(Versione "lunga" di un articolo comparso sul Messaggero, domenica 16 marzo 2014, col titolo "Scoppia la guerra del sapere").
La polemica dilaga. Tempo fa Alberto Asor Rosa, Ernesto Galli Della Loggia e Roberto Esposito hanno denunciato con un appello promosso dal Mulino lo svilimento degli studi storici, filosofici e letterari, considerati sempre più alla stregua di un ciarpame inutile che deve fare spazio alle “cose serie”: le scienze naturali e matematiche, i metodi quantitativi e “oggettivi”, da privilegiare alle fumisterie inconcludenti delle scienze non esatte. I promotori dell’appello avevano individuato un segnale di questo svilimento nel dilagare dei metodi quantitativi e statistici di valutazione dei lavori scientifici mediante la “bibliometria”, assurti a dogma per opera dell’Anvur (l’Agenzia nazionale di valutazione dell’università e della ricerca). Poi sono venuti altri fatti a rafforzare la denuncia: la filosofia è stata eliminata dalle tabelle disciplinari di alcuni corsi di laurea universitari (come Pedagogia e Scienze dell’educazione) e prende corpo il tentativo promosso da un fronte tecnocratico-confindustriale di ridurre la durata dei licei a quattro anni colpendo soprattutto la filosofia, che sarebbe ridotta a un relitto in via di definitiva eliminazione. Roberto Esposito ha denunciato con vigore questa tendenza definendola un tentativo di abolire il pensiero critico da scuola e università. A sua volta, Dario Antiseri ha accusato della stessa colpa i fautori dell’“ignoranza attiva”, che si aggirerebbero negli “antri” del Ministero dell’istruzione.
La polemica dilaga. Tempo fa Alberto Asor Rosa, Ernesto Galli Della Loggia e Roberto Esposito hanno denunciato con un appello promosso dal Mulino lo svilimento degli studi storici, filosofici e letterari, considerati sempre più alla stregua di un ciarpame inutile che deve fare spazio alle “cose serie”: le scienze naturali e matematiche, i metodi quantitativi e “oggettivi”, da privilegiare alle fumisterie inconcludenti delle scienze non esatte. I promotori dell’appello avevano individuato un segnale di questo svilimento nel dilagare dei metodi quantitativi e statistici di valutazione dei lavori scientifici mediante la “bibliometria”, assurti a dogma per opera dell’Anvur (l’Agenzia nazionale di valutazione dell’università e della ricerca). Poi sono venuti altri fatti a rafforzare la denuncia: la filosofia è stata eliminata dalle tabelle disciplinari di alcuni corsi di laurea universitari (come Pedagogia e Scienze dell’educazione) e prende corpo il tentativo promosso da un fronte tecnocratico-confindustriale di ridurre la durata dei licei a quattro anni colpendo soprattutto la filosofia, che sarebbe ridotta a un relitto in via di definitiva eliminazione. Roberto Esposito ha denunciato con vigore questa tendenza definendola un tentativo di abolire il pensiero critico da scuola e università. A sua volta, Dario Antiseri ha accusato della stessa colpa i fautori dell’“ignoranza attiva”, che si aggirerebbero negli “antri” del Ministero dell’istruzione.
Non si creda che questi appelli e queste reazioni abbiano suscitato
consensi unanimi. Al contrario. Si è aperto un confronto confuso in cui alcuni
hanno contrapposto la tesi che in Italia, per l’antico persistente influsso del
crocianesimo, è la cultura scientifica ad essere da sempre all’angolo. Altri
hanno sostenuto che l’ossessione per la valutazione quantitativa sia proprio un
prodotto di tale incultura scientifica. Altri ancora hanno lamentato la cronica
carenza di laureati in materie scientifiche che sarebbe dovuta a una campagna
antiscientifica che denigra ciò che non sarebbe direttamente utile e propaga
una deplorevole diffidenza nei confronti di tutto ciò che è misurabile e
quantitativo. Giovanni Reale ha replicato individuando la radice di tutti i
guai nell’idea che il sapere derivi tutto dalla scienza e che la tecnologia
risolva tutti i problemi. Ha ricordato la tesi di Popper secondo cui la scienza
non può avere idee universali e necessarie, ma solo coerenti con un paradigma
contingente, mentre la filosofia può contenere anche sistemi opposti. Qui è
stato assai meno convincente. In primo luogo, perché la visione di Popper della
scienza non è “la” scienza, la cui storia offre prospettive molto più ricche.
