanto sembra accadere nella scuola, da alcuni primi sintomi. Ma certo la partita è dura, soprattutto se ci si mette di mezzo l’ipocrisia e la pervicace volontà di non apprendere le lezioni.
(Libero, 15 luglio 2009)
venerdì 10 luglio 2009
Non c’è scampo. Passeremo il tempo a chiedere perdono per i nostri errori
Il Financial Times ha dedicato alla notizia la prima pagina. Il signor Nick Draper, avendo smesso di lavorare nella celebre banca d’affari JP Morgan ed essendosi dedicato all’attività di storico dell’economia, ha scoperto in un archivio londinese scottanti dossier concernenti la dinastia dei banchieri Rothschild e degli avvocati Freshfield. In entrambi i casi i documenti proverebbero compromissioni con lo schiavismo avvenute quasi due secoli fa. Pare che un certo Lord James O’Bryen avesse chiesto un prestito ai Rothschild che avevano ottenuto in cambio un’ipoteca sulle sue proprietà in America inclusi gli 88 schiavi che vi lavoravano. Il Lord era insolvente e i Rothschild pretesero il dovuto inclusi gli schiavi: questo nel 1830 quando la schiavitù era stata appena dichiarata illegale nel Regno Unito. Anche l’avvocato James W. Freshfield avrebbe trattato un trasferimento di proprietà comprensive di decine di schiavi, ottenendo sontuose parcelle.
Lo scandalo sarebbe aggravato dal fatto che entrambe le dinastie hanno la fama di esponenti del capitalismo illuminato. Pertanto, come minimo dovrebbero porgere le loro umili scuse – difatti sia la banca Rothschild che lo studio Freshfield hanno promesso rigorose indagini – ma non sono escluse conseguenze economiche. Esistono precedenti: nel 2005 proprio la JP Morgan non soltanto dovette porgere le sue scuse perché nell’Ottocento due sue affiliate avevano acceso ipoteche sugli schiavi, ma per calmare gli animi istituì borse di studio per 5 milioni di dollari riservate a studenti afroamericani. Anche la banca Lehman Brothers (fallita durante la presente crisi) dovette scusarsi nel 2005 perché le società che appartenevano al gruppo si erano compromesse con lo schiavismo. La cenere sul capo è toccata anche a due università americane: la celeberrima Yale University, anch’essa un tempo implicata nello schiavismo, come documentato da alcuni suoi studenti, e la Brown University. È probabile che la lista si allungherà.
Non vi è bisogno di dire quale orrore provochi in noi lo schiavismo. Ma l’idea che ogni istituzione dell’occidente debba passare il suo futuro a scusarsi per ciò che hanno fatto i suoi predecessori è nauseabonda. Non solo perché è scioccamente moralistica ma perché è insopportabilmente ipocrita. Per essere coerenti bisognerebbe elevare un coro di scuse da assordare il mondo intero e bloccare ogni altra attività. Ma bisognerebbe farlo non solo in occidente: gli altri sono forse tutti angioletti? Non solo: bisognerebbe parlare dello schiavismo di oggi, che non c’è più in occidente bensì altrove. Talora è schiavismo di massa, sequestro di interi popoli che li tiene asserviti con la minaccia della morte o della tortura.
Ma di questo nessuno vuol parlare. Di che stupirsi se persino al vertice degli Stati Uniti è giunta l’espressione del politicamente corretto che passa il tempo a deplorare le colpe dell’occidente mentre si inchina reverente di fronte ai satrapi orientali che schiavizzano le donne?
E allora, visto che non c’è scampo, avanzo una proposta. Cominciamo con Aristotele. Nessuno può negare che fosse difensore del carattere naturale della schiavitù. Che tutti gli editori del mondo scarichino sulle pubbliche piazze i libri di Aristotele, che li si dia alle fiamme e si punisca per legge chi oserà in futuro leggere quei testi infami. Gli editori occidentali dovranno impegnarsi a pubblicare opere di schiavi di acclarata autenticità che prenderanno il posto di quelle di Aristotele nelle biblioteche. Questo tanto per cominciare. Poi faremo i conti con Platone. La lista è lunga e chi si è macchiato di colpe dovrà tremare.
