Intervista a Orizzonte Scuola pubblicata in due parti. Qui si propone il testo in unica soluzione:
1) La sua posizione riguardo alle misurazioni
standardizzate degli apprendimenti è ben nota. Nelle sue prime affermazioni da ministro,
Stefania Giannini ha parlato proprio di Invalsi e di cultura della valutazione,
puntualizzando però che i test vanno perfezionati. Un’ipotesi del genere la
soddisfa?
È importante
che il ministro accenni a una riflessione, diversamente dagli ammonimenti
intimidatori con cui taluno ha voluto far credere che toccare anche un minimo
tassello dell’Invalsi sia un sacrilegio. Non mi è però chiaro cosa voglia dire
“perfezionare”. Siamo ancora nel vago. Se si tratta di produrre test migliori,
la cosa è benvenuta, ma questo significa anche ripensare alla selezione di chi
li prepara. A mio avviso, si tratta però di affrontare a fondo alcune questioni
come il test Invalsi all’esame di terza media, che interviene nella
valutazione. Si tratta di un errore da matita blu che va cancellato: come può
un ente che è preposto alla valutazione della qualità del sistema fare questo
sulla base di dati comprendenti una prova d’esame da esso stesso proposta?
2) Sul suo blog ha affermato che i quiz
distraggono dallo studio perché, anche se in teoria non dovrebbero avere niente
a che fare con la didattica ordinaria, spingono i docenti a orientarsi verso il
cosiddetto ‘teaching to the test’. Pensa che la nomina della Professoressa Anna
Maria Ajello alla testa dell’Invalsi possa favorire un ritorno allo spirito
originario dei quiz? Quanto è verosimile un nuovo corso?
Questo punto è
strettamente collegato alla domanda precedente: il disastro didattico prodotto
dal dilagare del “teaching to the test”.
Attenzione: non ho mai detto che i quiz non debbono aver nulla a che
fare con la didattica ordinaria. Al contrario: i test dovrebbero servire a
valutare il successo della didattica ordinaria, a valutare la qualità degli
apprendimenti conseguiti con la didattica ordinaria. Questo esclude in maniera
tassativa che ci si prepari al test medesimo: è una cosa assurda, ridicola. È
del tutto comprensibile che l’insegnante e lo studente che temono un insuccesso
nel test siano tentati dall’addestramento. Ma proprio per questo esso non deve
essere prova d’esame, il cui esito fa media! Altrimenti, prevale la tentazione
disastrosa di lasciar da parte la didattica ordinaria e di allenarsi a superare
i test anziché studiare propriamente italiano, letteratura, matematica: i test
non sono una materia, e invece qui li si sta facendo diventare una nuova
materia dell’esame di terza media. Non so se sia verosimile un nuovo corso. In
un paese vischioso come il nostro è difficile sperarci, ma se non crediamo alla
possibilità di cambiare e migliorare tanto vale non sprecare neppure il fiato. Se
mi è permessa una battuta marginale, si potrebbe almeno chiedere ai vertici
dell’Invalsi di smettere di fare una figura ridicola usando il termine
grottesco “somministrare” i test, che testimonia di un uso misero e burocratico
della lingua: si somministrano medicine, purganti, fleboclisi, perfusioni.
Basterebbe dire: “assegnare” i test…
3)
Proprio
la valutazione esterna e il merito dei docenti, anche considerate in rapporto
tra loro, sono indicate come le strade maestre per la modernizzazione della
scuola da una parte significativa dell’opinione pubblica e degli addetti ai
lavori. Lei su che cosa punterebbe?
La
valutazione del merito è assolutamente inderogabile. Tuttavia, non si può
procedere in modo confuso e pasticciato. Bisogna studiare a fondo quel che si è
fatto all’estero e gli esiti: arrivare per ultimi può essere un vantaggio. Non
credo che i sistemi automatici di valutazione, con indicatori meramente
statistici, abbiano dato buoni risultati. Non credo neppure che si possa parlare
di valutazione “esterna”: chi sarebbero questi “esterni”, che qualifica
avrebbero, in che modo l’avrebbero ottenuta, e a quali controlli successivi
sarebbero sottoposti? L’idea di affidare la gestione della valutazione a
organizzazioni manageriali “esterne” che agiscono in totale arbitrio non può
portare a nulla di buono. Non c’è nulla da fare: l’unico sistema di valutazione
è quello interno, ma da condurre con regole rigorose e trasparenti. Il
principio da cui partirei è che la valutazione è un processo di crescita
culturale in cui i migliori producono un effetto di trascinamento verso l’alto.
