domenica 8 settembre 2013

La scuola al bivio: istruzione o assistenza sociale



L’anno scolastico inizia con una buona notizia: la decisione di sopprimere il “bonus maturità” che aveva suscitato tante critiche ed era funzionale solo all’appiattimento verso il basso del sistema scolastico e al declino dei licei. In tal modo, le selezioni per i successivi processi di formazione saranno frutto di valutazioni autonome e non condizionate da criteri automatici aberranti, secondo un’idea corretta della valutazione: il miglioramento del sistema non deriva da procedure burocratiche ma da valutazioni incrociate e indipendenti.
Se questa scelta del ministro è una buona notizia, l’anno scolastico si apre con tanti problemi tra cui ne ricordiamo due particolari e uno generale. Il primo riguarda le degradate strutture scolastiche: è opportuno che le poche risorse disponibili siano convogliate nella riqualificazione del patrimonio edilizio, per rendere dignitosa la vita di studenti e insegnanti. Il secondo problema nasce da un’indicazione fornita dal ministro nella sua recente intervista al Mattino: «bocciare sia una scelta estrema». Non c’è dubbio: solo un sadico può considerare la bocciatura come un esito auspicabile. È giusto indicare come priorità il successo formativo. Tuttavia, denotare la bocciatura come “scelta estrema” può essere interpretato come un invito all’indulgenza, a promuovere tutti salvo casi patologici; e può avere effetti negativi. È noto che parecchi genitori pretendono dalla scuola il successo formativo “garantito” e tendono a farsi sindacalisti dei figli. La trasformazione della scuola in un supermercato che fornisce prodotti con la garanzia della soddisfazione del consumatore (“customer satisfaction”) sottrae agli insegnanti ogni strumento per incentivare il rendimento degli studenti. D’altra parte, se la promozione dovesse diventare automatica (o quasi), quale studente si sentirebbe stimolato a rendere il massimo quando vede che basta un impegno minimo per andare avanti? È vano parlare di “meritocrazia” – un brutto termine che andrebbe sostituito con “premio del merito” – se si offre una prospettiva vantaggiosa ai comportamenti pigri e minimali. Il premio del merito e la sanzione del demerito sono condizioni essenziali per la sopravvivenza della scuola.
Di qui una problematica più generale su cui è improcrastinabile una scelta di fondo che possiamo riassumere in questa alternativa: si vuole che la scuola sia un centro d’istruzione oppure un luogo di educazione sociale complessiva? La prima veduta è, a mio avviso, l’unica consona a una democrazia liberale: si forniscono agli studenti conoscenze e capacità adatte a compiere liberamente e autonomamente le loro scelte nella vita. La seconda è più consona a una visione totalitaria: la scuola invece di limitarsi a trasmettere conoscenze e creare capacità, interviene nel forgiare le personalità, assume un ruolo di costruzione sociale. Si conceda pure che, nel nostro paese, questa veduta è intesa in modo più che altro assistenziale. Ma esiste la perniciosa tendenza a fare della scuola un complesso di centri sociali che dovrebbero assolvere a una gran quantità di funzioni, e persino a surrogare quelle della famiglia e a intervenire nei problemi psicologici e medici dei soggetti in modo eccessivo.
Quando venne approvata la normativa dei DSA (Disturbi Specifici di Apprendimento) fummo in molti a paventarne i rischi. Purtroppo, le cose vanno peggio del previsto: il numero di diagnosi di DSA aumenta a dismisura, probabilmente per il desiderio di certe famiglie di garantire un percorso semplificato ai loro figli, per la pigrizia di alcuni insegnanti e gli interessi di alcune corporazioni. La medicalizzazione della scuola sta progredendo in modo inquietante, riducendo sempre di più gli spazi disciplinari. Ma i DSA rischiano di essere poca cosa rispetto alla valanga che promettono di essere i BES (Bisogni Educativi Speciali). La loro recente normativa trasforma la funzione istituzionale della scuola da centro d’istruzione a ente assistenziale globale. Essa prevede che «ogni alunno, con continuità, o per determinati periodi, possa manifestare BES: o per motivi fisici, biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici, sociali, rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta». Entro una simile definizione non si sa che cosa non possa rientrare. Non esiste una sola istituzione che abbia tante funzioni! L’insegnante verrà sommerso da una miriade di attività, coinvolto in una moltiplicazione parossistica di organismi, quale il GLI (Gruppo di Lavoro per l’Inclusione), composto da “educatori culturali”, “assistenti alla comunicazione, genitori, esperti istituzionali o in convenzione che dovrà nientemeno che formulare un Piano Annuale per l’Inclusività (PAI). È lecito chiedersi cosa mai resterà della didattica disciplinare in tutto questo. Il solo menzionare parole come “storia”, “matematica” o “italiano” di fronte al colosso universale dell’“inclusività” suona derisorio. Ricevo lettere sconsolate di docenti che già vivono con sofferenza il degrado della loro figura e immaginano cosa succederà con i BES. Come nel caso della “meritocrazia”, si promette di restituire dignità al ruolo dell’insegnante e poi si agisce in senso opposto. Ma, soprattutto, è ragionevole attribuire alla scuola il compito universale di risolvere qualsiasi problema della vita dei singoli? È un costruttivismo sociale paranoico che nessun organismo, neppure la società nel suo complesso, può assolvere, né dovrebbe assolvere. È il caso di fermarsi prima di imboccare con tanta leggerezza una svolta epocale che – è facile profezia prevederlo – può finire solo in un insuccesso clamoroso che travolgerà nelle rovine anche la funzione dell’istruzione.

