L'interminabile crisi del meccanicismo è ben visibile oggi
Continua
a parlare e a far parlare di sé Giorgio Israel, intellettuale di rango che ci
ha lasciato pochi mesi fa, con un suo libro postumo, uscito per la Zanichelli
in questi giorni: Meccanicismo. Trionfo e miserie della visione meccanica del
mondo.
Solo un
profondo conoscitore della storia del pensiero scientifico (e non solo) come
lui poteva addentrarsi efficacemente nel racconto di una visione del mondo, quella
meccanicistica, che tanto ha condizionato e condiziona il dibattito su ciò che
è l’essere umano, su che cosa sono i processi biologici, su che cosa sia il
cervello. La riduzione dell’universo a macchina, pur meravigliosa, ha avuto
come esito inevitabile una lettura della natura e dell’umano in chiave
materialistica, di cui pagina dopo pagina, secolo dopo secolo, Israel denuncia contraddizioni
e problematiche tuttora irrisolte.
Lo fa
presentandoci e spiegandoci il ricchissimo dibattito e confronto di idee e di
domande che si sono sviluppati intorno a questa tematica, in quella che
l’autore definisce una “interminabile crisi”: il meccanicismo è un concetto di
breve successo che però è riuscito ad arrivare ai nostri giorni, segnandoli
pesantemente, e promette di andare oltre.
I giorni
nostri sono quelli in cui, dalle neuroscienze ai criteri di valutazione della
ricerca scientifica, l’approccio meccanicistico riduce la complessità del reale
a modelli matematici, ad algoritmi che pretendono di essere l’unica chiave di conoscenza.
Un tempo, il nostro, in cui si pretende che solo quantificandola in qualche
modo la realtà possa essere conoscibile, mentre, per dirla con il filosofo
francese Alain Finkielkraut, “tutto il resto è letteratura”: ciò che esula dal
linguaggio matematico - intuizione, parola - sono inutili chiacchiere, buone
per sfaccendati.
E invece,
spiega Israel, la matematica ridotta a unico strumento di misura di tutto il
reale risulta svuotata della sua potenza speculativa e non riesce neppure ad
assolvere al compito minimale della misurazione stessa. Lo dimostra brillantemente
egli stesso, per esempio entrando nel merito di alcuni esperimenti – inadeguati - nell’ambito delle
neuroscienze, nei quali si è cercato di capire se ognuno di noi è libero di
scegliere o è predeterminato da processi neuronali. Sono stati messi sullo
stesso piano fenomeni che coinvolgono l’attività cerebrale, di cui si può
quantificare la durata, con processi irriducibili a qualsiasi modello
matematico, come la “consapevolezza” e la “decisione”. Si è cercato cioè di
individuare il “momento di una decisione” come fosse un tempo misurabile e
rappresentabile con un punto su una retta, e non invece un’esperienza
personale che può essere solo narrata, e che non ha niente a che fare con scale
temporali numerabili.
Per
Israel, l’esito finale del meccanicismo è l’uomo visto come complessità
biofisica di corpo e genoma e neuroni, modificabili: sono, i nostri giorni,
quelli del trionfo della tecnoscienza – un termine coniato dall’epistemologo
Hottois che Israel stesso ha portato nel dibattito pubblico italiano, e che
indica la trasformazione della tecnica, divenuta indipendente dalla ricerca
scientifica speculativa e tutta tesa a migliorare performance operative senza
approfondirne più di tanto il perché. “Basta che funzioni”, sintetizzerebbe
Woody Allen, ma Israel mette in guardia: “Non conosciamo alcuno sviluppo
tecnologico importante che non si sia basato su elaborazioni teoriche”, e
soprattutto non conosciamo un’umanità che non si chieda il senso della sua
esistenza e del mondo che la circonda. Una domanda che non si può misurare.
Assuntina Morresi su Avvenire, 2 gennaio 2016