domenica 3 giugno 2007

Come e perché è morta la questione palestinese

Gli eventi mediorientali di questi giorni rappresentano una svolta talmente radicale e drammatica da non consentire più mezzi discorsi. Non sappiamo cosa starà accadendo nelle ore in cui questo articolo sarà pubblicato, se gli scontri interpalestinesi staranno continuando o se sarà stata raggiunta una tregua abborracciata e senza futuro, se altri missili Qassam saranno caduti su Sderot e l’intervento di Tsahal si sarà fatto più pesante. Non possiamo prevederlo, ma in fondo si tratta di cosa secondaria. Né è facile prevedere cosa accadrà nel breve periodo: se Hamas rafforzerà la sua presa e ciò determinerà un aggravarsi della tensione con una possibile riesplosione del fronte libanese fino a una guerra regionale in estate. È una previsione difficile e in definitiva inutile rispetto al problema principale che sta esplodendo: la questione palestinese.
Ascoltando attentamente in giro si è sentita una sola voce che ha avuto il coraggio di dire apertamente qual sia la posta in gioco. Hanna Siniora, osservando di non aver «mai visto nulla di così grave come le battaglie di questi giorni», ha emesso una sentenza pesantissima: «È la morte del progetto nazionale palestinese».
Intorno a questa frase si sente soltanto retorica bellicista o pacifista, slogan vuoti e “langue de bois” della diplomazia più formale. È a dir poco stupefacente che proprio nel momento più tragico, più denso di prospettive conflittuali, più intriso di odî insolubili come pietre, si senta parlare addirittura con ottimismo di “nuove prospettive” di pace aperte da un piano saudita vecchio di decenni e intessuto di idee impossibili, di “due popoli, due stati” e di altre tragiche amenità, che forse vengono dette e ripetute da tutti per il semplice motivo che nessuno se la sente di dire l’indicibile, e cioè che tutte queste chiacchiere sono fuori dalla realtà e che l’obbiettivo “due popoli, due stati” è lontano come non mai, se mai ha avuto prospettive reali. Nessuno dice l’indicibile forse per non essere accusato di aver rotto la bolla di sapone dei buoni sentimenti e dei buoni propositi.
Ma i buoni sentimenti e i buoni propositi quando sono fuori della realtà lastricano la strada dell’inferno e, nella fattispecie, condannano i “due popoli” a percorrerla l’uno accanto all’altro; e, di certo, i palestinesi in modo non meno drammatico degli israeliani. E questa davvero non è retorica. Non intendiamo minimizzare affatto la condizione in cui vivono i palestinesi: morte, sangue, miseria e sofferenze senza fine e di cui non si vede la fine e che, anzi, si proiettano nella prospettiva di un conflitto che può cessare soltanto con la distruzione dell’ “entità sionista” e che può conoscere come tregua soltanto il conseguimento di obbiettivi assolutamente irrealistici, come quelli del piano saudita (ritorno al confini del 1967 e rientro di alcuni milioni di profughi sul suolo di Israele). Oltretutto, si tratta di un conflitto che si interseca con una guerra civile volta ad affermare l’egemonia di un gruppo sull’altro, in cui persino una parte di Hamas scavalca l’altra ed altri gruppi scavalcano Hamas, in una rincorsa senza fine verso l’estremismo.
Questo inferno politico-terroristico, che trascina centinaia di migliaia di persone in un baratro senza fondo e senza prospettive, è proprio quel che Siniora ha definito «la morte del progetto nazionale palestinese». E che questo sia l’esito è di evidenza solare, perché soltanto un pazzo o un ipocrita potrebbe sostenere che sia realista e praticabile una ripartizione territoriale in due stati, uno dei quali anziché essere governato da una classe dirigente capace di garantire l’ordine e la legalità all’interno e di trattare la pace all’esterno, resta in balìa di una sanguinosa guerra per bande la cui posta in gioco è il decidere quale sia il modo migliore di arrostire lo stato confinante. Ma se siamo a questo punto, occorre chiedersi come ci si sia arrivati e come se ne possa uscire. È una risposta dovuta a due popoli che soffrono e, in particolare, al popolo palestinese che è ostaggio e vittima di un mito assurdo e impossibile e le cui sofferenze possono cessare soltanto uscendo da questo mito.