4)
Da
studioso e docente di lungo corso, qual è la sua idea su come definire,
misurare e premiare il merito di un insegnante di scuola?
Sarebbe
troppo lungo entrare nei dettagli: ho delineato un possibile approccio in vari
documenti e articoli. Mi limito a dire che, secondo me, il migliore sistema è
quello delle ispezioni in senso lato. Anche il giudizio degli studenti e delle
famiglie è importante, a condizione che non sia anonimo, altrimenti si
rischiano situazioni devastanti (vendette, ritorsioni, con calunnie coperte
dall’anonimato, come si è già verificato in esperienze universitarie): si può
garantire l’anonimato di fronte al docente valutato ma non di fronte a una
commissione di valutazione. Inoltre, per esperienza, so che non soltanto il
giudizio degli studenti spinge un docente a migliorarsi, ma anche il confronto
con i colleghi: quando mi è capitato che un collega venisse ad ascoltare alcune
mie lezioni, mi sono sentito impegnato a dare il massimo. Questo significa che
il sistema migliore è quello delle ispezioni: commissioni di valutazione
composte da docenti di altre scuole, da docenti in pensione, da ispettori,
ecc., che esaminano ogni aspetto di un istituto, esaminano i testi adottati,
assistono ad alcune lezioni, interrogano gli studenti, discutono con i
colleghi, nel corso di una settimana e poi fanno un rapporto. Si possono
pensare molte altre forme di valutazione di questo tipo. Per esempio, le prove
scritte di una classe con le valutazioni dell’insegnante possono essere
sottoposte (a campione) a docenti di altre scuole – anche qui con modalità
precise – in modo da ottenere un giudizio comparativo. In breve, si tratta di
mettere in piedi un sistema interattivo di valutazione che costringa ogni
insegnante a misurarsi e farsi valutare, eventualmente anche difendendo il
proprio operato, in caso di critiche. Ripeto, tutto questo va definito con
modalità precise ma non si tratta di nulla di inedito: il sistema Ofsted
inglese ha molti tratti in comune con le idee che sto proponendo, salvo che
Ofsted è del tutto esterno e autonomo, e questo non va bene, come si è visto da
alcuni gravi inconvenienti che l’hanno messo sotto accusa. Proprio per questo è
un vantaggio arrivare dopo gli altri.
5) Tornando alle dichiarazioni del ministro
Giannini, concorda con l’idea che la scuola media sia l’anello debole del
sistema d’istruzione italiano – cosa affermata di recente anche da Renzi - e
che possa essere opportuno il taglio di un anno?
L’idea che la scuola media
sia l’anello debole del sistema italiano dell’istruzione deriva dal recepimento
acritico di statistiche, nell’ignoranza dello stato effettivo di questo
segmento, come del resto sa la maggioranza degli insegnanti e dei dirigenti
della scuola secondaria di primo grado. Vorrei, al riguardo, citare le frasi di
un celebre storico della medicina, Mirko Grmek, che mi paiono assai appropriate
al nostro argomento: «Qualcuno ha affermato, giustamente, che la statistica è
spesso un calcolo molto preciso con dati falsi. Se in un villaggio si trova
che, in un determinato periodo storico compaiono malattie che non c’erano, se
cambia notevolmente il numero di queste, la prima cosa da chiedersi è se è
cambiato il medico. Se in un Paese si introduce un servizio-sociale sanitario
pubblico, il risultato sarà un aumento statistico delle malattie, un apparente
peggioramento dello stato generale di salute, perché la gente che prima non
andava dal medico adesso ci va!». Il giudizio sulla scuola media italiana è basato
sui cattivi rendimenti degli studenti, attestati dalle statistiche. Nessuno si
chiede se ciò non derivi dal fatto che ragazzi impreparati si trovano
improvvisamente ad affrontare un livello di studio più pesante e difficile,
senza aver mai avuto gli strumenti per affrontarlo, non essendo abituati a
studiare a casa, e ignorando completamente cosa sia un approccio disciplinare.
Se si guardassero attentamente i programmi (indicazioni nazionali) e le
pratiche didattiche prevalenti nella prassi, ci si dovrebbe chiedere se, al
contrario della vulgata comune, il guaio non stia tutto nella scuola primaria.