In secondo luogo, perché la discussione poggia su un vizio di fondo che mostra
quanto sia incancrenito il conflitto tra le “due culture”: di esse si parla
come cose diverse e divise da un’insuperabile barriera che lascia come unica
possibilità la definizione dei rispettivi spazi di sopravvivenza.
Proviamo a riassumere in soldoni le questioni eluse. Se davvero le
scienze “esatte” fossero una forma di conoscenza strutturalmente basata sul principio
che ogni forma di sapere derivi da esse, allora sarebbe compito di tutti –
scienziati, filosofi, letterati – combattere questa aberrazione. Ma – come
vedremo – la scienza, proprio quella scienza che ha dato la potenza tecnologica
che ha mutato la faccia del mondo, non si è mai basata su un siffatto principio,
salvo che nelle visioni di chi non ne ha mai compreso il legame intimo e
fondante con la filosofia. Perciò, quel che vorrei argomentare è che questa
contrapposizione tra scienza e filosofia (e, in più in generale, tra scienze
“esatte” e il “resto”) non esiste alla radice. Se invece si vuol dire che il
corso che ha preso la ricerca scientifica oggi è di dissolvere progressivamente
la funzione conoscitiva della scienza, esaltando soltanto l’aspetto tecnologico
e virando verso una visione e una prassi puramente manipolativa, allora è
chiaro che saremmo di fronte a qualcosa di molto più grave e serio dell’attacco
alla filosofia: si tratterebbe dell’attacco alla conoscenza, del suo
svilimento, come un inutile orpello di cui la tecnologia può ormai fare a meno.
Le cose stanno proprio in questi termini? È proprio vero che il primato che sta
assumendo la tecnologia – e che dà luogo a quel fenomeno che va sotto il nome
di tecnoscienza – sta dissolvendo progressivamente quella scienza che
conosciamo da alcuni secoli e che ha fondato la modernità? La questione è
aperta e solleva una serie di problemi che debbono interessare chiunque. Difatti,
gli immensi progressi tecnologici che si sono verificati in poco tempo sono
prodotto essenziale di concetti teorici, e non sarebbero pensabili senza la
scienza: l’esempio più clamoroso di questo è dato dall’oggetto tecnologico che
più di ogni altro ha cambiato la faccia del mondo, il computer digitale, che è
essenzialmente un prodotto di modelli teorici (la macchina di Turing e
l’architettura di von Neumann ispirata al modello di McCulloch e Pitts del
funzionamento delle reti neuronali). Sarebbe
quindi del tutto ragionevole temere che, alla lunga, un approccio strumentale e
manipolativo possa condurre a un declino di una tecnologia priva della linfa di
idee nuove. Altri possono ritenere il contrario. Ma è chiaro che una questione
del genere ha un valore enorme e universale. Essa investe sia le prospettive
future della società tecnoscientifica, sia il ruolo della conoscenza: la posta
in gioco è ben altro che definizione di spazi di sopravvivenza da riserva
indiana per la filosofia. Difatti, occorrerebbe chiedersi se in questa riserva
indiana non stia finendo anche la scienza e, in generale, tutta l’attività
conoscitiva e quali possano essere le conseguenze di un simile sviluppo.
