Pubblicato su Il Foglio, martedì 6 settembre 2005 :
Cosa pensereste di un volume di storia della letteratura in cui si affermi che la Divina Commedia è stata scritta da Giacomo Leopardi? Ebbene, anche se non è evidente per chi non conosca un po’ di matematica, è una pari castroneria asserire che siano “risolti” i problemi della duplicazione del cubo (costruzione di un cubo di volume doppio di un cubo dato) e della trisezione dell’angolo (divisione di un angolo in tre parti uguali) con riga e compasso: per il semplice motivo che si tratta di problemi insolubili, salvo casi particolari. Eppure questo si legge nella Piccola Enciclopedia delle curiosità scientifiche presentata dal Corriere della Sera con il motto evangelico “Chiedete e vi sarà detto”.
Torniamo al nostro immaginario volume di storia della letteratura che così presenta il Romanticismo: movimento letterario i cui principi sono stati stabiliti da Herder in tre punti: 1) il cuore è tutto e il cervello non è niente; 2) scopo della letteratura è di far piangere il lettore; 3) il Medioevo è l’unica epoca bella della storia. Con un risultato di pari comicità, la nostra enciclopedia scientifica si cimenta con la definizione de “il” metodo scientifico. Questo metodo sarebbe stato introdotto da Galileo, lui solo, il demiurgo della scienza. Insomma, una mattina Galileo, tra un caffè e un cornetto, si disse: “È ora di farla finita con tutta questa confusione: adesso enuncio una volta per tutte il metodo scientifico!”. E lo fece in cinque “fasi”, che forniscono la ricetta con cui la scienza scopre “le sue verità” come una ricetta di cucina insegna a confezionare le melanzane alla parmigiana.
È umiliante ridursi a obiettare cose che dovrebbero far parte del bagaglio minimo di una cultura scientifica: che “il” metodo scientifico non esiste, che la metodologia della scienza è una tematica complessa, che presenta una ricca articolazione storica e innumerevoli approcci; che “il” metodo sperimentale non esiste e che, se pure non si riduce (per dirla con René Thom) a tradizioni locali di laboratorio, non è codificabile in un insieme di regolette. Ed è avvilente che vengano propinati su scala di massa non soltanto errori, ma leggende storiche, come quella secondo cui Galileo, lanciando oggetti dalla torre di Pisa, capì che “una palla di legno e una di piombo cadono esattamente allo stesso modo” e quindi che l’accelerazione di gravità è la stessa per tutti i corpi. Semplicemente perché una siffatta esperienza l’avrebbe condotto al risultato opposto. L’affermazione che tutti i corpi cadono con velocità uguale riguardava il caso astratto del movimento nel vuoto, che non esiste in natura (tantomeno attorno alla torre di Pisa) e che esprime una situazione ideale. Perciò, è pietoso raffigurare Galileo che lancia palle dalla torre di Pisa, un’esperienza che, come disse Alexandre Koyré, egli “non ha mai fatto e neppure immaginato”. Ed è parimenti assurdo asserire che Galileo “notò” che se su un corpo non agiscono forze esso “continua a muoversi di moto rettilineo uniforme”: per il semplice motivo che una simile situazione nessuno potrà notarla mai, ma soltanto pensarla come un caso ideale. Proprio così lo pensò Galileo (che peraltro abbozzò un principio d’inerzia per moti circolari e non rettilinei). Ed è diseducativo non trasmettere l’idea più importante, e cioè che la caratteristica della scienza moderna è l’aver rovesciato l’approccio aristotelico. Quest’ultimo parte dalla mera osservazione dei fatti: procede dalla fisica verso la metafisica. Al contrario, la scienza del Seicento assume come fondamento un complesso di astrazioni matematiche e tramite queste analizza i fatti: dalla metafisica si procede verso la fisica.
