Se desidero parlare del romanzo La famiglia Karnowski di Israel Joshua Singer (Adelphi, 2013) non è
per farne una recensione che altri hanno fatto o faranno con maggiore
competenza. È per dire delle due ragioni per cui sono stato folgorato da quest’opera
del fratello minore del più noto premio Nobel Isaac Bashevis. La prima
considerazione è quella di un semplice lettore – non critico letterario,
appunto – che, pur cercando di accostarsi in modo aperto a nuovi stili
letterari indubbiamente suggestivi (come quello di Gary Shteynhart), non può
fare a meno di sentirsi trascinato in modo totale da libri che dimostrano la
vitalità imperitura del romanzo classico. Quando lessi Vita e destino di Vasilij Grossman mi parve di trovarmi di fronte a
una nuova opera inedita di Dostoevskij. Non diversamente leggendo La famiglia Karnowski: un grandissimo
romanzo che è la prova che non è indispensabile inventare nuovi stili e nuove
sperimentazioni per legare a sé il lettore pagina dopo pagina.
Il romanzo racconta, attraverso la saga di una famiglia che
si snoda dalla Polonia alla Germania fino agli Stati Uniti, il dramma della
distruzione dell’ebraismo centro-europeo. Ma non si tratta soltanto di questo,
c’è molto di più. In questa tragica saga emerge il tema dell’identità ebraica:
che cosa significa, come si può essere ebrei nell’era successiva ai ghetti, o
comunque alla separazione totale dal resto della società, durante la quale la
definizione dell’identità ebraica era in qualche modo automatica, in quanto
imposta dall’esterno? La famiglia Karnowsky, come tante altre giunte in
Germania dalla Polonia, deve far fronte al compito difficile di misurarsi con
la società tedesca, con il fascino del suo spessore culturale e civile e con le
sue aspre ripulse, e si confronta anche con gli svariati modelli di vita degli
ebrei tedeschi autoctoni. Il percorso di tre generazioni della famiglia,
accanto a quelli di tanti altri personaggi, disegna un affresco di tutti i
possibili atteggiamenti. Da un lato, v’è l’estremo del saggio talmudista che si
chiude nella barriera difensiva dei suoi studi, nella convinzione che è sempre
stato “così” e sarà sempre “così”, e quindi che anche l’avvento del nazismo
rientra nella “normalità” della millenaria storia ebraica e non può modificare
il corso della vita di un ebreo pio. In mezzo, vi è l’atteggiamento di chi
ritiene che la soluzione sia essere ebreo in casa e tedesco fuori di casa, e
quindi erige come cortina “difensiva” la conservazione privata delle
tradizioni, anche semplicemente al livello delle abitudini alimentari.
Dall’altro, vi sono tutte le gradazioni dell’assimilazione, da quella di chi
dissolve la propria ebraicità nell’universalismo rivoluzionario fino a quella
estrema della terza generazione della famiglia, il giovane Jegor, figlio di
matrimonio misto che cerca la via d’uscita nella soluzione radicale di
rigettare totalmente la propria identità ebraica, fino a odiarla e a
proclamarsi nazista pur di farsi riconoscere come tedesco a pieno diritto.
Poiché questo è innanzitutto un romanzo e, in alcun modo, un
libro ideologico, non vi si troverà mai un giudizio di questi atteggiamenti,
neppure di quello di Jegor. Il tentativo di quest’ultimo di “lavarsi” delle
radici ebraiche paterne e di essere accettato come tedesco “puro”, cercando un
rapporto con ambienti sordidi della comunità tedesca newyorkese, fallisce
tragicamente ed egli ritorna alla famiglia che aveva ripudiato che lo salva e
lo riaccoglie. Ma è un lieto fine che lascia aperto il problema: il ritorno di
Jegor non è dettato da una piena e autonoma consapevolezza, bensì è imposto dal
rinnovato ergersi del muro dell’odio razziale e della persecuzione. Pertanto,
la domanda che emerge spontanea da tutte queste storie è: che cosa può essere
un’identità ebraica viva e vitale nell’era moderna? Per quanto forti siano
ancora il rifiuto e l’odio, gli ebrei sono irrevocabilmente entrati a far parte
della vita sociale e godono di quei diritti civili da cui erano stati esclusi
per secoli. Sarebbe vano pensare di definire i connotati dell’identità ebraica
alzando muri o addirittura rimpiangendo e rievocando i muri del rifiuto
esterno. L’identità ebraica non può che definirsi per la posizione e il ruolo
che assume nella società e nel mondo: come dimostrano le vicende dello stato
d’Israele neppure la costituzione di uno stato ebraico risolve di per sé il
problema, perché allora questo si proietta al livello della costituzione
interna dello stato e dei rapporti internazionali.
Perciò, il lieto fine delle vicende di Jegor lascia con una
grande domanda irrisolta, come del resto tutte le storie particolari e diverse
dei personaggi che popolano il romanzo. Ed è proprio nell’assenza di una
risposta confezionata e, al contrario, nella capacità di aprire un problema
esplorandolo in tutte le sue facce, che si vede quale possa essere la forza
conoscitiva di una grande letteratura, persino maggiore di una grande
saggistica. Così, La famiglia Karnowski
è, rispetto al tema dell’identità ebraica nel mondo ancor più
complesso della postmodernità, una miniera aperta di riflessioni e di pensieri.
(Shalom, luglio 2013)