C’è ancora chi si balocca col mito della “scuola elementare migliore del
mondo”, pensando agli anni ’50 e ignorando che nessun segmento di scuola è
stato tempestato di riforme quanto quello. Limitandoci agli ultimi anni, basti
vedere le indicazioni nazionali della legge Moratti (roba da far rabbrividire),
migliorate da quelle Fioroni (un miglioramento peraltro modesto) e di nuovo
peggiorate dalle ultime, riguardo alle quali piacerebbe sapere chi ha avuto
l’ardire di scrivere certe indicazioni sulla matematica. Cosa di buono può
uscire da tutto questo? È la scuola della paura didattica, del far poco o
niente, della credenza che la via per indorare la pillola sia presentare tutto
come un gioco, della miriade di attività alternative. Casomai, va detto con
forza che la scuola media è stata disastrata dalla riduzione di orari
introdotta per meri motivi economici. E vogliamo rimediare questa infezione
curabile tagliando una gamba al malato?... Conosco bene le ricette peggiori del
male che circolano in certi ambienti: per esempio, fondere primaria e medie in
un solo ciclo più corto di un anno, o anche accorciare di un anno i licei.
Viene da dire: fermatevi prima di fare altri sconsiderati pasticci. Nessuno si
chiede cosa succederebbe dei contenuti con simili alchimie. Per esempio, la
questione dei cicli in storia è fondamentale. È inutile negare che la storia
ripetuta per tre cicli, sulle tre sezioni scolastiche, corrispondeva a fasi determinante
di maturità intellettuale dei bimbi e dei ragazzi. Ora si studiano le civiltà
greche e latine quando si è bambini e la storia moderna e contemporanea a 13
anni, e poi ci si lamenta pure che gli studenti arrivino alle medie ignorano la
storia antica, e come se si potesse capire il Medioevo, il Rinascimento o la
modernità senza conoscere la civiltà greca a un livello diverso del raccontino
per bimbi! E potrei continuare con altre materie, per esempio con la
matematica, che meglio conosco. Accorciando di un anno i licei, si massacrerà
la filosofia – come denunciato in un appello di noti intellettuali e professori
– ridotta a uno spezzoncino biennale in via di eliminazione. Occorre fermare
questi apprendisti stregoni che ragionano in termini tecnocratici e che,
probabilmente, posti davanti a un’interrogazione disciplinare non supererebbero
un esame di terza media.
6) In un suo recente intervento si è soffermato
sui bisogni educativi speciali ponendo il problema dei rischi per la didattica
ordinaria se l’insegnante deve concentrarsi su troppi percorsi individuali, e
ha detto che spesso questi bisogni sono riconducibili semplicemente alle
differenze individuali. Ci vuole
spiegare meglio? Consiglierebbe al neoministro di fare un passo indietro sui
Bes (cosa in parte già fatta anche dalla Carrozza, che né ha voluto spingersi a
una normativa né ha lasciato un quadro limpido sulla materia)?
L’argomento è complesso e
meriterebbe un trattamento a fondo. Mi permetto di rinviare a una discussione
dettagliata che ne ho fatto in un video.
In linea generale, sono fermamente contrario alla tendenza di trasformare la
scuola da luogo di insegnamento e apprendimento a centro di assistenza sociale
e alla tendenza alla medicalizzazione della scuola. Sono convinto che occorra
fare un deciso passo indietro sui Bes, e non soltanto.
7) Rilevava poi una contraddizione, in effetti
abbastanza palese, tra l’ossessione per le misurazioni standardizzate e la
tendenza, a suo avviso eccessiva, a incoraggiare una didattica sempre più
individualizzata. Come se la spiega?
È forse la contraddizione
tra due ideologie che si contendono il campo della scuola. È una contraddizione
bizzarra: da un lato, si critica tutto ciò che non è “oggettivo” (con una
concezione puerile e rozza dell’oggettività che nessuna persona che abbia una
seria cultura scientifica potrebbe condividere), proscrivendo i giudizi
dell’insegnante in quanto soggettivi e indicando come stella polare l’ideale
della standardizzazione; e, dall’altro, si pensa a una scuola in cui tutto sia
plasmato su percorsi strettamente individuali. Sono due punti di vista
inconciliabili. Di fatto, l’unico approccio che può conciliarli è proprio
quello del buon senso del buon insegnante, che persegue obbiettivi il più
possibile comuni e tendenti verso l’ottimo e tenta di elevare tutti gli allievi
verso questi “standard” più elevati, con un’attenzione speciale ai singoli casi
e cercando di recuperare gli allievi in maggiore difficoltà.