Se vogliamo essere obbiettivi va riconosciuto che l’idea di una
contrapposizione tra scienze naturali e matematiche e il “resto” ha avuto da
tempo molti sostenitori. Lo stesso Galileo fu autore di una frasi sfortunata
quando affermò che l’Iliade e l’Orlando Furioso sono opere della fantasia di un
uomo «ne’ quali la meno importante cosa è che quello che vi è scritto sia
vero», lasciando così intendere che nessun valore conoscitivo possa derivare
dalla letteratura. Aveva ragione Alain Finkielkraut a osservare (in “Noi altri,
i moderni”) che «così può nascere l’espressione che non avrebbe avuto alcun
senso per gli umanisti: e tutto il resto è letteratura». Quel che va ricordato
è che questa frase seguiva la celeberrima affermazione di Galileo secondo cui
l’essenza del mondo »è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci
sta aperto innanzi agli occhi (e dico l’universo), ma non si può intendere se
prima non s’impara a intender la lingua, a conoscer i caratteri ne’ quali è
scritto. Egli è scritto in lingua matematica … senza cui è un aggirarsi
vanamente per un oscuro labirinto». A prima vista, si potrebbe pensare che le
due affermazioni siano coerenti: il riduzionismo matematico implicherebbe che
nessuna altra forma di pensiero conduce alla conoscenza del mondo. Ma – a parte
il fatto che Galileo, quando affermava che “il mondo è matematico” pensava al
mondo come “natura”, e non a tutto il “resto” – ponendo a fondamento della sua
scienza un’affermazione come quella, si era messo in mano alla filosofia, anzi
alla metafisica. Esiste asserzione più metafisica de “il mondo è matematico”? Come
ha spiegato Edmund Husserl, trattasi di un’ipotesi assolutamente indimostrabile
e di tipo molto speciale che, se non è assunta come dogma, può sussistere
soltanto se resta perpetuamente appesa al confronto con i fatti, giorno dopo
giorno, potendo sempre essere confutata. E, in effetti, se i trionfi della
fisica classica hanno dato ossigeno all’ipotesi che “il mondo è matematico”, se
la forza predittiva della fisica post-classica le hanno ridato fiato dopo una
fase di grave crisi, l’estensione del concetto di “mondo” al di là della sfera
naturale è stato come scendere nelle sabbie mobili. Chi potrebbe seriamente
sostenere che i modestissimi risultati conseguiti nel campo dei fenomeni
biologici, economici, sociali abbiano convalidato l’ipotesi che il mondo (tutto
il mondo) è matematico?
Ma lasciamo questa tematica e atteniamoci a un punto indiscutibile.
L’ipotesi metafisica che “il mondo è matematico” è stata la base di partenza
della scienza moderna. Una pessima divulgazione accredita l’immagine falsa di
un Galileo che costruisce la scienza a partire dall’osservazione empirica, a
differenza dall’approccio “metafisico” della fisica aristotelica. È esattamente
il contrario, come ha mostrato in un bel saggio Thomas Kuhn. Galileo parte da
ipotesi matematiche e quindi le confronta mediante un processo di verifica, da
brillante sperimentatore qual è, mediante l’esperimento, il “cimento”. Chi non
ha chiaro questo non ha capito nulla della scienza moderna e confonde il metodo
sperimentale con l’empirismo.
La situazione è stata perfettamente descritta dal grande storico della
scienza Alexandre Koyré: «Una
scienza di tipo aristotelico, che parte dal senso comune e si basa sulla
percezione sensibile, non ha bisogno di appoggiarsi a una metafisica. Essa vi
conduce, non parte da questa. Una scienza di tipo cartesiano, che postula il
valore reale del matematismo, che costruisce una fisica geometrica, non può
fare a meno di una metafisica. E anzi, non può far altro che cominciare da
essa. Cartesio lo sapeva, come lo sapeva anche Platone che, per primo, aveva
abbozzato una scienza di questo tipo. L’abbiamo dimenticato. La nostra scienza
va avanti senza occuparsi molto dei suoi fondamenti. Il suo successo le basta
fino al giorno in cui una “crisi” – una “crisi dei principi“ - le rivela che le
manca qualcosa, cioè capire ciò che fa».
