Pubblicato su Il Foglio - martedì 27 settembre 2005
Un testo può essere riletto cercando di porsi nella visuale del momento in cui fu scritto, oppure con gli occhi del presente. Forse questo secondo approccio s’impone, tanto sono tormentosi i problemi dell’oggi e che già erano presenti nelle tematiche della dichiarazione “Nostra Aetate”: primo fra tutti quello della difficile conciliazione fra affermazione dell’identità e tolleranza dell’altro. Questo è forse il più grande problema che ha segnato questi quarant’anni, nei quali abbiamo assistito al dispiegarsi della soluzione multiculturalista e, al termine dei quali, ci troviamo di fronte al suo catastrofico fallimento. C’è ancora chi insiste nel riproporre le impotenti formule dell’ideologia postmodernista: di recente Luce Irigaray predicava ancora una “nuova” formula della famiglia come «luogo di apprendimento della convivenza multiculturale piuttosto che di integrazione dello straniero nella nostra Storia passata». Ma proprio questa ripetizione stanca ci fa sentire con maggiore intensità la difficoltà delle sfide da raccogliere sulle macerie del multiculturalismo.
Lo sappiamo: l’indurimento parossistico delle identità è stato (ed è) una delle sorgenti principali del razzismo e di tante intolleranze. Ma è stata un’ingenuità senza pari credere che la conciliazione fra affermazioni identitarie e tolleranza potesse realizzarsi decretando a tavolino l’assoluta uguaglianza di tutte le identità, e il progetto di una società ripartita per quote proporzionali. In tal modo, si è ottenuto l’opposto di quel che si voleva: la cristallizzazione irriducibile delle diversità. Si è voluto combattere la globalizzazione economica e decretare la globalizzazione culturale ed etnica, come se quest’ultima non fosse sempre esistita come fatto spontaneo, e non fosse stata un potente fattore di dinamica storica; e non si è capito che la sua dinamica spontanea (a differenza di quella decretata a tavolino dai multiculturalisti) preserva le differenze senza trasformarle in un fattore di disgregazione sociale.
Trentacinque anni fa Claude Lévi-Strauss tenne una conferenza su “Razza e cultura” – richiesta dall’Unesco nel quadro di un programma di lotta contro il razzismo – suscitando, per la franchezza dei suoi propositi, lo scandalo di alcuni tartufi, come capita sempre a coloro che pensano liberamente. Conviene rileggere alcune delle frasi conclusive di quella conferenza:
«Se l’umanità non vuol rassegnarsi a diventare la consumatrice sterile dei soli valori che ha saputo creare nel passato, capace di dare alla luce soltanto opere bastarde, e invenzioni grossolane e puerili, dovrà reimparare che ogni vera creazione implica una certa sordità all’appello degli altri valori, la quale può giungere fino al loro rifiuto se non anche alla loro negazione. Perché non si può, allo stesso tempo, fondersi nel godimento dell’altro, identificarsi con lui e mantenersi diverso. Se è pienamente riuscita, la comunicazione integrale con l’altro condanna, a più o meno breve scadenza, l’originalità della sua e della mia creazione. Le grandi epoche creatrici furono quelle in cui la comunicazione era divenuta sufficiente affinché dei partner lontani si stimolassero, senza essere tuttavia così frequente e rapida da ridurre gli ostacoli indispensabili tra gli individui come tra i gruppi, al punto che scambi troppo facili parificassero e confondessero le loro diversità. […] Certo il ritorno al passato è impossibile, ma la via in cui gli uomini si sono oggi incamminati accumula tensioni tali che gli odii razziali offrono un ben povera immagine del regime di intolleranza esacerbata che rischia di istaurarsi domani, senza che neppure gli debbano servire di pretesto le differenze etniche. […] occorre capire che le cause sono molto più profonde di quelle semplicemente imputabili all’ignoranza e ai pregiudizi».
Parole preveggenti! Volendo mescolare le diversità sulla base del principio che esse sono tutte assolutamente alla pari, che nessuna ha il diritto di affermare i propri valori, bensì soltanto quello di difenderne l’assoluta intangibilità, il relativismo multiculturale ha prodotto il contrario del suo obbiettivo umanitario: un regime di divisione, di “comunitarismo”, di “apartheid” culturale-etnico, che è il brodo di coltura dei disadattamenti più devastanti e delle ostilità più feroci.