A questo punto chiediamoci: perché mai le scienze naturali e matematiche e la loro divulgazione meritano trattamenti che non sono considerati ammissibili per le scienze umane, per quanto grande sia il degrado culturale complessivo? Prima di tentare una risposta vogliamo dissipare nel lettore il sospetto che i casi citati siano punte patologiche isolate. Purtroppo, con l’eccezione di pochi casi – come quello di un maestro della divulgazione scientifica come Franco Prattico – il panorama è desolante. Qualche esempio ulteriore servirà di conferma e a decostruire i connotati ideologici di questa débacle culturale.
Consideriamo la pagina del Corriere della Sera (11 agosto) dal titolo: “Scoperto il mistero dei numeri primi”. I numeri primi sono quei numeri divisibili soltanto per 1 e se stessi, come 1, 2, 3, 5, 7, 11, ecc. Esiste una legge che governa la distribuzione dei numeri primi? Questo è il “mistero”, perché una legge siffatta nessuno l’ha mai trovata. Il guaio è che i tre matematici indiani di cui parla l’articolo non l’hanno trovata neppure loro e quindi il titolo è un inganno: il mistero non è stato svelato. È stato soltanto escogitato un nuovo algoritmo per scoprire nuovi numeri primi. Un algoritmo è un metodo di calcolo numerico e non una “formula”, come dice erroneamente l’articolo: se possedessimo la formula dei numeri primi, allora sì che il mistero sarebbe svelato. L’articolo prosegue introducendo il lato più intrigante: e cioè che l’algoritmo è segreto perché i numeri primi hanno applicazioni cruciali in crittografia, nella codificazione segreta della comunicazione. Una buona divulgazione suggerirebbe di tentare una spiegazione di quest’aspetto e di lasciar perdere l’algoritmo, tanto più che è segreto… Ebbene no: cosa c’entrino i numeri primi con la crittografia resta per il lettore un assoluto mistero, mentre per l’algoritmo si fa quel che non si dovrebbe mai fare e cioè brandire termini incomprensibili del gergo tecnico, senza neppure fornire gli strumenti per capirli attraverso letture di approfondimento. Cosa potrà mai dire al lettore l’espressione “metodo di classe polinomiale”? Insomma, un’intera pagina di giornale per trasmettere un paio di idee sbagliate assortite di un paio di concetti incomprensibili.
L’esempio delle costruzioni con riga e compasso, citato all’inizio, richiama alla mente il paginone che, un anno fa, La Repubblica dedicò al caso di un oscuro matematico libanese che, da 10 anni per 15 ore al giorno, si adopera a dimostrare l’indimostrabile: il quinto postulato di Euclide (“per un punto esterno a una retta passa una ed una sola parallela”). L’articolo non raccontava questa vicenda come si farebbe parlando dello stravagante di turno che proclama di aver ottenuto il moto perpetuo, ovvero l’energia infinita a costo zero. No, il caso veniva preso sul serio. E veniva raccontata senza ironia la richiesta che il matematico libanese aveva avanzato alle maggiori accademie scientifiche europee di riconoscere i suoi risultati e bandire per sempre dalla scienza e dai testi le geometrie non euclidee (quelle che non suppongono la validità del quinto postulato, come la geometria della relatività einsteiniana). Geometrie “ispiratrici del caos”, secondo il nostro, la cui faccia, quando ne parlava, “si scomponeva per il disgusto di una visione infetta, anarchica e atea” che sopprime il “linguaggio eterno che collega Dio all’uomo”.
Come mai il più diffuso quotidiano nazionale ha potuto dedicare una pagina a una simile penosa faccenda senza che nessuno dei tanti paladini della scienza, atei e laici, pronti a insorgere contro il fanatismo teologico-religioso e le sopraffazioni del libero pensiero, abbia protestato? Sarà forse perché si trattava di un matematico libanese che si ergeva a mani nude contro la prepotenza delle accademie “occidentali”? Siamo troppo maligni nel pensare che concetti analoghi avrebbero avuto ben altra accoglienza se espressi da un vescovo cattolico, da un pastore evangelico o da un rabbino? Ma il tema dell’“odio di sé”, e delle deroghe che provoca nella difesa della scienza, meriterebbe un trattamento a parte.