È una descrizione talmente chiara e penetrante che
il discorso circa i rapporti tra scienza e filosofia potrebbe essere interrotto
qui e potremmo andarcene tutti a casa: l’architrave della scienza moderna è una
metafisica e se ci scopriamo disorientati di fronte a una “crisi” è proprio
perché l’abbiamo dimenticato e crediamo di poter andare avanti senza
preoccuparci dei fondamenti. Nella fattispecie, credere di poter andare avanti
senza ripensare continuamente l’ipotesi “il mondo è matematico” – oppure
contrabbandandola come una verità di fatto – è come mettersi una benda davanti
agli occhi.
Purtroppo esiste la tendenza diffusa da parte di
parecchi scienziati e cattivi divulgatori a far credere che la scienza sia
un’attività di mera osservazione empirica. Si tratta di cattivi scienziati che
cercano di sbarazzarsi degli aspetti teorici, da un lato perché intralciano la
velocità nella produzione di “risultati”, dall’altro perché riconducono a
riflessioni troppo vicine alla filosofia: come osservava tempo fa una rivista di
divulgazione statunitense, esiste una pressione intimidatoria per cui un
ricercatore che si occupi di questioni filosofiche o di fondamenti rischia di
essere considerato come un signore che viene pescato all’uscita di un cinema
pornografico.
I veri scienziati non hanno mai ragionato e non
ragionano così. Disse Leonardo da Vinci – e chi più di lui può essere
considerato un cultore della “pratica”, un ingegnere ante litteram? – che «quelli che s’innamoran di pratica senza scienza son come ‘l nocchier ch'entra
in navilio senza timone o bussola, che mai ha certezza dove si vada»,
ammonendo: «Studia prima la scienza, e poi seguita la pratica, nata da essa
scienza». Già sappiamo che si risponderà trattarsi di roba “vecchia”. Altrettanto
non può dirsi di uno scienziato come Albert Szent-Gyorgy, anche lui tutt’altro
che un teorico “puro”, visto che gli dobbiamo la vitamina C, ma anche un
fulminante aforisma: «Lo scoprire consiste nel vedere ciò che tutti hanno visto
e nel pensare ciò che nessuno ha pensato». Quindi, nella scienza il pensare
viene avanti tutto, senza di che non avremmo una linea su cui orientare
l’analisi della realtà empirica. Lo sapeva bene il grande Claude Bernard, che
meglio di chiunque codificò i principi del metodo sperimentale e che considerava
imprescindibile la riflessione su temi cruciali (e prettamente filosofici) come
il determinismo.
Ancora un riferimento a roba “vecchia”? E allora andiamo a uno dei
fondatori della biologia molecolare contemporanea, François Jacob. Egli propose
una critica radicale di un concetto come il “quoziente intellettivo”, QI: «Come
si può sperare di quantificare ciò che viene designato come intelligenza
globale – che non riusciamo neppure a definire chiaramente e che comprende
elementi tanto disparati come la rappresentazione che ci facciamo del mondo e
delle forze che lo reggono, la capacità di reagire a congiunture variate in
condizioni variate, la larghezza di vedute, la rapidità nel cogliere tutti gli
elementi di una situazione e nel prendere una decisione, il potere di cogliere
analogie più o meno nascoste, di confrontare ciò che a prima vista è
inconfrontabile, e altre cose ancora – come si può sperare di quantificare un
siffatto insieme di proprietà tanto complesse con un singolo
parametro che varia linearmente?». E aggiungeva: «Come se la cosa più
importante nella scienza fosse misurare, quale che sia l’oggetto di queste
misure! Come se, nel dialogo tra la teoria e l’esperienza, la parola fosse in
primo luogo ai fatti! Una simile credenza è semplicemente falsa. Nel procedere
scientifico è sempre la teoria ad avere la prima parola. I dati sperimentali
non possono essere acquisiti, non assumono significato, altro che in funzione
di questa teoria».