Immaginiamo già le grida di scandalo: dunque Israele avrebbe diritto ad essere un’entità nazionale e i palestinesi non l’avrebbero? È quasi superfluo dire che non ci curiamo di chi strepita contro i diritti di Israele in nome di una critica del sionismo in quanto espressione di un’odiata ideologia “nazionalista”. È davvero una bella coerenza considerare nobile l’idea di identità nazionale quando si tratta dei palestinesi e spregevole nel caso del progetto sionista! Per parte nostra, non abbiamo nulla contro l’idea di nazione. Siamo anzi fermamente convinti che l’idea di democrazia, e in particolare di democrazia liberale, e la sua intrinseca propensione a diffondere i principi dei diritti della persona in una cornice universalistica, abbia preso corpo storicamente entro le realtà nazionali e che ancor oggi nessuno sia riuscito a definire chiaramente un contesto diverso entro cui far vivere e prosperare la democrazia. Può certamente darsi una realtà nazionale senza democrazia ma è difficilmente pensabile una democrazia al di fuori del supporto di un tessuto nazionale. Inoltre, il costituirsi di un’identità nazionale ha sempre implicato un esercizio della forza e anche una certa dose di violenza e non può quindi negarsi che la creazione dello stato d’Israele abbia determinato sofferenze e ingiustizie per la popolazione araba residente nei territori su cui lo stato d’Israele si è costituito. Del resto, non è abituale, in certi ambienti, giustificare l’esercizio della violenza da parte dei palestinesi con l’argomento che essa sarebbe l’espressione inevitabile di una lotta di liberazione nazionale?
Tuttavia, se non abbiamo nulla contro l’idea di nazione, la costituzione di una nazione non è un diritto astratto e non si realizza a tavolino, bensì trova la sua legittimità nella realtà storica concreta. Altrimenti, semplicemente non ha luogo ad essere. La formazione di un’identità nazionale ha come condizioni necessarie l’esistenza di un progetto condiviso di costruzione di una società, di ideali comuni, un tessuto culturale e linguistico, e inoltre la manifestazione più chiara – e assolutamente indispensabile – di tale comunione di intenti: ovvero che il potere di esercitare il diritto e la forza deve appartenere a un’entità statuale unica. Soltanto lo stato può avere un esercito, una polizia, una magistratura: l’inesistenza di questo requisito è la prova assoluta che non esistono le condizioni minime per un progetto di costruzione di una società nazionale. Israele è riuscito a soddisfare queste condizioni, ed è riuscito a realizzare l’ultimo e imprescindibile requisito disarmando i suoi gruppi terroristici; e lo ha fatto addirittura nel vivo dello scontro con le potenze arabe circostanti che volevano soffocarne la nascita. Se Israele non fosse riuscito a fare questo non sarebbe mai nato, o si sarebbe rapidamente dissolto. Non entreremo quindi nelle interminabili diatribe circa il carattere “artificiale” del recupero di un’identità nazionale ebraica dopo duemila anni di dispersione: i fatti storici hanno dato la risposta e hanno mostrato che tale identità aveva un senso, era perfettamente possibile ed aveva basi così solide da superare prove di incredibile durezza. Il discorso dell’“artificialità” potrebbe essere applicato alla formazione della nazione italiana e, ancor di più, di quella greca, in cui il recupero di una lingua greca unificata ha avuto caratteristiche non molto dissimili dall’istituzione dell’ebraico moderno; e un discorso analogo ai applica a molte altre situazioni. In tutti questi casi, la risposta è venuta dai processi storici reali che hanno visto il realizzarsi di quei requisiti indispensabili di cui si diceva sopra.
Spesso si ha l’impressione che si sia diffuso un modo irrazionale di leggere i fatti storici. Non mi riferisco soltanto alle tesi bizzarramente relativiste di chi sostiene che “noi occidentali” siamo prepotenti perché pretendiamo di imporre l’idea che lo stato debba essere l’unico detentore del potere mentre è “legittimo” che altri ritengano che un partito politico (per esempio, Hezbollah) possa possedere la propria forza militare. Penso alle tesi non nuove di chi ha giustificato il terrorismo palestinese sostenendo che anche il Risorgimento italiano ha avuto i suoi terroristi (Mazzini) e i suoi eversori dell’autorità costituita (Garibaldi). Ragionamento quanto mai bislacco perché, se anche concedessimo per esercizio dialettico – e non lo concediamo affatto – che Mazzini fosse un qualsiasi terrorista, la legittimità della nazione italiana si è fondata sull’affermazione, persino brutale ma sacrosanta e salutare, di un’autorità statuale unica detentrice del diritto di esercitare la forza (come apprese Garibaldi in Aspromonte). Il guaio è che, dimenticando o denigrando i processi storici che hanno condotto alla formazione delle realtà nazionali democratiche occidentali – e, quel che è peggio, perdendo così gli strumenti per capire per quali ragioni la democrazia vi è stata distrutta nel Novecento – si arriva a giustificare il terrorismo come via legittima per la formazione di una realtà nazionale, anziché come un’escrescenza infetta da eliminare al più presto, proprio nell’interesse di quella causa.