Ma cosa ha a che vedere tutto ciò con la religione e, in particolare, con la dichiarazione “Nostra Aetate”? Moltissimo, se si pensa che le religioni, soprattutto quelle monoteiste, vengono additate come il luogo del massimo irrigidimento identitario e accusate di generare intolleranza – il che, sulla base dell’esperienza storica, ha un fondamento indiscutibile. L’importanza storica della “Nostra Aetate” è quella di essersi avventurata su questo difficile terreno, senza trascurare di calarsi nei casi specifici: come ammettere che le altre fedi esprimano delle luci di verità, senza annacquare la convinzione nella verità superiore della propria? Vi si dichiarava che «la Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo» nelle altre religioni, le quali «riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini», e, al contempo, si riaffermava che essa «annuncia, ed è tenuta ad annunciare, il Cristo, che è “via, verità e vita”».
Proviamo a vedere la questione da un punto di vista ebraico. In un libro di alcuni anni fa dedicato alla figura di Mosé, il celebre studioso André Chouraqui ha condotto una sottile analisi di come l’introduzione del termine “monoteismo” abbia tradito il senso più profondo dell’idea biblica dell’unità divina. Il termine “monoteismo”, osserva Chouraqui, è inesistente nelle lingue semitiche, ed è comparso in inglese nel 1660 e in francese nel 1834. A suo avviso, l’impiego di questa parola è contemporaneo all’inizio dei colonialismi britannico e francese ed egli osserva che, «quando si decide di conquistare e dominare dei popoli, è confortante pensare che non esista che un Dio, e che questo Dio sia necessariamente quello dei vincitori». Dal punto di vista storico, questa tesi è semplicistica ed è difficile ammettere che l’intolleranza religiosa possa essere ricondotta soltanto a quel fattore e a quel periodo, dimenticando quanto essa abbia dilagato nei secoli precedenti. Tuttavia, Chouraqui dice una cosa molto profonda – anche ove la si consideri soltanto come una proposta interpretativa – quando osserva che, per l’ebraismo più che di monoteismo è appropriato parlare di “teomonismo” (secondo la formula di Henri Courbin). Difatti, questo termine riflette la formula biblica “gli Elohîm sono Uno”, la quale implica che l’affermazione dell’unità di Dio non esclude le altre manifestazioni della divinità, ma ne costituisce l’unificazione trascendente. È una idea che è altresì presente nelle dottrine kabbalistiche, che distinguono le emanazioni provenienti dall’unico “infinito” (Ein Sof) assolutamente trascendente. Di qui, secondo Chouraqui, discende la particolare “missione” affidata al popolo ebraico, che è quella di essere testimone della trascendenza di Dio, della sua assoluta irrappresentabilità e indicibilità, di combattere senza compromessi l’idolatria, ma senza per questo opporre alle altre manifestazioni della fede una negazione assoluta.
Chouraqui ricorda un midrash rabbinico su Mosé che esprime in modo straordinariamente vivido questa visione. I rabbini si sono spesso interrogati sul motivo per il quale Dio avesse affidato la difesa della sua causa a un balbuziente come Mosé. Il midrash ricorda che, in principio, Mosé era il più eloquente fra gli ebrei. Un giorno, vide un egiziano che pregava le sue divinità: si infuriò, lo colpì e bruciò le sue statue. Allora Dio disse a Mosè: «Quest’uomo al di là della statua si rivolgeva a Me. Ho ascoltato la sua preghiera e la esaudirò. Quanto a te, per insegnarti a comprendere meglio la mia Torah e il senso della mia unità, affinché tu sia più riflessivo, d’ora in poi tu balbetterai».
Questa è la via: coltivare la balbuzie della tolleranza e della riflessività senza che ciò significhi rinunziare a nulla delle proprie convinzioni. La dichiarazione “Nostra Aetate” ha aperto un sentiero di questo tipo e oggi, dopo quarant’anni, per quanto questo sentiero sia accidentato possiamo constatare gli importanti progressi che sono stati realizzati.