(Il Mattino, 8 settembre 2013: col titolo Ora più maestri e meno educatori).
(Il Messaggero, 8 settembre 2013: col titolo «Addio bonus maturità: la scuola ritrova l’anima”).

martedì 3 settembre 2013

Bonus Maturità: penalizzati i licei classici


Nel giugno scorso esplose la polemica circa le conseguenze di una normativa ideata dall’ex ministro dell’istruzione Francesco Profumo che stabiliva che, per accedere ai corsi di laurea a numero chiuso, i candidati dovessero ottenere almeno 80/100 all’esame di maturità ed essere messi in graduatoria con un punteggio in centesimi di cui fino a 90 risultanti dall’esito del test di ammissione e fino a 10 dal voto di maturità. Quest’ultimo è il “bonus maturità”, calcolato con un meccanismo complicato che prevede il ricorso a un immenso tabulato ministeriale che specifica gli incrementi scuola per scuola. Ne parlammo sul Mattino (3 giugno) in un articolo intitolato “La maturità e il bonus premia-ciucci”, perché era facile constatare che era quasi impossibile ottenere un “bonus” di qualche consistenza in scuole notoriamente eccellenti, mentre era possibile ottenerne elevati in scuole mediocri. Si prospettava uno squallido appiattimento assortito da ingiustizie scandalose.
In risposta alle critiche fu varato il 12 giugno un decreto sostitutivo che lasciava sperare in un miglioramento della situazione, anche se l’impianto di fondo veniva conservato. Ora il MIUR ha pubblicato le tabelle per il calcolo del “bonus” e occorre mestamente confermare il vecchio adagio che il peggio non è mai morto.
Non disponiamo dello spazio e del sadismo per imporre al lettore una disamina tecnica degli esiti dei calcoli ministeriali né pretendiamo che il lettore ci creda sulla parola: può fare dei calcoli da solo, sulla base dei dati del sito Universitaly, o rifarsi alle analisi pubblicate sul sito www.roars.it. Potrà constatare che la tendenza “premia-ciucci” del modello precedente non è affatto superata ma, anzi, che emerge un’altra tendenza inquietante: una durissima penalizzazione dei licei, e in particolare dei licei classici, a favore degli istituti tecnici e professionali. Come mostrano i calcoli del sito Roars uno studente di un tipico istituto professionale che abbia conseguito la maturità con 86/100 avrebbe diritto a un bonus di 3 punti mentre uno studente di un tipico liceo classico con voto di maturità 92/100 avrebbe diritto a un bonus nullo. Inoltre la probabilità di avere un bonus è massima negli istituti professionali e via via scende per raggiungere il minimo nel liceo classico, preceduto di poco dallo scientifico. La penalizzazione quindi investe soprattutto i licei e con particolare durezza i classici.
Appena pochi giorni fa abbiamo denunciato sul Mattino (“Perché se muore il liceo classico muore il paese”, 25 agosto), la brutta tentazione di disseccare i licei, cominciando dalla distruzione del classico, a favore della formazione diretta di figure aziendali. Anche se un personaggio di ambito imprenditoriale come Corrado Passera proclama le virtù del liceo classico (“che aiuta a sviluppare lo spirito critico, sempre più necessario vista la quantità enorme di informazione e posizioni opposte da cui siamo bombardati e insegna a gestire la complessità») altri puntano a far fuori la formazione umanistica, a costo di colpire di striscio i licei scientifici. Per cui è lecito il sospetto che questa incredibile normativa sia ispirata da intenti dal genere.
Ma forse è dare troppo credito a chi ha congegnato questa ennesima tappa dello sfascio inarrestabile del sistema dell’istruzione. È più probabile che si tratti di qualcosa di assai più mediocre, anche se dagli effetti devastanti. È chiaro che il mito dei numeri come portatori di “esattezza” è pericoloso. Ma in un paese primo erede dello spirito di Bisanzio, in cui l’amministrazione è dominata dalla mentalità dell’azzeccarbuglio e del gusto della complicazione cavillosa, esso può diventare una miscela esplosiva, soprattutto se patrocinato da pseudo-esperti che si presentano come portatori della pietra filosofale dell’oggettività “scientifica”. Forse sarebbe il caso di smetterla di rendersi ridicoli con il ritornello sull’“oggettività” e la “standardizzazione”, che non esistono neppure in matematica, figuriamoci nella valutazione delle “performances” soggettive.
Si dice, giustamente, che i giudizi delle commissioni sono troppo diversi da zona a zona. Ma è tragicomico che, tentando di “normalizzarli” con un modello numerico, si finisca col creare altre disparità e conseguenze peggiori. Nessuna sorpresa: si tratta di marchingegni discutibili, esattamente come i test che sostituiscono la soggettività di un giudicante diretto a quella del preparatore dei test. Questo significa che non c’è nulla da fare e che bisogna arrendersi al caos del giudizi soggettivi? Al contrario. Significa soltanto che bisogna proporsi di migliorare realisticamente il sistema – non è scienza ma ideologia cercare di mettere le brache al mondo con i propri modellini – mettendo in opera un sistema di valutazioni a tutti i livelli e di natura diversa: dai giudizi delle commissioni, ai test (con parsimonia), alle prove d’ingresso (inclusi i colloqui orali), alle valutazioni degli insegnanti e delle scuole con sistemi di ispezioni incrociati, ecc.
Un caldo appello al ministro: colga l’occasione per invertire l’andazzo con un atto di coraggio, ovvero col definitivo affossamento dello sciagurato “bonus” della maturità. Si lascino liberi i corsi universitari a numero chiuso di procedere a una rigorosa selezione in base a un esame d’ingresso; oppure – ancor meglio – si adotti il sistema francese: selezione dopo un primo anno universitario, e tirocinio nel caso delle facoltà di medicina. Ma la distruzione finale della scuola, e soprattutto dei licei, sull’altare di una numerologia da strapazzo è un lusso che non ci si può permettere.

