L’anno
scolastico inizia con una buona notizia: la decisione di sopprimere il “bonus
maturità” che aveva suscitato tante critiche ed era funzionale solo
all’appiattimento verso il basso del sistema scolastico e al declino dei licei.
In tal modo, le selezioni per i successivi processi di formazione saranno
frutto di valutazioni autonome e non condizionate da criteri automatici
aberranti, secondo un’idea corretta della valutazione: il miglioramento del
sistema non deriva da procedure burocratiche ma da valutazioni incrociate e
indipendenti.
Se
questa scelta del ministro è una buona notizia, l’anno scolastico si apre con tanti
problemi tra cui ne ricordiamo due particolari e uno generale. Il primo riguarda
le degradate strutture scolastiche: è opportuno che le poche risorse
disponibili siano convogliate nella riqualificazione del patrimonio edilizio,
per rendere dignitosa la vita di studenti e insegnanti. Il secondo problema nasce
da un’indicazione fornita dal ministro nella sua recente intervista al Mattino:
«bocciare sia una scelta estrema». Non c’è dubbio: solo un sadico può
considerare la bocciatura come un esito auspicabile. È giusto indicare come
priorità il successo formativo. Tuttavia, denotare la bocciatura come “scelta
estrema” può essere interpretato come un invito all’indulgenza, a promuovere
tutti salvo casi patologici; e può avere effetti negativi. È noto che parecchi genitori
pretendono dalla scuola il successo formativo “garantito” e tendono a farsi
sindacalisti dei figli. La trasformazione della scuola in un supermercato che
fornisce prodotti con la garanzia della soddisfazione del consumatore
(“customer satisfaction”) sottrae agli insegnanti ogni strumento per
incentivare il rendimento degli studenti. D’altra parte, se la promozione
dovesse diventare automatica (o quasi), quale studente si sentirebbe stimolato
a rendere il massimo quando vede che basta un impegno minimo per andare avanti?
È vano parlare di “meritocrazia” – un brutto termine che andrebbe sostituito
con “premio del merito” – se si offre una prospettiva vantaggiosa ai
comportamenti pigri e minimali. Il premio del merito e la sanzione del demerito
sono condizioni essenziali per la sopravvivenza della scuola.
Di
qui una problematica più generale su cui è improcrastinabile una scelta di
fondo che possiamo riassumere in questa alternativa: si vuole che la scuola sia
un centro d’istruzione oppure un luogo di educazione sociale complessiva? La
prima veduta è, a mio avviso, l’unica consona a una democrazia liberale: si
forniscono agli studenti conoscenze e capacità adatte a compiere liberamente e
autonomamente le loro scelte nella vita. La seconda è più consona a una visione
totalitaria: la scuola invece di limitarsi a trasmettere conoscenze e creare capacità,
interviene nel forgiare le personalità, assume un ruolo di costruzione sociale.
Si conceda pure che, nel nostro paese, questa veduta è intesa in modo più che
altro assistenziale. Ma esiste la perniciosa tendenza a fare della scuola un
complesso di centri sociali che dovrebbero assolvere a una gran quantità di
funzioni, e persino a surrogare quelle della famiglia e a intervenire nei
problemi psicologici e medici dei soggetti in modo eccessivo.
Quando
venne approvata la normativa dei DSA (Disturbi Specifici di Apprendimento)
fummo in molti a paventarne i rischi. Purtroppo, le cose vanno peggio del
previsto: il numero di diagnosi di DSA aumenta a dismisura, probabilmente per
il desiderio di certe famiglie di garantire un percorso semplificato ai loro figli,
per la pigrizia di alcuni insegnanti e gli interessi di alcune corporazioni. La
medicalizzazione della scuola sta progredendo in modo inquietante, riducendo
sempre di più gli spazi disciplinari. Ma i DSA rischiano di essere poca cosa
rispetto alla valanga che promettono di essere i BES (Bisogni Educativi Speciali).
La loro recente normativa trasforma la funzione istituzionale della scuola da
centro d’istruzione a ente assistenziale globale. Essa prevede che «ogni
alunno, con continuità, o per determinati periodi, possa manifestare BES: o per
motivi fisici, biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici, sociali,
rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata
risposta». Entro una simile definizione non si sa che cosa non possa rientrare.
Non esiste una sola istituzione che abbia tante funzioni! L’insegnante verrà
sommerso da una miriade di attività, coinvolto in una moltiplicazione
parossistica di organismi, quale il GLI (Gruppo di Lavoro per l’Inclusione),
composto da “educatori culturali”, “assistenti alla comunicazione, genitori,
esperti istituzionali o in convenzione che dovrà nientemeno che formulare un
Piano Annuale per l’Inclusività (PAI). È lecito chiedersi cosa mai resterà
della didattica disciplinare in tutto questo. Il solo menzionare parole come
“storia”, “matematica” o “italiano” di fronte al colosso universale dell’“inclusività”
suona derisorio. Ricevo lettere sconsolate di docenti che già vivono con
sofferenza il degrado della loro figura e immaginano cosa succederà con i BES.
Come nel caso della “meritocrazia”, si promette di restituire dignità al ruolo
dell’insegnante e poi si agisce in senso opposto. Ma, soprattutto, è
ragionevole attribuire alla scuola il compito universale di risolvere qualsiasi
problema della vita dei singoli? È un costruttivismo sociale paranoico che
nessun organismo, neppure la società nel suo complesso, può assolvere, né
dovrebbe assolvere. È il caso di fermarsi prima di imboccare con tanta
leggerezza una svolta epocale che – è facile profezia prevederlo – può finire
solo in un insuccesso clamoroso che travolgerà nelle rovine anche la funzione
dell’istruzione.
(Il Mattino,
8 settembre 2013: col titolo Ora più
maestri e meno educatori).
(Il
Messaggero, 8 settembre 2013: col
titolo «Addio bonus maturità: la scuola ritrova l’anima”).