Potremmo
continuare ad libitum con le citazioni. L’unico modo di esorcizzarle sarebbe
voltarsi dall’altra parte e ignorare che coloro che le hanno formulate sono
scienziati cui dobbiamo proprio quella tecnoscienza che ha cambiato la faccia
del mondo: computer digitale, informatica, biologia molecolare, genetica. Essi
insegnano che la scienza e l’empirismo si collocano su estremità opposte e che
l’idea di poggiare la formazione scientifica, anche a livello scolastico, sul
secondo è un errore gravissimo. Per esempio, sarebbe un fatto altamente
positivo che ogni scuola possieda un laboratorio di scienze. Ma perché serva a
qualcosa occorrerebbe entrarvi per confrontare delle conoscenze teoriche
apprese prioritariamente con l’esperimento: senza saper pensare dalla mera
osservazione di ciò che tutti possono vedere non esce un bel niente. Per secoli
e secoli si sono osservati i corpi in caduta libera e nessuno è mai riuscito a
ricavarne una legge quantitativa: ciò è accaduto quando Galileo l’ha formulata
come ipotesi matematica generale (“matematica purissima”, con le sue parole) e
quindi l’ha convalidata nel confronto con i fatti, tramite esperimenti: e un esperimento non è
mai mera osservazione, ma una costruzione ideata per “interrogare” efficacemente
la natura.
È un apparente
paradosso che l’importanza, anzi la necessità strategica del pensiero teorico,
sia chiara soprattutto a coloro che lavorano più a contatto con la tecnologia,
come gli ingegneri e che costoro, più di altri, siano consapevoli che
un’avanzata, per esempio nel campo della progettazione di nuovi sistemi di trasporto,
richieda un ripensamento teorico. Altri pensano, invece, che la tecnologia
possa procedere più rapidamente se libera dell’“impaccio” del lento procedere
della ricerca di base. Ma è legittimo chiedersi se il deperimento di
quest’ultima non possa produrre non tanto un deperimento della tecnologia,
quanto un suo procedere caotico, come una macchina impazzita: potremmo
argomentare che ve ne sono già tutti i segni, ma la discussione è aperta. O
meglio, dovrebbe essere aperta.
A questo punto,
è da confidare che non abbia spazio la domanda: cosa c’entra tutto questo con
la filosofia, e più in generale, con le scienze umane? Non sapremmo più
cos’altro dire se non risulta evidente che una scienza che sia capace di
ripensare continuamente i propri fondamenti teorici ha un assoluto bisogno di
pensiero filosofico. Sono assolutamente convinto che abbia ragione Roberto
Esposito quando dice che abolendo la filosofia si abolisce il pensiero critico
dalla scuola e dall’università, e quindi dalla società. Andrei anche più in là,
dicendo che, colpendo il pensiero critico, con la scomparsa della filosofia e
la marginalizzazione delle scienze umane, si finisce col colpire la democrazia.
Ma non esiste alcuna soluzione a compartimenti stagni: garantire alla filosofia
uno spazio, sia pur dignitoso, da riserva indiana, non garantisce la
sopravvivenza dello spirito critico. La tecnoscienza è ormai qualcosa di troppo
potente e pervasivo della società per pensare che possa sopravvivere uno
spirito critico se esso non sopravvive anche essa, ovvero se non sopravvive la
scienza come grande progetto di conoscenza. È quindi questo il primo dovere di
tutti, senza divisione di compiti e di zone d’influenza; ché poi è l’unico modo
di difendere una visione umanistica di cui le nostre società hanno assoluto
bisogno per avere un futuro.
14 commenti:
Una delle riflessioni più lucide lette finora. Grazie infinite professore!
