mercoledì 15 luglio 2009

Ipocrisie sull'università

Tra le tante ipocrisie che aleggiano sulla questione universitaria ve n’è una tanto più grande in quanto se ne parla poco. Si tratta del fatto che nell’arco di un decennio metà del corpo docente andrà in pensione e avverrà un colossale ricambio generazionale, tanto più radicale in quanto, per i continui “stop and go” nel reclutamento, mancheranno all’appello intere fasce di età. È ipocrita strepitare contro i “baronati”, additati come resistenza corporativa alle riforme, visto che saranno smantellati: la responsabilità del futuro dell’università sta tutta nelle mani della politica e dei giovani docenti, per lo più dei docenti da reclutare.
Come al solito, le generalizzazioni sono sballate e l’attribuzione di tutte le colpe ai vecchi “baroni” è una grande e ipocrita bugia. In verità, il sistema di reclutamento per cooptazione vigente nelle università fino agli anni settanta era di gran lunga più rispettoso del merito di tutti i sistemi successivi. Il trentennio passato ha visto un diluvio di assunzioni ope legis esplicite o mascherate da concorsi, il tutto assortito da “riforme” che sotto le nobili etichette dell’“autonomia” e della “modernizzazione” hanno frantumato la didattica in minicorsi e corsi molecolari, in dispregio di ogni seria visione culturale; costringendo gli studenti (che se ne lamentano) a rincorrere miriadi di esamini, senza una pausa per riflettere e assimilare; trasformando i docenti in burocrati dediti non più a pensare ai contenuti dei loro corsi, bensì a discettare sulla ripartizione dei crediti attraverso conteggi da far impallidire un cabalista. Più che la categoria indifferenziata dei “baroni”, i docenti da criticare sono quelli che si sono adeguati a questi autentici misfatti commessi da politici irresponsabili e da sindacati avidi di potere. Spesso è stata subordinazione politica nei confronti di una sinistra che non sapendo cosa fare dell’università pensò che l’unica soluzione fosse fare a pezzi tutto e poi ricominciare daccapo (fu detto esplicitamente!), anche se non riuscì a fare nessuna delle due cose, bensì soltanto a sgretolare il sistema. Le acquiescenze e le complicità sono state gravi, ma offrire una falsa autonomia – che non concedeva nulla sul piano economico e tutto circa la possibilità di inventarsi i corsi di laurea più strampalati – era un invito esplicito al degrado.
Il problema che abbiamo di fronte è l’eredità di un trentennio in cui si è disperso il senso del ruolo dell’istituzione. L’università andrà in mano a chi non ne ha conosciuto un’altra, bensì soltanto una in cui è considerato normale che un credito valga per legge un certo numero fissato di ore di studio indipendentemente dal fatto che lo studente sia Einstein o l’ultimo degli asini, in nome del più stolido egualitarismo demagogico contrabbandato sotto l’etichetta dell’oggettività nell’organizzazione della didattica. Abbiamo educato intere generazioni a considerare normale che una quota esorbitante del proprio tempo di lavoro sia dedicata a mansioni organizzative e burocratiche inutili e ridicole. Grande è la vitalità della mente umana e la capacità della cultura di rigenerarsi. Ma qui ci vuole una dose di ottimismo da cavalli.
Pertanto una delle più grandi ipocrisie è che non si parli di queste cose, che non si parli mai di contenuti bensì soltanto di marchingegni di ingegneria istituzionale. Ha ragione Giavazzi a battere sul tasto dell’autonomia finanziaria e della necessità di permettere alle università di aumentare le tasse creando borse di studio per i meritevoli. Ma cascano le braccia quando si sentono riproporre altre litanie, come quella di rendere le università centri sempre più dipendenti dal territorio. Ma davvero, nell’epoca della globalizzazione, può credersi che una grande università sia tale perché collega ricerca e insegnamento alle forme produttive del territorio – piastrelle, sedie – e non perché è un grande centro di formazione e ricerca internazionale? Davvero qualcuno crede che la qualità di Harvard dipenda dal rapporto con il tessuto produttivo bostoniano? E cascano parimenti le braccia quando si sente dire che il toccasana è mettere in mano le scelte della ricerca e dell’insegnamento a un “management” puramente extrauniversitario – sul modello fallimentare della riforma sanitaria. Chi pensa così o non sa cosa sia un’università propriamente detta, oppure, avendo perso ogni speranza circa il futuro della nostra, mira a farne un ufficio studi confindustriale. In entrambi i casi avremmo messo il coperchio sulla pentola fabbricata da un trentennio di scelte sbagliate.
Auguriamo al ministro Gelmini di riuscire a infondere nell’università un impulso di riscatto morale e culturale, similmente a quanto sembra accadere nella scuola, da alcuni primi sintomi. Ma certo la partita è dura, soprattutto se ci si mette di mezzo l’ipocrisia e la pervicace volontà di non apprendere le lezioni.
(Libero, 15 luglio 2009)

