L’ultimo
numero dell’Economist denuncia con un
dossier (“How the science goes wrong”) il preoccupante declino della qualità
della ricerca scientifica. Un numero sempre maggiore di articoli si rivelano
privi di fondamento, basati su dati o statistiche sbagliati o taroccati, su
analisi approssimative; il rigore nella selezione delle pubblicazioni è in
caduta libera. La scienza – osserva la rivista – dal Settecento ha cambiato il
mondo e ancora ha diritto a un enorme rispetto, ma il suo status privilegiato
si basa sulla capacità di fornire risultati quanto più possibile esatti e,
soprattutto, di correggere i propri errori. Poiché questo accade sempre meno, ora
è la scienza a dover cambiare.
Negli
stessi giorni la rivista New Scientist
batte sullo stesso tasto, mettendo sotto accusa, in particolare, le
neuroscienze, ritenendo «ormai chiaro che la maggioranza dei risultati» ottenuti
in questo campo «sono spuri come le onde cerebrali di un pesce morto».
L’allusione è a una celebre esperienza di alcuni anni fa, in cui si sottopose a
risonanza magnetica un salmone morto rilevando un’attività cerebrale quando il
cadavere del pesce “vedeva” delle persone. Un approccio serio avrebbe dovuto
suscitare un approfondimento delle correlazioni tra quelle tecniche e
l’attività cerebrale, ma si è fatto finta di niente.
Le
ragioni di questo andazzo preoccupante sono almeno tre. In primo luogo, il
numero crescente di ricercatori che sgomitano per farsi largo in un
palcoscenico troppo affollato. Poi il principio del “publish or perish” che,
soprattutto nel contesto statunitense, obbliga il ricercatore a pubblicare
secondo precisi obbiettivi quantitativi, altrimenti è spazzato via. Se un
ricercatore, per essere confermato, deve pubblicare in quattro anni due libri e
sei articoli, baderà poco alla sostanza e s’ingegnerà a inventare qualsiasi
cosa pur di sfangarla. Ma la produzione di risultati davvero originali richiede
talvolta lunghi periodi in cui si studia, si riflette o si sperimenta, senza
pubblicare. Il terzo aspetto è dato dalla degenerazione dei sistemi di
valutazione dei lavori. Si è ritenuto che l’introduzione dell’anonimato di chi
dà un parere su un lavoro presentato a una rivista sia garanzia di autonomia, e
invece esso si è rivelato un sistema perverso che consente al recensore di
scrivere nel giudizio qualsiasi cosa senza metterci la firma e la faccia, e di
compiere impunemente operazioni mafiose, come favorire gli amici e penalizzare
i nemici o i concorrenti. A ciò si aggiunga l’idea “geniale” di valutare la
qualità di un ricercatore o di una rivista senza leggere la loro produzione,
mediante sistemi bibliometrici basati sul calcolo del numero di citazioni. In
questi anni si sono moltiplicate le denunce degli effetti perversi di questo
sistema, ma esso è sostenuto dai potenti interessi delle ditte che fanno i
conteggi bibliometrici e la macchina infernale sembra inarrestabile.
Si
aggiunga un aspetto che è forse il più grave di tutti. La qualità della ricerca
è compromessa soprattutto in alcuni settori delle scienze biologiche, in
particolare della genetica e delle neuroscienze. In questo ambito dominano due
postulati: che tutto sia nei nostri geni e che i nostri pensieri siano
rivelabili con tecniche di risonanza magnetica funzionale. Il carattere
ideologico di questi postulati è confermato dal fatto che essi resistono a
qualsiasi confutazione, anche ai salmoni morti: gli studiosi più avvertiti ripetono
che il primo postulato è manifestamente falso, soprattutto nella pretesa di
individuare mediante i geni, in modo meccanico, le nostre capacità
intellettuali; e che la risonanza magnetica funzionale rileva processi
macroscopici che individuano correlazioni troppo vaghe con l’attività mentale.
Ma ogni avvertimento è vano perché è facile far ricerca su questi presupposti,
“scoprendo” un giorno il gene della gelosia e l’altro il gene della generosità,
o analizzando i flussi sanguigni cerebrali di una persona mentre fa una
versione in prosa o legge una poesia; e su questa base scrivere articoli di
valore nullo ma che servono a far carriera.
Fin
qui il danno sarebbe serio ma resterebbe interno alla ricerca. Tuttavia, le
cose si fanno gravi per tutti se dilagano di personaggi di dubbia competenza
che vanno in giro a far seminari (magari nelle scuole) per spiegare che i
bambini che hanno difficoltà con la matematica hanno difetti neuronali, senza
essere ovviamente in grado di proporre altro che chiacchiere nebbiose. Attorno
a questo fenomeno si coagulano interessi che sfruttano la buona fede di persone
intimidite dal richiamo all’autorità della “scienza”. Ma di gran lunga più gravi
sono i tentativi di mettere in piedi interventi massicci e promossi dallo stato.
Di recente, lo psicologo americano Robert Plomin, professore al King’s College
di Londra, ha proposto di sottoporre i bambini a dei test genetici di massa per
individuare la scelta scolastica migliore perché, secondo lui, dai geni si può
dedurre in quale disciplina risulteranno migliori. Inutile dire che si tratta
di affermazioni prive di qualsiasi base scientifica seria. Se è già
problematico stimare quanto sia consigliabile fare certi interventi chirurgici
per prevenire una malattia sulla base di un test genetico, la correlazione tra
geni e disposizioni mentali e intellettuali è un territorio inesplorato,
ammesso che la sua esplorazione possa dare frutti. Difatti, è fin troppo
evidente (e viene ripetuto invano dagli studiosi seri) che in questo ambito
giocano tanti di quei fattori epigenetici, sociali, culturali, da rendere
marginale il fattore genetico. Eppure c’è chi prende sul serio queste proposte
e discute persino sulla loro attuabilità. Non ci si rende conto di riproporre
l’immagine del Brave New World di
Huxley: una società totalitaria in cui la persona non ha scelta, perché nasce
predeterminata a fare questo o quel mestiere, e a vivere in un certo modo. Già
un secolo fa l’eugenetica, diffondendo miti analoghi, ha fornito basi
pseudoscientifiche per i razzismi che hanno devastato il Novecento. Ora vediamo
risorgere lo stesso spettro che, con la stessa inconsistente pretesa di
scientificità, promette nuovi disastri sociali.
(Il Messaggero, 30 ottobre 2013)