Circa un mese fa ci siamo occupati in questa rubrica dei criteri stabiliti dalla nuova Agenzia per la valutazione dell’università e della ricerca (Anvur) per le idoneità nazionali a professore universitario. Molte voci del mondo universitario e culturale hanno criticato vivacemente questi criteri, improntati alla più piatta valutazione quantitativa di tipo bibliometrico, oltre all’assurda idea di attribuire un punteggio triplo ai lavori pubblicati con editori “internazionali” rispetto a quelli “nazionali”, così che un libro pubblicato presso una prestigiosa casa editrice italiana varrebbe assai di più se pubblicato all’estero, magari presso una casa editrice minore di un paese marginale. Di recente, l’Anvur ha risposto alle critiche con un documento sconcertante. Se Ernesto Galli della Loggia aveva accusato l’Anvur di assurda esterofilia, l’Agenzia risponde a tono stipando inutilmente il documento di termini in inglese. Dopo aver stigmatizzato gli interventi degli «affrettati commentatori» che hanno osato parlare di “esterofilia”, si concede con degnazione che la discussione è stata accettabile in quanto evidence-based, e poi dalli con information retrieval, fractional counting, 10-14-like, outlier e via così.
Le critiche vengono liquidate con supponenza, affermando che «prese di posizione generali/generiche di segno negativo, in particolare tese a bloccare sul nascere ogni tentativo di definire indicatori quantitativi della qualità della ricerca sono state espresse solo da voci isolate» o addirittura sono sospette di «fermare un processo di cambiamento senza offrire argomenti alternativi convincenti». Ci si chiede come si può essere tanto temerari da definire la International Mathematical Union o l’Institute of Mathematical Statistics come “voci isolate” incapaci di offrire argomenti convincenti; senza rendersi conto che, di fronte a istituzioni di questa portata sono i commissari dell’Anvur a fare la figura di voci isolate di ben minore prestigio.
Ma particolarmente indicativo è il modo con cui si respingono le critiche circa la valutazione delle pubblicazioni “internazionali” o “nazionali”. Si afferma che un volume pubblicato all’estero comporta uno sforzo maggiore per l’autore rispetto a un volume in italiano. Forse, soltanto se egli ne è il traduttore, cosa che non accade quasi mai. Altrimenti, non si capisce di quali sforzi si parli. Ancor più stupefacente è la tesi secondo cui un libro pubblicato all’estero «è stato sottoposto a una competizione più ampia e severa in quanto per definizione più numerosi sono i concorrenti». Davvero? Pubblicare un libro in croato (con tutto il rispetto) comporta “per definizione” (quale definizione?) una maggiore competizione? O piuttosto non accade in molti casi che sia più facile pubblicare un libro all’estero presso qualche piccola casa editrice compiacente in qualche lingua poco frequentata con poca concorrenza? Inoltre che un libro pubblicato all’estero «raggiunga una platea» più vasta di lettori può essere vero soltanto per l’inglese o il cinese.
Sulla base di simili “argomenti” l’Anvur ripropone senza batter ciglio i suoi criteri con una sola modifica: parlando non di volumi pubblicati da casa editrice nazionale o internazionale (magari intendendo con quest’ultima una casa editrice capace di accedere ai canali internazionali), ma di volumi pubblicati in italiano o in altra lingua.
Queste sono le idee provinciali e sgangherate su cui si dovrebbe fondare la riqualificazione della ricerca e delle università italiane. Stiamo freschi, tanto per dirla in italiano.(Tempi, 21 settembre 2011)