Sempre in tema di ideologia, è interessante notare quali passioni susciti la difesa del darwinismo. Si legga, ad esempio, l’articolo di Vittorio Zucconi (La Repubblica del 24 agosto) dal titolo “Tutti contro Charles Darwin, l’America si scopre “neo creo””. Zucconi dispensa due mistificazioni che sono ormai moneta corrente: la prima è che la teoria dell’evoluzione in gioco oggi sia quella di Charles Darwin; la seconda è che sia in atto uno scontro tra scienza e fede, tra una teoria scientifica provata e le prime pagine della Genesi. Identificare la teoria dell’evoluzione con Darwin è una castroneria peggiore dell’identificazione di Galileo con il metodo scientifico. E non soltanto perché esistono molte teorie dell’evoluzione ma perché la teoria darwiniana in senso stretto è morta e seppellita da ormai da cent’anni, fin da quando le sue numerose e gravi falle condussero quasi tutta la comunità scientifica a rigettarla. L’orientamento largamente prevalente fu che, sebbene l’ipotesi evolutiva rimanesse in campo, nessuno poteva seriamente dichiararsi “darwiniano”. Anche il “principio dell’esclusione competitiva” non ha trovato alcuna dimostrazione, al livello dei sistemi biologici macroscopici, per non dire di quelli sociali, ed è possibile costruire modelli matematici con cui esso può essere convalidato e falsificato a piacimento.
Il recupero del principio evolutivo darwiniano è avvenuto attraverso la teoria mendeliana e la creazione della cosiddetta teoria “sintetica” dell’evoluzione. Ma se la teoria sintetica ha risposto efficacemente ai problemi dell’evoluzione “in piccolo”, il problema dell’evoluzione in grande, ovvero sulla scala storica, resta in tutta la sua complessità e la difficoltà irrisolta è il raccordo tra i due aspetti, cioè la dimostrazione che i cambiamenti indotti dalla microevoluzione siano responsabili del processo evolutivo in grande. Lasciar credere che queste difficoltà siano piccole pecche o “vuoti presenti nella formula [sic] evolutiva” o un’abile strategia di attacco dei creazionisti che “costringono gli evoluzionisti a difendere quello che fino a pochi anni or sono era pacifico”, è una mistificazione. Non si trattava affatto di teorie “pacifiche”, anche molto prima che venissero alla ribalta i “neo creo”. Ne è la riprova il succedersi di diversi tentativi di riparare le falle (e non vuoti) della teoria, come l’ipotesi dell’evoluzione discontinua avanzata da Stephen J. Gould e che tuttavia non è riuscita a creare unanimità fra gli studiosi. E ne è prova ancor più evidente il fatto che la grande maggioranza dei paleontologi – coloro che dovrebbero fornire le prove empiriche per eccellenza della teoria evolutiva – è stata da sempre diffidente o reticente e in parecchi casi apertamente contraria alla teoria sintetica. Siamo pertanto in presenza di un dibattito scientifico su una questione aperta, attorno a una teoria che non è “pacifica”, bensì traballante sia sul piano concettuale che sul piano empirico; per cui un atteggiamento scientifico e razionale consiste nel partire dalla constatazione di una situazione di profonda incertezza, e nell’esporre lo stato delle conoscenze nella sua realtà effettiva e non secondo un “wishful thinking”. È ovvio che le falle della teoria dell’evoluzione non autorizzano a concludere circa la validità di una tesi creazionista. Ma non autorizzano neppure ad assumere la posizione simmetrica, ovvero a parlare di “revanscismo teocratico mimetizzato da alternativa scientifica”, di costruire l’inaccettabile immagine di una contrapposizione, per cui da un lato vi sarebbero le persone serie, razionali, illuminate, i veri scienziati, dall’altro i ciarlatani, i fanatici, gli oscurantisti e i falsi scienziati. Del resto, che sia un giornalista privo di competenza specifica ad arrogarsi il diritto di decidere cosa sia scienza e cosa non lo sia, chi sia scienziato vero e chi millantatore, la dice lunga sul carattere ideologico e oscurantista di questa battaglia condotta addirittura in nome della ragione.