Per quanto riguarda i rapporti ebraico-cristiani – che occupano una parte molto rilevante della dichiarazione – è facile rendersi conto di tale progresso. Alcune affermazioni erano audaci all’epoca, ma sembrano oggi ancora generiche (per esempio, quando si dice che gli ebrei sono “ancora” carissimi a Dio e da rispettare per “religiosa carità evangelica”). Esse sono state riproposte con trasparente chiarezza teologica nel recente discorso del Papa Benedetto XVI nella sinagoga di Colonia. Già la “Nostra Aetate” conteneva la fondamentale tesi che i “doni” e la “vocazione” di Dio sono “senza pentimento”; ma l’affermazione che «i doni di Dio sono irrevocabili» ha una nettezza al di là della quale è difficile andare, così come quella di Giovanni Paolo II secondo cui «chi incontra Gesù, incontra l’ebraismo».
Chiarezza teologica, dicevamo, che è fondamentale: difatti, su quale terreno, se non su questo, si gioca il rapporto tra le religioni? Solo da qui possono derivare quei nuovi orientamenti catechistici capaci di sgretolare progressivamente antichi pregiudizi. È il terreno più difficile, a differenza di quello storico. Su quest’ultimo, ha osservato il Papa a Colonia, è possibile perseguire «un’interpretazione condivisa di questioni storiche ancora discusse». Al riguardo, il cardinale Scola, alla domanda se il razzismo nazista non attecchì sull’antigiudaismo cristiano ha risposto: «È una questione complessa, studiare le radici dei fenomeni, gli elementi di continuità e di rottura». Quindi, sulla questione storiografica è aperta la via anche ad approfondimenti che conducano a interpretazioni equilibrate e condivise. Ma il terreno teologico è di gran lunga più spinoso. Qui il problema della conservazione dell’identità ha un peso fortemente condizionante. Ancora a Colonia il Papa ha sottolineato il difficile ma necessario equilibrio fra queste due tensioni, osservando che occorre «fare passi avanti nella valutazione, dal punto di vista teologico, del rapporto fra ebraismo e cristianesimo», senza peraltro «minimizzare o passare sotto silenzio le differenze».
Proviamo a sviluppare questa tematica andando al centro della questione più scottante nel rapporto fra ebraismo e cristianesimo: la visione del messianismo. Ebraismo e cristianesimo hanno al cuore, come nessuna altra religione, il tema del messianismo, e da questo tema sono profondamente unite; al contempo, nulla li ha divisi di più della questione se il ruolo messianico si sia definitivamente esplicato in Cristo, oppure no. Cosa di positivo può mai nascere all’interno di una contrapposizione irresolubile – in cui ciascuno manifesta l’apice dell’adesione alla propria fede – che ha dato origine a grandi drammi storici ed è all’origine dello stesso antigiudaismo cristiano? Tenterò di spiegarlo con un esempio.
In uno dei numerosi saggi dedicati al messianismo ebraico, Gershom Scholem, dopo aver sottolineato che il messianismo «è il punto essenziale di divergenza tra ebraismo e cristianesimo» ne identificò la radice nella diversa visione della redenzione: «Ciò che il cristianesimo considera come il glorioso fondamento della sua confessione di fede e come dato essenziale del Vangelo è respinto con determinazione e combattuto dall’ebraismo. Quest’ultimo ha sempre considerato la redenzione come un evento pubblico che deve prodursi sulla scena della storia […] e che è impensabile senza una manifestazione esteriore. All’opposto il cristianesimo considera la redenzione come un evento che si verifica in un dominio spirituale e invisibile, come un evento che si gioca nell’anima. Ciò che l’ebraismo ha situato irrevocabilmente al termine della storia […] è divenuto nel cristianesimo il centro della storia, che è allora promossa come “storia della salvezza”. La Chiesa è convinta di aver così superato una nozione temporale della redenzione, legata al mondo fisico, e di averla sostituita con una concezione di dignità più alta». Questa caratterizzazione suscitò la reazione di un teologo protestante che accusò Scholem di rappresentare il punto di vista cristiano secondo «clichés et semplificazioni deformanti». La risposta di Scholem fu che occorreva distinguere fra l’essenza di una contrapposizione che è stata al centro di un conflitto reale, e le dinamiche storiche del pensiero teologico che, nei fatti, hanno approdato a cambiamenti di posizione. Per diciassette secoli quei “clichés” erano stati la base di una critica incessante all’ebraismo, fino al punto di definire come “giudaizzanti” coloro che non avevano aderito all’idea del carattere essenzialmente spirituale della redenzione: questo dato storico non poteva essere discusso e non doveva essere confuso con i percorsi evolutivi del pensiero teologico che avevano finito col trasformare in “clichés” agli occhi degli stessi cristiani quelle posizioni che erano state oggetto di contrapposizione reale. Peraltro, nel suo saggio, Scholem dava conto delle interazioni che avevano progressivamente modificato le rispettive vedute della redenzione e del messianismo: «Se l’ebraismo non ha cessato di instillare nel cristianesimo un messianismo politico e millenarista, si può al contempo constatare questo: il cristianesimo, da parte sua, ha trasmesso all’ebraismo, o quantomeno ha risvegliato in esso, una tendenza mistica all’interiorizzazione del messianismo». In entrambi i casi si tratta dello stimolo di tendenze che esistevano in entrambe le religioni, e ciò proprio in ragione delle loro comuni radici. Proprio di qui discende la difficoltà – osservava ancora Scholem – di «individuare le influenze storiche che hanno potuto provocare l’incontro di queste due correnti così come gli scambi di idee che si sono potuti produrre tra ebraismo e cristianesimo».