17 commenti:

Celer ha detto...

Sulla strada del riscatto morale e culturale propongo al ministro Gelmini e ai docenti universitari doc ( non contrattisti presi a prestito dalla politica, dallo spettacolo o dalla scuola)una piccola iniziativa estiva: impedire che vengano tenuti presso le università statali stesse, con la collaborazione di docenti universitari(molto giovani? 68ottini ingrigiti? ingordi di soldi senza fondo? Chissà, ma non ha nessuna importanza)corsi di preparazione ai test di ammissione per i corsi a numero programmato ( cioè chiuso). Per me, e per tutti i docenti della commissione di maturità da me presieduta, è stata una scoperta (l'ennesima)veramente stomachevole, un'ulteriore colpo alla residua speranza per i nostri figli. Che ci siano docenti universitari che consentono nell'università o che addirittura collaborano a corsi di preparazione per superare i quiz dell'Alpha test, è davvero troppo...e con tanto di quantificazione economica: 1500€ medicina, 440 scienze della formazione, ecc. ecc. L'unica consolazione: in una percentuale significativa i giovani che pagano per fare queste "lezioni" non passano comunque, perchè resta sempre più efficace la prostituzione della propria madre o il papi medico. Lei non crede che costoro dovrebbero un pochettino vergognarsi? Ed è troppo comodo fare i distinguo all'interno della categoria quando non parliamo di eccezioni, ma di regola in nome dell'autonomia cioè degli interessi privati dentro le istituzioni pubbliche! Che ne direbbe di una pubblica ammenda magari attraverso un bel mea culpa sul Giornale e un'autoriduzione dello stipendio da versare in vera ricerca scientifica? Mi sembrerebbe una proposta equa e magnanima e meritatissima!Un buon esempio per imboccare, con un'inversione a u, la strada dell'identificazione con i buoni maestri.

peppe ha detto...

Condivido in pieno la critica alle recenti riforme dell'Università ed è vero che "nell'arco di un decennio metà del corpo docente andrà in pensione". Per scoprirlo è sufficiente analizzare con un pò di accortezza i dati contenuti nel "Nono Rapporto sullo Stato del Sistema Universitario" pubblicato sul sito del "Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario". Un dato preoccupante però è quello relativo all'età media dei docenti e dei ricercatori all'ingresso nei ruoli che è attorno ai 51 per gli ordinari, ai 44 per gli associati ed ai 37 per i ricercatori. Nel caso dei ricercatori, l'età media di ingresso è aumentata di ben 5 anni a partire dal 1980! E' evidente che c'è stato un abuso di tutte le forme di reclutamento a tempo determinato (assegni di ricerca in particolare) che ha di fatto ritardato l'ingresso in pianta stabile di parecchia gente. Sono anni che sostengo che il sistema di reclutamento per cooptazione sia di gran lunga più corretto dei finti concorsi dietro ai quali chi tira la pietra nasconde la mano ...