Mauro
Ovviamente condivido ogni parola. Bisognerebbe innescare da qualche parte un processo virtuoso. Tornare indietro è andare avanti! Grandi progressi nelle scienze si sono avuti quando l'Europa nascente (o non ancora nata) recuperò:
nel XII secolo lo studio del latino classico, con l'apertura di grandi scuole laiche e religiose nei più importanti centri urbani;
nel XV secolo lo studio del greco e dei suoi testi, accogliendo gli studiosi in fuga da Bisanzio e inaugurando una stagione lunghissima di fioritura artistica, tecnica, scientifica e filosofica.
Oggi la cultura è banalizzata. La scuola subisce le pressioni dei modelli spettacolo-intrattenimento e si ha quasi paura di proporre ai giovani l'ideale dello studio.
Dopo la scuola-collettivo, la scuola-socializzazione, la scuola-azienda sarebbe il caso di tornare alla scuola-studio ...
E' da quando ero liceale (scientifico) che sento dire che il liceo classico è la scuola formativa per eccellenza. Sentivo anche dire che studiare il latino aiuta a studiare matematica: a me pare vero il contrario, visto che i miei colleghi, docenti di latino, di matematica non ricordano nulla, o non l'hanno mai capita, mentre io un testo semplice di latino riesco ancora a tradurlo senza vocabolario.
Lasciando da parte l'ovvio (cioè che lo studio e la frequenza di un luogo in cui si impara a convivere, collaborare con altre persone e rispettare delle regole sono formativi a prescindere dalla disciplina studiata), vorrei sommessamente fare notare ai sostenitori della teoria "il liceo classico è il più formativo" due cose:
1) gran parte del mondo riesce a fare a meno della cultura latina e greca senza subirne danni incalcolabili;
2) i nostri licei (classici, per lo più) hanno prodotto una delle classi dirigenti più modeste (eufemismo) dell'occidente industrializzato.
Non mi pare che ci sia molto di cui essere orgogliosi.
No: le élites di gran parte del mondo si formano sulle loro proprie culture classiche (che non sono ovviamente quella greca e latina), p. es. cinese, giapponese etc.: quindi il paragone va fatto fra chi ha un certo tipo di formazione storico-critica-linguistica all'interno della propria tradizione e chi non ce l'ha. I modesti risultati prodotti dai nostri licei sono frutto di un processo almeno quarantennale che ha reso sempre più superficiale l'insegnamento. Non c'è nulla di modesto in una mente seriamente formata sui testi classici. Ciò non esclude né ridimensiona in alcun modo il ruolo della matematica.
L'idea che proprio uno come me (che ha scritto Pensare in matematica) voglia il ridimensionamento della matematica e delle scienze fa venire da ridere. Fare una contrapposizione tra cultura scientifica e filosofica è non aver capito un acca di quel che è scritto nell'articolo (qualsiasi cosa se ne pensi).
Caro Professore, se il suo commento è rivolto a me, mi spiace di non essere stato abbastanza chiaro: non mi riferivo certo a lei, ma ai tanti che considerano la matematica e le scienze come discipline inferiori e non formative.
Non era rivolto a lei. Era una considerazione generale.
E' stranissimo (malafede del potere? Ignoranza dei tempi?) creare contrapposizioni tra discipline che vanno a braccetto. La grammatica delle lingue, tra l'altro, è la più formalizzabile tra le discipline umanistiche. Per una mente giovane imparare lingue a flessione di caso è un esercizio logico davvero notevole. Gli ideali educativi proposti dal prof. Israel mi sembrano l'unica strada sensata per proporre una scuola che non ricalchi i modelli di intrattenimento-appiattimento correnti.
Mac 67: "I nostri licei (classici, per lo più) hanno prodotto una delle classi dirigenti più modeste (eufemismo) dell'occidente industrializzato".
E' vero, ma hanno anche prodotto un notevole flusso di lavoro qualificato e di ricerca verso Paesi stranieri, tanto da far parlare di "fuga dei talenti" (termine che preferisco a quello concernente i cervelli). Basta ascoltare l'omonima trasmissione di Radio24 per deprimersi ogni sabato.