Andiamo allora al presente per trovare una testimonianza di questo incontro e di questi scambi di idee. Apriamo l’ultimo libro di don Luigi Giussani (“Il rischio educativo”, Rizzoli, 2005). Vi troviamo riportata una frase tratta da un libro del Rabbino Elio Toaff: «L’epoca messianica è proprio il contrario di quello che vuole il cristianesimo: noi [ebrei] vogliamo riportare Dio in terra e non l’uomo in cielo. Noi non diamo il regno dei cieli agli uomini, ma vogliamo che Dio torni a regnare in terra». E don Giussani così commenta: «Quando l’ho letto sono saltato sulla sedia! Questa è esattamente la caratteristica del carisma con cui abbiamo percepito e sentito il cristianesimo, perché il cristianesimo è “Dio in terra” e la nostra opera, tutta la nostra opera, ha come scopo la gloria di Cristo, la gloria dell’uomo Cristo, dell’uomo-Dio Cristo. La gloria di Cristo è una cosa temporale, del tempo, dello spazio, della storia, nella storia…».
Potrebbe darsi un esempio più limpido – ma questo è ben più che un esempio – di come all’interno stesso di una tensione che esprime una divergenza massima, laddove si manifesta persino la “sordità” e il “rifiuto” (per usare le parole di Lévi-Strauss), possa emergere il frutto benefico di un’interazione reciproca? La storia ci consegna, con ogni evidenza, l’immagine di un’opposizione cristallizzata che rimane come uno scoglio, e non si vede neppure come possa sciogliersi, perché ha al suo centro il tema del riconoscimento della divinità di Cristo. Eppure, proprio in questa zona nevralgica, e proprio al livello teologico, sono avvenuti dei lenti spostamenti tellurici che hanno condotto a un’interazione profonda, alla costituzione di un terreno comune di intesa o quantomeno di comprensione.
Quanto precede ci insegna anche che, per dirla ancora con le parole del Papa nella Sinagoga di Colonia, occorre sempre guardare in avanti. Chi creda che determinate posizioni spirituali o concettuali possano essere racchiuse in un recipiente, definitivamente appartenente a un dato proprietario, si culla in un’illusione insensata: il contenuto esce dal recipiente e interagisce con l’esterno, se conserva ancora una vitalità e un valore per gli altri, e non soltanto per il geloso custode del recipiente. Le vicende dei rapporti ebraico-cristiani, il percorso fatto in questi quaranta anni dalla “Nostra Aetate” testimoniano di questa vitalità, che quel valore esiste per gli altri, e non soltanto per dei gelosi proprietari che si illudano di conservare nel recipiente un contenuto in via di isterilimento. Per questo, parlare di “radici giudaico-cristiane” dell’Europa ha ancora perfettamente senso.
Tuttavia, noi non possiamo trascurare le perplessità di chi teme che il richiamo a quelle radici sia l’espressione di un indurimento identitario che mira ad elevare delle frontiere invalicabili tra un “voi” e un “noi”, e per di più un “noi” costruito in modo artificioso. In effetti, se dietro alla richiesta che fu fatta di inserire il richiamo a tali radici nella costituzione europea non vi fosse stato niente di sostanziale e vitale, salvo un rialzare la bandiera del passato, si sarebbe trattato di una posizione doppiamente sterile e sbagliata. In primo luogo perché occorre chiedersi – come più d’uno si chiede – che cosa vogliamo recuperare del passato della storia cristiana d’Europa. Tutto? Anche l’Inquisizione o i ghetti? O l’idea di uccidersi in nome di Dio? Domanda non peregrina, perché esiste chi si muove in tal senso e crede che la rivalutazione delle radici cristiane significhi riscattare l’Inquisizione, giustificare la cacciata degli ebrei dalla Spagna, dimostrare che la nascita della scienza moderna è stata un gigantesco bluff, e via dicendo. Il semplice richiamo al passato nel migliore dei casi è grottesco: avrebbe senso ripetere meccanicamente oggi, come formulette scolastiche, i principi del liberalismo di Stuart Mill in società complesse come le nostre?