Ma andiamo indietro. Oggi abbiamo dimenticato che nessuno ha mai conosciuto, fino al 1964, la parola “palestinese”, peraltro derivata da una denominazione imposta dall’Impero romano a quelle terre dopo la dispersione della presenza ebraica. La storia non ha mai conosciuto né l’esistenza né il nome di un “popolo palestinese”: si ricordi che fino al 1967 si è sempre e soltanto parlato di conflitto “arabo-israeliano”. L’attribuzione di un’identità specifica alle popolazioni residenti nella regione è frutto della creazione dello stato di Israele, una sorta di feed-back di tale evento, peraltro largamente favorito dal rifiuto dei paesi arabi delle modalità di risoluzione del contenzioso proposte dalle risoluzioni Onu e dalla decisione con cui, nel 1964, una conferenza della Lega araba creò una “Organizzazione di Liberazione della Palestina” dapprima retta da un pallido fantoccio, Ahmed Shukeiri, e poi passata nelle mani del capo del movimento terroristico Fatah, Yasser Arafat. Creazione assolutamente artificiale, quindi. Ma – si dirà, sulla base del discorso precedente – anche le creazioni artificiali, persino le più artificiali, possono riuscire a farsi un posto nella storia e ad acquisire dei diritti. Guardiamo allora a cosa è avvenuto in quarant’anni di lotte per la costituzione di un’identità nazionale palestinese e se esso ha corrisposto alle condizioni minime che abbiamo sopra enunciato. La risposta è negli eventi di quest’ultimo anno e di questi ultimi giorni e nella pesante frase di Hanna Siniora: nulla. Non è stato costruito nulla altro che un progetto di distruzione di cui sono vittime non soltanto gli israeliani ma ancor più i palestinesi.
Le cause sono molteplici e sono da ricondursi principalmente alla responsabilità della grande maggioranza dei paesi arabi e islamici, oltre che a una diffusa ipocrisia dell’occidente. Il progetto della costituzione di un’entità nazionale palestinese era profondamente insincero: nella politica dei paesi arabi quel progetto era pensato non con l’intento di realizzarlo davvero, ma soltanto come un’arma di pressione contro Israele e un modo per scaricare esclusivamente su Israele il problema dei profughi. Nelle mani di Arafat poi, esso è divenuto un programma apocalittico di distruzione di Israele che non ha mai contemplato seriamente alcun accordo di pace, se non come tappa provvisoria verso l’esito finale della distruzione dell’ “entità sionista”, come ancor oggi recita la carta di Fatah. E, soprattutto, non ha mai contemplato alcuna idea di costruzione di un’entità nazionale proiettata verso la solidarietà sociale, la crescita economica, il benessere, una vita ordinata e regolata dalla legge, una struttura statuale fondata sul conferimento della forza a un potere legittimo, la soppressione delle bande armate. Taluno dirà, ovviamente, che Israele ha reso ciò impossibile. Ma si guardi ai fatti. Non appena si sono realizzati degli accordi di pace essi hanno prodotto l’effetto contrario a quel che ci si doveva attendere. Dopo Oslo vi fu un’esplosione drammatica del terrorismo. La formazione di un’Autorità Nazionale Palestinese non ha prodotto affatto la sparizione delle bande armate, al contrario. Il ritiro da Gaza non ha suscitato la minima spinta a uno sviluppo economico e sociale e a una riorganizzazione dei poteri in senso democratico, bensì la striscia è diventata un’enorme deposito di armi e una base per il lancio di missili verso Israele che hanno ridotto Sderot a una città fantasma. Gli ingentissimi aiuti economici dell’occidente – che, come è stato osservato, avrebbero consentito di costruire una villa con piscina per ogni palestinese – sono stati interamente utilizzati per procurarsi armi, finanziare il terrorismo e produrre una enorme e capillare propaganda antiebraica.