Potremmo continuare con gli esempi. Una larga messe ci viene fornita da quella che viene chiamata la “gene-for sindrome”, ovvero la tendenza a ricercare il gene determinante di ogni fenomeno concernente gli esseri umani: il gene della gelosia, il gene della paura, il gene della timidità, e così via. Un delirio anche questo puramente ideologico, espressione di una frenesia materialistica, visto che il principio secondo cui “tutto è genetico” non ha alcun fondamento. Del resto, che ad ogni evento “mentale” sia inevitabilmente associato un evento “materiale” non implica affatto il carattere determinante del secondo rispetto al primo. Tanto più avrebbe dovuto suscitare interesse l’esperimento – raccontato in un articolo di buon livello su Repubblica (24 agosto) – condotto da un’équipe di scienziati statunitensi su un gruppo di volontari sottoposti a stimoli dolorosi e curati con dei placebo. La tomografia a emissione di positroni ha dimostrato che il cervello ha reagito producendo endorfine, ovvero sostanze chimiche che bloccano il dolore. Il leader dell’équipe ha correttamente osservato che questo risultato getta un ponte tra aspetto psicologico e aspetto organico, e mostra come una sensazione psicologica – l’illusione del beneficio del farmaco – scateni un meccanismo chimico. Tanto più bizzarra appare allora l’osservazione dello studioso secondo cui lo studio sarebbe “un serio colpo all’idea che l’effetto placebo sia un fenomeno psicologico e non anche fisico” e timidamente avvallata dal divulgatore con l’affermazione: “niente autosuggestione: è un meccanismo chimico a far guarire i pazienti”. Ma quale differenza vi sarebbe tra illusione e autosuggestione? L’aspetto più interessante non è proprio che il meccanismo chimico sia “scatenato” da un processo psicologico? E quale persona dotata di un minimo di raziocinio potrebbe mai sostenere il carattere totalmente e isolatamente psicologico di un fenomeno che induce un effetto fisico? In realtà, un simile pasticcio concettuale è frutto del freno ideologico che impedisce di dire a chiare note che l’esperimento costituisce una confutazione del materialismo.
Facciamo il punto sulla casistica che abbiamo esaminato. Pur senza indulgere alla ricostruzione razionale forzata di un quadro unitario, alcuni aspetti emergono con sorprendente persistenza. In primo luogo, l’immagine della scienza, che è vista come un metodo che dispensa certezze, sotto forma di sentenze apodittiche. Le diverse concezioni del mondo, le visioni filosofiche non entrano mai in gioco in questo processo, che quindi è indipendente da ogni altra forma di conoscenza. Anzi, la specificità della scienza implica la sua separatezza dalla cultura, perché l’assenza del dubbio critico la divide da tutto il “resto”. È una visione che mira alla formazione, per usare le parole del fisico-matematico Clifford Truesdell, di “un proletariato intellettuale che presta al fanatismo della scienza una credulità superiore a quella del contadino medioevale verso il suo parroco”. È funzionale a questo scopo la presentazione dei concetti e dei metodi della scienza in una forma semplificata e stereotipata, che non stimola lo spirito critico, bensì una pura e semplice fede che si pretende sostitutiva di quella religiosa: “Chiedete e vi sarà detto”. Perciò, alla larga da ogni tentazione di far percepire la complessità del metodo scientifico: esso viene ridotto a un ricettario, a un prontuario, a un manuale di istruzioni. Tutti sanno che i manuali di istruzioni degli apparecchi sono incomprensibili. Tuttavia, nessuno usa un manuale di un apparecchio per capire o porsi domande circa i principi del suo funzionamento, ma soltanto per applicarne in modo efficace le prescrizioni. Tale è l’idea della scienza che ci trasmette questa divulgazione. Naturale complemento di una simile visione è la presentazione esaltata e trionfalistica delle conquiste scientifiche e, in particolare, di un progresso tecnologico senza limiti, capace di risolvere ogni problema e di costruire un paradiso materiale in cui ogni inquietudine ed esigenza spirituale e morale si trasforma in un problema materiale “risolubile”. Insomma, nella divulgazione corrente, la scienza diventa l’espressione suprema dell’ethos della società industriale e il baluardo di un’ideologia materialista, antireligiosa e pragmatistica.