Le posizioni “reazionarie” – nel senso testuale del termine, più che nell’accezione politica – sono intrinsecamente destinate a non avere alcun ruolo propulsivo, tutt’al più quello di esercitare un’azione critica nei confronti dei guasti inevitabili inerenti al mutare delle cose. La proposta del recupero indiscriminato del passato – magari cercando di coprirne le magagne, a costo di sfidare l’evidenza – non potrà mai rappresentare una proposta presentabile.
Tuttavia, la proposta “reazionaria” non è soltanto impresentabile, essa è perdente in quanto è perfettamente simmetrica ed equivalente a quella multiculturalista: entrambe sono «sterili consumatrici di valori del passato». Certo, tutte le nuove grandi svolte ideali e spirituali non si sono mai fatte con materiali interamente nuovi, ed anzi hanno fatto per lo più ricorso a mattoni già consegnati dalla storia passata. Ma quel che contava è che questi pezzi del passato erano selezionati in funzione di un progetto, riaccentrati attorno a un’idea nuova. Si pensi all’Umanesimo e al Rinascimento, che assieme hanno rappresentato un grande sviluppo nella storia della civiltà europea. Esso ha proceduto recuperando materiali tutt’altro che nuovi: il pensiero filosofico e scientifico greco, lo gnosticismo antico, il misticismo, l’ermetismo, e così via. Ma tutti questi apporti del passato sono stati sintetizzati in una visione originale che poneva al centro l’uomo, la dignità dell’uomo, una visione religiosa ispirata al messaggio dell’Antico e del Nuovo Testamento. Poco importa allora che certe connessioni fossero stabilite in modo ardito e improbabile, che fosse una fantasia pensare Pitagora come un’antico ebreo o Socrate come un’anticipazione di Cristo, perché quel che contava era l’obbiettivo, ovvero incorporare la tradizione greco-ellenistica nel contesto giudaico-cristiano, fare – secondo la brillante espressione di uno storico – di Atene un suburbio di Gerusalemme.
La possibilità di un rinascimento europeo non è una fantasia o un sogno, a condizione che essa si aggreghi attorno a un’idea, a un progetto capace di fondarsi su ciò che di meglio ha dato la storia passata d’Europa. In questa storia passata c’è anche la grande vocazione filosofica che ha le sue radici nel pensiero greco, la scienza come parte di un grande progetto conoscitivo, il liberalismo e il razionalismo illuministico, quello delle origini – non ancora degenerato nelle mediocrità del positivismo – e che era anch’esso portatore di un’idea forte della dignità della persona. Sono apporti che debbono confluire in un’idea forte, in un progetto, perché soltanto le identità fondate su principi propulsivi e vitali sono capaci di essere autenticamente aperte e tolleranti.
Le grandi religioni europee, nella misura in cui si fanno carico di quello che diceva “Nostra Aetate” – l’attesa di una «risposta ai reconditi enigmi della condizione umana […]: la natura dell’uomo, il senso e il fine della nostra vita, il bene e il peccato, l’origine e lo scopo del dolore, la via per raggiungere la vera felicità, la morte, ecc. – e proseguono sul cammino di dialogo proficuamente iniziato quarant’anni fa, possono diventare una componente fondamentale di un rinnovamento che, da un lato, faccia uscire dalle secche in cui ci ha gettato il fallimento del multiculturalismo, dall’altro contribuisca alla rinascita di un pensiero “razionale” nel senso pieno del termine. Un razionalismo che non si illuda positivisticamente che le domande circa il “senso” possano essere date da un pensiero e da una prassi meramente tecnologiche che hanno le spalle troppo fragili per sopportare da sole il peso di rispondere a tutti i problemi autenticamente umani.
Giorgio Israel
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