Qui arriviamo all’altro aspetto centrale che evidenzia il carattere distruttivo del “progetto nazionale” e l’irresponsabile follìa con cui è stato condotto dai gruppi dirigenti palestinesi. Nulla è stato fatto per creare una disposizione alla convivenza pacifica e tutto quel che era possibile fare è stato fatto per alimentare l’odio più sfrenato, la giustificazione del terrorismo più efferato, fino alla terrificante esaltazione dell’esplosione suicida persino presso i bambini di pochi anni. Tutto è stato fatto per denigrare la figura dell’ebreo, persino tentando di svellere i diritti di Israele con il ricorso al negazionismo della Shoah e diffondendone i veleni in un’Europa che già è abbastanza malata di per sé per non dover subire ulteriori contagi.
Abbiamo detto che un progetto nazionale contiene inevitabilmente una certa dose di violenza intrinseca, ma quando non contiene alcuna spinta positiva interna e volta a finalità condivise, bensì trova soltanto ragion d’essere e alimento nell’odio e nella volontà di distruzione dell’altro, allora esso è minato dalle fondamenta. Si parla tanto di negazione israeliana dei diritti dei palestinesi e non si dice una sola parola dell’oscena campagna cui stiamo assistendo in un crescendo che ha assunto toni parossistici da Camp David in poi – e che sta contaminando anche le coscienze in occidente – secondo cui una presenza ebraica in Palestina non ci sarebbe mai stata, secondo cui persino il Tempio di Gerusalemme non è mai esistito e il Muro del Pianto è un insieme di pietracce qualsiasi. Tutto è ed è sempre stato “palestinese”; anche – supremo obbrobrio – Gesù era “palestinese”… Persino i fatti storici più inconfutabili vengono sostituiti con una storia che, ancor più che artificiale, è assolutamente inesistente. Si parla dei diritti conculcati dei musulmani ad accedere a Gerusalemme, dimenticando che mai la città ha conosciuto una simile condizione di libertà di accesso ai luoghi santi quanto negli ultimi quarant’anni; prima dei quali agli ebrei era vietato l’accesso al Muro occidentale, l’antico quartiere ebraico era stato distrutto e le lapidi del millenario cimitero del Monte degli Ulivi erano usate come pisciatoi o per lastricare strade. Oggi, l’indicazione di quel che diventerebbe Gerusalemme vecchia sotto controllo palestinese è data dal comportamento dell’autorità islamica delle Moschee sul Monte del Tempio che, mentre protesta per ogni scavo israeliano condotto all’esterno del complesso, ha svuotato il sottosuolo dove sorgeva il Tempio per costruirvi una terza moschea, gettando nella spazzatura quintali di resti archeologici, compiendo così quella che, per un ebreo religioso, è un’autentica profanazione.
Si possono legittimamente criticare i governi israeliani, i loro errori, le loro sordità, ma qui siamo in presenza di una situazione inaccettabile. È impossibile non vedere che la formazione di uno stato su queste basi è soltanto la premessa per la creazione di un mattatoio.
Ha detto ancora Siniora: «Noi palestinesi non siamo abbastanza maturi per accettare di condividere l’autorità e per far funzionare una coalizione. Yasser Arafat ha dominato per quarant’anni conservando tutto il controllo nelle sue mani. Dopo di lui, Hamas ha governato per un anno come un partito unico. Non siamo capaci di capire che cosa significhi un’alleanza politica». Ed ha aggiunto che l’accordo di febbraio a La Mecca «era fragile fin dall’inizio. È stato come incollare due materiali opposti, senza cemento. Le violenze interne sono colpa di Hamas e del Fatah. Avrebbero dovuto porsi come priorità la fine dell’occupazione israeliana e poi discutere di chi comanda. Non hanno messo gli interessi della causa palestinese in cima ai loro obbiettivi. È una vergogna».
E qui già non ci siamo più. La vergogna non è che Hamas e Fatah non abbiano messo come priorità la fine dell’occupazione israeliana per poi discutere di chi comanda, Difatti, proprio la chiarificazione di chi comanda costituisce la condizione minima per pretendere la fine dell’occupazione israeliana. Sarebbe stato forse ragionevole far finta di mettersi d’accordo per ottenere i territori occupati e poi regolare i conti sparando? È davvero pensabile che possa nascere una nazione degna di questo nome su simili basi? Ed è pensabile che anche il governo israeliano più pacifista e aperto possa accettare la costituzione di uno stato strettamente adiacente, anzi avvinghiato al suo e per di più dotato di continuità territoriale, ridotto essenzialmente a una base di bande terroriste? Sarebbe quanto accettare signorilmente il suicidio, senza che questo serva a far avanzare di un centimetro il popolo palestinese verso una condizione migliore.