Luigi Sammartino ha detto...

Se si deve vincolare il contenuto della didattica universitaria al territorio, allora la si può anche chiudere l'università.

La stragrande maggioranza delle aziende italiane non ha bisogno di laureati. E quando i laureati vengono assunti, in realtà fanno un lavoro che nulla ha a che vedere con gli studi che hanno fatto.

Negli anni '50 e '60 la laurea era uno strumento di riscatto economico e sociale. Erano gli operai che si trasferivano da sud a nord, mentre un laureato poteva impiegarsi decentemente pur rimanendo a vivere nel Mezzogiorno.

Io in teoria sarei contrario ad un innalzamento delle rette, come sarei contrario pure alle borse di studio date a presunti geni. Chissà se il dislessico Einstein l'avrebbe vinta oggi una borsa di studio in base a questi tanto reclamati metodi meritocratici.

Ma, a pensarci bene, in realtà i poveri si sono già tolti da soli dall'università e hanno fatto benissimo. Perché hanno capito già da tempo che la laurea non serve proprio a niente.

All'università ormai ci vanno solo i ricchi e i figli di papà, quelli che anche dopo la laurea si possono permettere di essere mantenuti per anni, o che c'hanno il posto da notaio già pronto. Quindi mi sembra giusto che questi paghino delle rette dcuplicate, per poter permettere ai loro figli di continuare a giocare e a divertirsi mentre i poveri si alzano la mattina presto e vanno a lavorare.

Unknown ha detto...

per luigi sammartino: lei, comunque, è laureato e farà laureare suo figlio, che farà laureare suo figlio ecc.ecc.
è ai ricchi che la laurea non serve a niente, proprio perché son ricchi. se, oggi, trovare un posto essendo laureati è difficile, trovarlo senza esserlo è impossibile.
non sto neanche a rimarcare che nessuno di noi, colti e benestanti frequentatori del forum andrà mai (né manderà suo figlio/a), a fare non dico l'asfaltista, ma neanche l'infermiere.

Luigi Sammartino ha detto...

per Ilaria.

Per un diplomato trovare lavoro è più facile che per un laureato per tantissime ragioni, la più importante delle quali è che è giovanissimo.

All'inizio magari non sarà pagato benissimo, ma dopo cinque anni la sua retribuzione sarà decente. Certamente deve avere le competenze giuste per il business (gli skill adeguati, come si dice in azienda). Ma nessuno dei percorsi universitari fornisce tali competenze.

Questo è quello che ho fatto io dopo essermi diplomato Perito Informatico. E mi è andata benissimo.

Un Ingegnere del Politecnico di Milano non può aspirare a più di 1.300-1.500 euro al mese, e il suo percorso di crescita aziendale è uguale a quello di un diplomato dopo alcuni anni di esperienza.
Parlo del Politecnico di Milano perché è considerato l'istituto universitario tra i migliori in Europa nel campo della formazione degli ingegneri.

La laurea non è necessaria nemmeno alla carriera. Moltissime società sono gestite da diplomati e in molte multinazionali il top management ha una buona percentuale di diplomati.

In un blog ho letto addirittura il commento di un una persona che lavora per una nota società di assicurazioni. Questa persona ha dichiarato di avere la 3a media e tuttavia un ruolo di ampia importanza in azienda, e ha dichiarato che la sua compagnia evita di proposito di assumere laureati che reputa inadatti alle mansioni da svolgere.

Il lombardo-veneto (una delle aree più ricche e produttive d'Europa) è costituito in massima parte di aziende di livello tecnologico medio-basso. Un percorso da istituto professionale è sufficiente per coprire adeguatamente tutte le figure professionali necessarie.

Nei siti universitari ci raccontano che matematici e fisici trovano facilmente lavoro. Questo sarà pure vero. Tuttavia per montare e smontare classi Java, fare qualche connessione a un DB ed estrapolare dati in SQL non c'è bisogno di aver studiato il calcolo differenziale e integrale e nemmeno l'equazione di Schrödinger Basta un corsetto di pochi mesi.