(Il Mattino, 3 settembre 2013)

domenica 1 settembre 2013

Una conferma sul valore del liceo classico da parte di una persona al disopra di ogni sospetto

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lunedì 26 agosto 2013

Perché se muore il liceo classico muore il paese


Da un lato un boom di iscritti ai test d’ingresso al Politecnico di Milano e una propensione per le lauree di ingegneria o direttamente correlate a una professione definita; dall’altro, un declino delle iscrizioni ai licei, in particolar modo al liceo classico. Alcuni commenti salutano questi dati come espressione di una tendenza positiva verso la “laurea utile”, verso l’abbandono delle propensioni “generaliste”, verso una preparazione corrispondente alle figure richieste dalle aziende. A noi sembra invece che la valutazione vada divisa: ottima è la prima tendenza, perché la rivalutazione delle professioni ingegneristiche e tecnologiche anche a livello della formazione professionale, è essenziale per un paese in via di declino industriale; pessima è la seconda tendenza per motivi che dovrebbe essere superfluo dire. Come può un paese che possiede più della metà dei beni culturali, artistici, architettonici del mondo non preoccuparsi di coltivare un ceto di persone di altissima competenza capace di valorizzare quel patrimonio che, se non altro, ha un enorme potenziale economico? Si badi bene: non si tratta solo della necessità di formare un esercito di archeologi, di restauratori, di persone all’altezza di gestire musei e l’immenso, quando degradato e depredato, patrimonio librario del paese. Si tratta di non disperdere la memoria dell’identità storico-culturale italiana. Come è possibile pensare che il patrimonio culturale del paese possa essere preservato se quasi nessuno conosce più neanche i nomi degli architetti, dei pittori, dei letterati, degli scienziati che l’hanno costruito e finisce col considerarlo un irriconoscibile ciarpame? Il disprezzo dell’umanesimo (anche sul fronte della cultura scientifica!) è la via per il sicuro declino.
Ci potremmo fermare qui, ma c’è di peggio. A chi ha sempre difeso le assurde accuse di stampo idealistico alle scienze esatte non può piacere il disprezzo simmetrico per l’“altra cultura” tacciata di non fornire né conoscenze né saperi pratici, insomma di essere un cumulo di prodotti inutili e di chiacchiere di dubbio valore. La sciagurata diatriba tra le due culture danneggia entrambe. Nella furia di distinguerle, le scienze vengono separate dalla cultura e pensate come mere abilità pratiche, predicando che solo ciò che ha un’utilità diretta vale qualcosa. Non a caso stiamo perdendo il senso della parola “ricerca”, ormai sinonimo di “innovazione tecnologica”.