È indicativo e inquietante che anche una persona ragionevole come Siniora coltivi una simile confusione. Egli dice che «gli israeliani si sono ritirati da Gaza senza offrire una soluzione politica. Questo ha permesso a Hamas di proclamare che “la resistenza porta a risultati”». In tal modo, egli non fa altro che approfondire la spiegazione delle cause della «morte del progetto nazionale palestinese». È difatti assurdo pretendere la nascita di uno stato palestinese indipendente e poi chiedere che Israele lo tuteli e lo organizzi. Israele non poteva né doveva offrire una soluzione politica: doveva forse imporre militarmente il prevalere di un’autorità statuale unificata? Il ritiro da Gaza era la grande occasione per mostrare che poteva nascere finalmente un primo nucleo della nazione palestinese, capace di autogovernarsi e di compiere quegli stessi atti che avevano legittimato la formazione dell’entità nazionale israeliana e che (nel progetto di Sharon e di Kadimah) avrebbe aperto la strada ad ulteriori ritiri. Al contrario, si è affermata una strategia opposta e proiettata verso la guerra eterna.
Se errore di Israele vi è stato, è stato quello di trascurare il fatto che gli accordi seri, duraturi e costruttivi non si fanno con i gruppi terroristici bensì tra nazioni che, se pure non pienamente democratiche, quantomeno siano fondate sul principio che la gestione del potere appartiene esclusivamente allo stato. Israele ha dapprima esperito il tentativo di fare un trattato di pace con un’organizzazione terrorista. Si è visto a cosa abbia portato questo: alla seconda intifada degli attentati suicidi. Ha quindi provato la via opposta, e cioè di un disimpegno unilaterale, sperando che emergesse una leadership palestinese postarafattiana capace di porre le basi di un’entità statuale con cui trattare credibilmente il resto del contenzioso. Anche questo secondo tentativo è fallito ed ora siamo nel punto più basso della catastrofe. È comprensibile che l’ipocrisia dominante abbia reso, e renda, difficile dire che gli unici interlocutori possibili e credibili erano, e sono, le nazioni confinanti. Ma ormai siamo arrivati allo snodo finale.
In fondo, sembra che questa situazione Siniora la comprenda appieno, più o meno nel modo in cui la stiamo presentando noi. Difatti egli dice che «Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est dovrebbero essere collocate sotto l’amministrazione della Lega Araba, dopo una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. I negoziati di pace ripartirebbero tra gli israeliani e la Lega, sulla base dell’iniziativa saudita e del documento approvato a Beirut nel 2002. È ora che le nazioni arabe si prendano le loro responsabilità, siamo stanchi della retorica».
Mettiamo via gli ultimi orpelli retorici, come il richiamo all’iniziativa saudita: a questo punto, un negoziato serio deve partire da zero e senza condizioni preliminari. A parte questi orpelli, occorre dar atto a Siniora di aver detto l’indicibile, e cioè che occorre mettere da parte il tema della costituzione della nazione palestinese e andare a un negoziato diretto tra Israele e i paesi arabi. Sarebbe ancor più concreto dire che occorre andare a un accordo tra Israele e i paesi confinanti coinvolti direttamente nella vicenda, ovvero Giordania ed Egitto. E questo per realizzare la costituzione di entità territoriali associate a questi stati in forme federali e da dotare di autonomia amministrativa in un futuro pacificato, in modo da garantire finalmente alle popolazioni condizioni di vita degne, libere dal terrorismo e dalla violenza e proiettate verso un progresso economico e civile cui contribuirà la comunità internazionale. È inutile dire che, in un simile processo, Israele dovrà assumersi tutte le sue responsabilità e giocare un ruolo determinante. Non soltanto le nazioni arabe, ma tutta la comunità internazionale deve uscire dalla retorica e dall’ipocrisia. Ormai, nel mondo opaco del politicamente corretto in cui viviamo, l’indicibile è diventato l’unico modo di parlare della realtà e in modo realistico.

Giorgio Israel e Giuliano Ferrara

(da Il Foglio)

1 commento:

Enzo ha detto...

Bellissimo articolo, soprattutto alla luce degli ultimi eventi che vedono un'organizzazione terrorista, Hamas, controllare le sorti dei Palestinesi di Gaza!
Complimenti.