8) Ha criticato l’ambiguità della definizione
di dislessia (non è un disturbo, non è una disabilità, ma poi la si tutela come
se lo fosse) sottolineando che molte diagnosi vengono certificate con eccessiva
leggerezza. Rimetterebbe perciò mano alla legge del 170/2010? In che modo?
Non
contesto affatto la definizione di dislessia. Contesto la definizione assurda
che si dà dei DSA (Disturbi specifici di apprendimento) nella legge. Chi abbia
un minimo di cultura storica sa che l’uso del prefisso “dis” risale alla
medicina ippocratica che concepiva la malattia come una perdita dell’armonia
naturale: rottura dell’“eucrasia” (come equilibrio armonico del corpo) verso la
“discrasia” (prevalenza o insufficienza di una delle componenti che determinano
quell’equilibrio). Come tale è rimasta nella medicina (anche in inglese,
malattia come “disease”): il dis-turbo è una rottura della “normalità”, una
malattia. Secondo la legge i DSA si manifestano in presenza di capacità
cognitive adeguate, in assenza di patologie neurologiche o di deficit
sensoriali. Quindi non sono un “disturbo”, non sono una malattia. Ma non sono
neppure riconducibili a una mera difficoltà di apprendimento. Non si sa cosa
siano. La verità è che chi ha trovato una simile formula insensata l’ha fatto
per aderire a un punto di vista demagogico: i vostri figli, pur se DSA, sono
normalissimi – anzi, come si dice spesso, sono più intelligenti degli altri –
ma hanno delle “difficoltà”. Per reggere in piedi questa assurda baracca
concettuale c’è chi poi parla (in contraddizione con la legge) di “diversità”
neurologiche, chi di “diversità” genetiche, non portando alcuna prova seria di
tali affermazioni. Peraltro, mentre la dislessia è un disturbo noto e
accertato, gli altri DSA sono di recente definizione, e di definizione
discutibilissima, in certi casi evanescenti e inafferrabili, come nel caso
della discalculia. Non c’è dubbio che molte diagnosi sono effettuate con
leggerezza e che questa legge induca le famiglie che non vogliono avere problemi
a far diagnosticare i loro figli di discalculia, così non dovranno vedersela
con un 4 in matematica, e anche alcuni insegnanti pigri a liberarsi dei casi
difficili. Come al solito, è molto difficile pensare che si possa rimettere
mano a una legge demagogica, dopo che si sono aperte le porte della stalla: è
una legge che prevede addirittura facilitazioni sul lavoro per le famiglie con
DSA… Se prevalesse un atteggiamento serio però qualcosa potrebbe essere fatto.
Per esempio, definendo in modo diverso le commissioni preposte alla diagnosi,
oppure sottoponendo a revisione attenta da parte di commissioni con una
composizione mista le diagnosi effettuate da psicologi o neuropsichiatri che
spesso non hanno alcuna competenza matematica o lessicale. Occorrerebbe prevedere
una normativa con sanzioni nel caso di diagnosi ingiustificate, proprio come
accade quando si conferiscono pensioni di invalidità sulla base di false certificazioni.
Questo è tanto più necessario in quanto ci si muove su un terreno molto più
scivoloso e ambiguo delle malattie puramente fisiche: non è difficile
verificare se uno è cieco o no, ma la diagnosi di discalculia o disgrafia è
altamente opinabile. D’altra parte, se si è voluto scendere su questo terreno
il rigore è doppiamente d’obbligo. Altrimenti, si dovrebbe tornare a una definizione
seria e approfondita di questi “disturbi”, senza linciare chi vuole discuterne
razionalmente. Si pensi all’altro “disturbo” accreditato, l’ADHD, o sindrome
del bambino agitato. Questo fu introdotto a partire dagli studi dello
scienziato statunitense Leon Eisenberg, deceduto nel 2009. Di recente il
giornalista tedesco Jörg von Blech ha pubblicato un’intervista di Eisenberg da
lui raccolta pochi mesi prima della morte, in cui Eisenberg si mostrava
preoccupato di aver aperto un vaso di Pandora di quella che chiamò “fabrizierte
Erkrankung”, ovvero una “malattia inventata”!… Quindi, in un ambito così
ambiguo nulla è scontato. Tanto dovrebbe bastare per assumere un atteggiamento
critico circa una tendenza alla medicalizzazione dell’istruzione che è
stimolata da pesanti interessi economici.