(Tempi, 9 luglio 2009)
Lo scandalo sarebbe aggravato dal fatto che entrambe le dinastie hanno la fama di esponenti del capitalismo illuminato. Pertanto, come minimo dovrebbero porgere le loro umili scuse – difatti sia la banca Rothschild che lo studio Freshfield hanno promesso rigorose indagini – ma non sono escluse conseguenze economiche. Esistono precedenti: nel 2005 proprio la JP Morgan non soltanto dovette porgere le sue scuse perché nell’Ottocento due sue affiliate avevano acceso ipoteche sugli schiavi, ma per calmare gli animi istituì borse di studio per 5 milioni di dollari riservate a studenti afroamericani. Anche la banca Lehman Brothers (fallita durante la presente crisi) dovette scusarsi nel 2005 perché le società che appartenevano al gruppo si erano compromesse con lo schiavismo. La cenere sul capo è toccata anche a due università americane: la celeberrima Yale University, anch’essa un tempo implicata nello schiavismo, come documentato da alcuni suoi studenti, e la Brown University. È probabile che la lista si allungherà.
Non vi è bisogno di dire quale orrore provochi in noi lo schiavismo. Ma l’idea che ogni istituzione dell’occidente debba passare il suo futuro a scusarsi per ciò che hanno fatto i suoi predecessori è nauseabonda. Non solo perché è scioccamente moralistica ma perché è insopportabilmente ipocrita. Per essere coerenti bisognerebbe elevare un coro di scuse da assordare il mondo intero e bloccare ogni altra attività. Ma bisognerebbe farlo non solo in occidente: gli altri sono forse tutti angioletti? Non solo: bisognerebbe parlare dello schiavismo di oggi, che non c’è più in occidente bensì altrove. Talora è schiavismo di massa, sequestro di interi popoli che li tiene asserviti con la minaccia della morte o della tortura.
Ma di questo nessuno vuol parlare. Di che stupirsi se persino al vertice degli Stati Uniti è giunta l’espressione del politicamente corretto che passa il tempo a deplorare le colpe dell’occidente mentre si inchina reverente di fronte ai satrapi orientali che schiavizzano le donne?
E allora, visto che non c’è scampo, avanzo una proposta. Cominciamo con Aristotele. Nessuno può negare che fosse difensore del carattere naturale della schiavitù. Che tutti gli editori del mondo scarichino sulle pubbliche piazze i libri di Aristotele, che li si dia alle fiamme e si punisca per legge chi oserà in futuro leggere quei testi infami. Gli editori occidentali dovranno impegnarsi a pubblicare opere di schiavi di acclarata autenticità che prenderanno il posto di quelle di Aristotele nelle biblioteche. Questo tanto per cominciare. Poi faremo i conti con Platone. La lista è lunga e chi si è macchiato di colpe dovrà tremare.
(Tempi, 9 luglio 2009)
giovedì 2 luglio 2009
Giusto chiedere autonomia per le scuole. Ma l’anarchia educativa è un altro conto
Al tanto vituperato Illuminismo occorre almeno riconoscere il merito di aver concepito in modo organico l’idea di una diffusione universale della conoscenza e quindi della necessità di un’istruzione generalizzata; e l’altra grande idea che conoscenza e libertà sono indissolubilmente legate. Ma come trasmettere la conoscenza al popolo? In modo diretto il popolo non può acquisire nulla, così come non può governarsi direttamente. Occorre ideare delle strutture per la trasmissione e la formazione della conoscenza, così come il potere politico può esercitarsi soltanto con la rappresentanza. L’arte della mediazione e della rappresentanza è il fondamento sia della democrazia che dell’istruzione: non a caso il marchese di Condorcet pubblicava i suoi celebri scritti sulla riforma dell’istruzione e sui principi della rappresentanza elettorale in un periodico significativamente intitolato: Journal d’instruction sociale. La nostra visione della democrazia liberale è fondata sull’idea della rappresentanza. Sono stati e sono i regimi totalitari a ritenere che il popolo debba esercitare il potere direttamente (per “democrazia diretta”) e acquisire la conoscenza senza mediazioni. Sappiamo tutti a quali esiti abbia condotto questa visione. Difatti, poiché la democrazia diretta è praticamente impossibile salta sempre fuori qualche “avanguardia” che si propone come voce del popolo, impone la sua dittatura e gestisce la cultura e l’istruzione in nome degli interessi delle “masse”.