Resta dunque il dubbio se la colpa sia davvero tutta dei nostri Licei (pur in parte malridotti per il processo citato da Unknown) oppure non c'entri qualcosa il modo nel quale la classe dirigente viene selezionata.
Sì: un po' buffoni, un po' drogati, un po' donnaioli. In generale, adatti a raggiungere una certa posizione, non necessariamente a fare il bene del paese.
Anche i miei studenti migliori (tutti classicheggianti) sono da tempo migrati verso altri lidi, e questo per una precisa volontà politica.
Per Papik.f:
La nostra scuola riesce nel "miracolo" di sfornare studenti con prestazioni mediamente poco soddisfacenti nei test internazionali e al tempo stesso di fornire le basi ai "talenti in fuga". Ho notato da tempo questa cosa e la risposta che mi sono dato è la seguente: la nostra scuola, nonostante tutte le riforme fatte nel corso degli anni, non è mai diventata "scuola di massa", ma è rimasta, nella sua essenza, scuola per pochi. L'alunno che ha buone capacità trarrà il meglio dalla scuola italiana e avrà un sicuro vantaggio in confronto ai pari grado di altri paesi; chi invece ha capacità limitate, arrancherà senza miglioramenti sostanziali.
La classe dirigente viene sicuramente selezionata male, ma bisogna pure dire che la selezione la fanno i cittadini.
Mac 67, potrei anche essere d'accordo sulla prima parte, se non fosse per il particolare che credo molto meno di lei nell'attendibilità dei test internazionali.
Ma per quanto riguarda il fatti che la selezione della classe dirigente la facciano i cittadini, mi verrebbe da dire "ma quando mai?" A meno che lei non si riferisca alla classe politica e alle elezioni, ma non è questo secondo me l'aspetto principale, né è questa la vera classe dirigente. Ogni classe dirigente, come diceva non ricordo più chi (Gaetano Mosca?), tende a diventare ereditaria se non si introducono delle contromisure. In Italia, dopo il sessantotto, quel poco di contromisure che c'erano (per insufficienti che fossero) sono completamente saltate. Quindi la nostra classe dirigente tende a perpetuarsi per familismo degradandosi progressivamente. E chi non fa parte del "giro" per ereditarietà è, salvo eccezioni, costretto ad andarsene, come è facile appurare ascoltando i racconti fatti nella trasmissione che citavo sopra.
In tutto questo temo che la formazione, liceale o meno, c'entri ben poco.
E' anche la mia impressione. Quello che in Italia manca sono alcune regole che renderebbero la macchina scolastica meno farraginosa: stabilire un massimo di 20/25 alunni per classe. Stabilire la continuità dei supplenti (come si fa in Svizzera); evitare di immettere personale per meriti extra-professionali. Non so quanti studenti mi raccontano di aver cambiato docente in ogni anno di scuola superiore o di non aver fatto quello che era previsto dai programmi.
Per Papik.f: Per non dilungarmi, ho finito per non spiegarmi bene.
In primo luogo, non do alle prove internazionali la rilevanza che lei ha desunto dal mio intervento: ritengo che il lavoro in classe e le molte valutazioni che noi docenti facciamo valgano di più di una singola prova, come le prove Invalsi, OCSE-PISA, ecc.; ritengo però che quando gli esiti di queste prove sono deludenti, come spesso è il caso, purtroppo un significato ce l'hanno e non andrebbe liquidato con un'alzata di spalle o consolandosi con l'inadeguatezza delle prove.
Sulla selezione della classe dirigente: naturalmente lei ha ragione a sottolineare che i politici ne sono solo una parte. Con gradi di responsabilità diverse, la selezione la fanno le scuole, con la loro valutazione, le università, gli ordini professionali, le associazioni di categoria, ecc.. I loro componenti sono "cittadini", non attori privati, quando adempiono ai loro compiti. E' a questo che mi riferivo.
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