Non c’è dubbio che il risultato del referendum sulla procreazione assistita e le polemiche sul relativismo, anziché suscitare riflessioni critiche, hanno convinto più d’uno che l’Italia è un paese malato di incultura scientifica e che deve essere curato con un trattamento massiccio di inni alla scienza. Di qui un atteggiamento “militante” che si è espresso in due forme assolutamente contraddittorie: da un lato il crescente esplodere della divulgazione trionfalistica di cui si è fin qui parlato; d’altro lato, la tesi secondo cui il relativismo sarebbe l’essenza stessa del metodo scientifico. Conviene sottolineare schematicamente, alcuni punti.
1) La scienza classica non ha nulla a che fare con il relativismo. Essa nasce al contrario come un progetto di acquisizione progressiva di verità. Per dirla con Jacques Monod, l’asse portante della scienza è il principio di oggettività. La scienza ricerca “leggi”e non opinioni.
2) Ciò non implica affatto che le acquisizioni della scienza siano verità assolute. Esse sono asserti continuamente rivedibili e perfezionabili. Secondo la visione che da Cusano in poi la scienza ha posto alle sue basi, la verità assoluta non è acquisibile dall’uomo (essere finito e imperfetto) una volta per tutte, bensì è indefinitamente approssimabile con un processo infinito e progressivo. Ma di qui al relativismo corre un abisso, in quanto il relativismo nega la possibilità di stabilire un qualsiasi confronto fra conclusioni o punti di vista diversi e non si limita affatto a negare che esistano verità assolute.
3) Non è un caso che le grandi “crisi” della scienza del primo Novecento siano state vissute come sconfitte e non come il trionfo dello spirito critico. È altrettanto indubbio che l’ottimismo “classico” non sia stato più ripristinato. Ma la conseguenza di ciò è stata una progressiva separazione tra scienza e tecnologia che ha prodotto gli sviluppi tecnoscientifici attuali, marcatamente caratterizzati da tendenze antiteoriche e pragmatistiche che è lecito criticare come l’ingresso di una vera e propria forma di relativismo nella scienza. Si tratta di sviluppi considerati inquietanti anche da una parte consistente della comunità scientifica. Inoltre, la tendenza a ridurre la scienza a un’attività di “problem solving” pone una barriera fra essa e le altre forme di attività intellettuale, negandole un ruolo culturale. Difatti, come potrebbe ambire una forma di razionalità “ridotta” come il “problem solving” a rappresentare il problema della “razionalità” in generale?
In conclusione, se l’immagine della scienza proposta dalla divulgazione dominante rappresenta un vacuo esercizio retorico, l’idea di rispondere alla critica antirelativista presentando la scienza come espressione del relativismo – di cui si fa portavoce Giulio Giorello – è priva di qualsiasi fondamento. Colpisce al riguardo che un intellettuale avvertito come Michele Salvati, mentre giustamente invita Giorello a prestare maggior attenzione alle “critiche non banali”, prenda per oro colato l’idea che il relativismo – confuso con il “rifiuto di verità rivelate e indiscutibili” – coincida con “la grande tradizione laica e scientifica dell’Occidente”. Se questi sono i risultati della campagna militante in difesa della razionalità scientifica, stiamo freschi – o meglio, stanno freschi i protagonisti di tale campagna.
La situazione si fa particolarmente penosa quando i fautori della tesi “scienza = relativismo”, per non disunire il fronte dei “difensori della ragione”, avvallano o cavalcano la divulgazione fideistica e sgangherata. Perché allora l’immagine che viene alla mente è quella di chi cavalchi un ronzino, facendo finta che sia un destriero e di non vedere che, mentre lui sguaina la spada invitando alla carica da un lato, quello se ne va dal lato opposto.
Giorgio Israel
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