Cominciarono i Giacobini tagliando le teste di Condorcet e di chi la pensava come lui e sopprimendo istituzioni scientifiche ed educative. I totalitarismi del Novecento non sono stati da meno. È vivo il ricordo dei tempi in cui in Germania la relatività era proscritta in quanto scienza ebraica e in Unione Sovietica la meccanica quantistica in quanto scienza borghese. D’altra parte, l’alternativa di una democrazia popolare senza mediazione alcuna, neppure quella delle “avanguardie” (come la dittatura del proletariato), è un’illusione. Questa alternativa è la disgregazione totale: l’atomizzazione della società in gruppi che si chiudono in piccoli ghetti e si autogestiscono secondo principi molecolari. È la conflittualità perpetua, l’incomprensione fatta sistema, il declino culturale inarrestabile. Difatti, è inutile illudersi: la cultura moderna si è creata su standard nazionali e, casomai, oggi tende a ulteriori forme di globalizzazione, soprattutto per quel che riguarda la scienza. Ogni tendenza in senso inverso va in direzione della pura e semplice irrilevanza e della miseria culturale. Soltanto un ignorante o un fanatico può negare l’immenso progresso rappresentato dall’istruzione pubblica, che ha aperto la via della conoscenza a un numero sterminato di persone prima condannate all’ignoranza o all’analfabetismo. Certo, oggi ci misuriamo con i difetti e i burocratismi del sistema statalista ma il problema è correggerli, non distruggere quanto di positivo è stato realizzato con quel sofisticato apparato. La richiesta di maggiore autonomia del sistema è giusta ma va intesa saggiamente: non può significare abolizione delle regole, di standard generali, l’adozione di una istruzione “fai da te” gestita direttamente dalla “gente”: sarebbe una regressione che susciterebbe per reazione la spinta a un controllo autoritario.
Quindi, quando oggi sento che qualcuno parla di togliere l’istruzione allo stato per “riconsegnarla al popolo” mi viene da pensare che le lezioni non bastano mai se ci si dimentica ancora una volta che il mito nefasto e demagogico della democrazia diretta genera l’ignoranza e l’ignoranza conduce alla perdita della libertà.
(Tempi, 2 luglio 2009)
Cominciarono i Giacobini tagliando le teste di Condorcet e di chi la pensava come lui e sopprimendo istituzioni scientifiche ed educative. I totalitarismi del Novecento non sono stati da meno. È vivo il ricordo dei tempi in cui in Germania la relatività era proscritta in quanto scienza ebraica e in Unione Sovietica la meccanica quantistica in quanto scienza borghese. D’altra parte, l’alternativa di una democrazia popolare senza mediazione alcuna, neppure quella delle “avanguardie” (come la dittatura del proletariato), è un’illusione. Questa alternativa è la disgregazione totale: l’atomizzazione della società in gruppi che si chiudono in piccoli ghetti e si autogestiscono secondo principi molecolari. È la conflittualità perpetua, l’incomprensione fatta sistema, il declino culturale inarrestabile. Difatti, è inutile illudersi: la cultura moderna si è creata su standard nazionali e, casomai, oggi tende a ulteriori forme di globalizzazione, soprattutto per quel che riguarda la scienza. Ogni tendenza in senso inverso va in direzione della pura e semplice irrilevanza e della miseria culturale. Soltanto un ignorante o un fanatico può negare l’immenso progresso rappresentato dall’istruzione pubblica, che ha aperto la via della conoscenza a un numero sterminato di persone prima condannate all’ignoranza o all’analfabetismo. Certo, oggi ci misuriamo con i difetti e i burocratismi del sistema statalista ma il problema è correggerli, non distruggere quanto di positivo è stato realizzato con quel sofisticato apparato. La richiesta di maggiore autonomia del sistema è giusta ma va intesa saggiamente: non può significare abolizione delle regole, di standard generali, l’adozione di una istruzione “fai da te” gestita direttamente dalla “gente”: sarebbe una regressione che susciterebbe per reazione la spinta a un controllo autoritario.
Quindi, quando oggi sento che qualcuno parla di togliere l’istruzione allo stato per “riconsegnarla al popolo” mi viene da pensare che le lezioni non bastano mai se ci si dimentica ancora una volta che il mito nefasto e demagogico della democrazia diretta genera l’ignoranza e l’ignoranza conduce alla perdita della libertà.
(Tempi, 2 luglio 2009)
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