Invece, lo straordinario successo della scienza occidentale è stato fondare la tecnica sulla scienza, creando la “tecnologia”. Tutte le grandi scoperte scientifiche che hanno cambiato il volto del mondo – a partire dal computer digitale – sono frutto di idee teoriche, fondate sulla “scienza di base”. Un grande ingegnere come Leonardo da Vinci ammoniva: «Studia prima la scienza, e poi seguita la pratica, nata da essa scienza. Quelli che s’innamoran di pratica senza scienza son come ‘l nocchier ch’entra in navilio senza timone o bussola, che mai ha certezza dove si vada». Oggi questo è più vero di ieri. Giorni fa un illustre ingegnere osservava che nel contesto odierno, sempre più complesso e ricco di interrelazioni, servono persone di formazione vasta e aperta, in breve di formazione umanistica, che spesso solo il liceo classico può dare. L’innovazione tecnologica richiede una cultura vasta capace di attingere ai campi più disparati, altro che specializzazione. Mi ha profondamente colpito l’osservazione che ho sentito da diversi ingegneri che le automobili di oggi sono, in fondo, ancora “bricolage” del modello originario, mentre occorrerebbe ripensarne uno nuovo non soltanto in termini tecnici stretti, ma tenendo conto del senso del “trasporto” nella realtà economico-sociale di oggi. Come può farlo questo chi non sappia di economia, di sociologia, di storia? In un’università tecnologica francese mi raccontarono: «Un’importante ditta automobilistica ci chiede come migliorare una difficoltà di carburazione. Un ricercatore elabora un modello e conclude che occorre aumentare di tot millimetri il diametro di un tubo. Cosa di veramente nuovo può venire da questo?».
È comprensibile che le imprese abbiano fretta e desiderino un sistema dell’istruzione funzionale alle formazione di addetti. Ma ciò può portare solo al disastro. Nè vale produrre l’esempio di paesi che imboccano questa via: qui il mal comune non è mezzo gaudio. Tanto meno può esserlo in un paese che non solo possiede gran parte del patrimonio culturale e artistico mondiale, ma ha una grande tradizione: aver saputo sintetizzare con successo, dal periodo postunitario, visione umanistica, scientifica e tecnologica. Di tale sintesi è stata espressione l’ingegneria italiana, costellata di grandi personalità che non erano solo “pratici” di prim’ordine, ma scienziati e umanisti. Tale fu Luigi Cremona, matematico puro, fondatore della Scuola di Ingegneria e ministro dell’istruzione. Tale fu Francesco Brioschi. Tale fu Vilfredo Pareto ingegnere ferroviario, imprenditore, e grande teorico dell’economia e della sociologia. Scienziato umanista fu il creatore della plastica Giulio Natta (diplomato in un liceo classico). Questa è la tradizione cui riallacciarsi, invece di credere che sia un progresso distruggere la formazione umanistica classica, proprio mentre viene riscoperta in paesi privi delle nostre tradizioni.
Abbiamo bisogno di persone di ampia formazione e capaci di scelte autonome, e non di polli di batteria formati per una sola funzione che, col procedere tumultuoso della tecnologia, potrebbe diventare obsoleta nel giro di poco tempo. Per formare persone del genere serve anche il liceo classico. Chi gioisce per il suo declino ride mentre è segato il ramo su cui sta seduto.
(Il Mattino e Il Messaggero, 25 agosto 2013)

giovedì 18 luglio 2013

La famiglia Karnowski di I.J. Singer


Se desidero parlare del romanzo La famiglia Karnowski di Israel Joshua Singer (Adelphi, 2013) non è per farne una recensione che altri hanno fatto o faranno con maggiore competenza. È per dire delle due ragioni per cui sono stato folgorato da quest’opera del fratello minore del più noto premio Nobel Isaac Bashevis. La prima considerazione è quella di un semplice lettore – non critico letterario, appunto – che, pur cercando di accostarsi in modo aperto a nuovi stili letterari indubbiamente suggestivi (come quello di Gary Shteynhart), non può fare a meno di sentirsi trascinato in modo totale da libri che dimostrano la vitalità imperitura del romanzo classico. Quando lessi Vita e destino di Vasilij Grossman mi parve di trovarmi di fronte a una nuova opera inedita di Dostoevskij. Non diversamente leggendo La famiglia Karnowski: un grandissimo romanzo che è la prova che non è indispensabile inventare nuovi stili e nuove sperimentazioni per legare a sé il lettore pagina dopo pagina.
Il romanzo racconta, attraverso la saga di una famiglia che si snoda dalla Polonia alla Germania fino agli Stati Uniti, il dramma della distruzione dell’ebraismo centro-europeo. Ma non si tratta soltanto di questo, c’è molto di più. In questa tragica saga emerge il tema dell’identità ebraica: che cosa significa, come si può essere ebrei nell’era successiva ai ghetti, o comunque alla separazione totale dal resto della società, durante la quale la definizione dell’identità ebraica era in qualche modo automatica, in quanto imposta dall’esterno? La famiglia Karnowsky, come tante altre giunte in Germania dalla Polonia, deve far fronte al compito difficile di misurarsi con la società tedesca, con il fascino del suo spessore culturale e civile e con le sue aspre ripulse, e si confronta anche con gli svariati modelli di vita degli ebrei tedeschi autoctoni. Il percorso di tre generazioni della famiglia, accanto a quelli di tanti altri personaggi, disegna un affresco di tutti i possibili atteggiamenti. Da un lato, v’è l’estremo del saggio talmudista che si chiude nella barriera difensiva dei suoi studi, nella convinzione che è sempre stato “così” e sarà sempre “così”, e quindi che anche l’avvento del nazismo rientra nella “normalità” della millenaria storia ebraica e non può modificare il corso della vita di un ebreo pio. In mezzo, vi è l’atteggiamento di chi ritiene che la soluzione sia essere ebreo in casa e tedesco fuori di casa, e quindi erige come cortina “difensiva” la conservazione privata delle tradizioni, anche semplicemente al livello delle abitudini alimentari. Dall’altro, vi sono tutte le gradazioni dell’assimilazione, da quella di chi dissolve la propria ebraicità nell’universalismo rivoluzionario fino a quella estrema della terza generazione della famiglia, il giovane Jegor, figlio di matrimonio misto che cerca la via d’uscita nella soluzione radicale di rigettare totalmente la propria identità ebraica, fino a odiarla e a proclamarsi nazista pur di farsi riconoscere come tedesco a pieno diritto.
Poiché questo è innanzitutto un romanzo e, in alcun modo, un libro ideologico, non vi si troverà mai un giudizio di questi atteggiamenti, neppure di quello di Jegor. Il tentativo di quest’ultimo di “lavarsi” delle radici ebraiche paterne e di essere accettato come tedesco “puro”, cercando un rapporto con ambienti sordidi della comunità tedesca newyorkese, fallisce tragicamente ed egli ritorna alla famiglia che aveva ripudiato che lo salva e lo riaccoglie. Ma è un lieto fine che lascia aperto il problema: il ritorno di Jegor non è dettato da una piena e autonoma consapevolezza, bensì è imposto dal rinnovato ergersi del muro dell’odio razziale e della persecuzione. Pertanto, la domanda che emerge spontanea da tutte queste storie è: che cosa può essere un’identità ebraica viva e vitale nell’era moderna? Per quanto forti siano ancora il rifiuto e l’odio, gli ebrei sono irrevocabilmente entrati a far parte della vita sociale e godono di quei diritti civili da cui erano stati esclusi per secoli. Sarebbe vano pensare di definire i connotati dell’identità ebraica alzando muri o addirittura rimpiangendo e rievocando i muri del rifiuto esterno. L’identità ebraica non può che definirsi per la posizione e il ruolo che assume nella società e nel mondo: come dimostrano le vicende dello stato d’Israele neppure la costituzione di uno stato ebraico risolve di per sé il problema, perché allora questo si proietta al livello della costituzione interna dello stato e dei rapporti internazionali.
Perciò, il lieto fine delle vicende di Jegor lascia con una grande domanda irrisolta, come del resto tutte le storie particolari e diverse dei personaggi che popolano il romanzo. Ed è proprio nell’assenza di una risposta confezionata e, al contrario, nella capacità di aprire un problema esplorandolo in tutte le sue facce, che si vede quale possa essere la forza conoscitiva di una grande letteratura, persino maggiore di una grande saggistica. Così, La famiglia Karnowski è, rispetto al tema dell’identità ebraica nel mondo ancor più complesso della postmodernità, una miniera aperta di riflessioni e di pensieri.
(Shalom, luglio 2013)