Infine, lasci perdere la mia laurea. L'ho presa per passione e mi ha dato quasi solo problemi dal punto di vista lavorativo. Se avessi un figlio, certamente sarei contento che studiasse, ma lo spingerei a lavorare nel frattempo, e soprattutto lo invoglierei allo studio delle tre lingue principali dell'unione europea.

Mi vorrà scusare il tono pessimistico, ma così stanno le cose.

La saluto cordialmente.
Luigi Sammartino.

RICCARDO SEGRE ha detto...

non è del tutto vero...
Certamente la laurea serve per trovare un lavoro ma è prima di tutto, a mio parere, una scuola di metodo per sviluppare il pensiero e la logica. E' quindi anche vero che un laureato in economia puo andare a fare tutt'altro dopo la laurea ma questo perchè avrà sviluppato particolari capacità durante la laurea.
Poi certo se si riesce, magari viaggiando, a sviluppare le stesse capacità allora la laurea non risulta piu necessaria.
Vedi esempi celebri di imprenditori, come Bill Gates, che non hanno finito l'università.

Questa distinzione tra ricchi e poveri mi sembra un pò una banalità, lo studio serve a tutti e all'università ci vanno tutti.

Riccardo

Unknown ha detto...

per. l. sammartino
boh. non so quanti giovani frequentano questo blog. se ci sono, lei si prende una bella responsabilità a dire loro che si diventa dirigenti con la terza media. diventano dirigenti con la terza media quelli che il papi è padrone dell'azienda (perdoni l'ardito anacoluto).
per gli altri sono lacrime e sangue (e anni di studio).
un cordialissimo saluto anche a lei

Unknown ha detto...

ps sempre per l. sammartino (poi basta, giuro!): lei si farebbe operare da un chirurgo che ha fatto un "corsetto" per usare le sue parole? o attraverserebbe un ponte progettato da un ingegnere che ecc.ecc.ecc.ecc. ...?

di nuovo, un saluto cordiale

Luigi Sammartino ha detto...

Gent.le Ilaria.

A dir la verità, io non mi farei operare nemmeno da medici che sono usciti da certe università.... :)

Riguardo ai ponti, non so cosa risponderle. Ad ogni modo nei cantieri edili ci sono anche moltissimi geometri.

Ovviamente, riguardo a ciò che ho detto, mi prendo le mie responsabilità. E rinnovo il mio consiglio ai ragazzi: non state troppo dietro all'università, fate molte esperienze di lavoro quando siete giovanissimi e imparate quante più lingue potete. Anzi, proprio a tal proposito la inviterei a vedere quanto dice l'imprenditrice Luisa Todini. E ciò che lei dice mi trova totalmente d'accordo.

http://www.youtube.com/watch?v=5fjWeQ60QeM&NR=1

La Todini parla pure della necessità di far convergere istituti tecnici con i licei...meno male che non sono il solo a pensarla così.

Sempre cordialmente.

Unknown ha detto...

per l. sammartino again.
non vorrei che la cosa diventasse un discorso a due. comunque il famelico cestino del nostro moderatore-padrone è sempre, giustamente, in agguato. questa sua fiducia nel valore taumaturgico del diploma mi lascia, glielo dico francamente, un po' perplessa. le faccio un esempio rapido e senza alcun valore scientifico, ma insomma. mia madre ha insegnato per una vita un istituto tecnico per ragionieri (parlo degli anni dalla fine dei '50 alla fine degli '80). ebbene, le banche chiedevano a lei, prof. di lettere, una presentazione dei migliori allievi dell'ultimo anno, che venivano contattati PRIMA della maturità. era diversa la scuola, era diversa l'università, era diversa l'italia (ero diversa io, che ero una bambina...). oggi i diplomati in ragioneria vanno nei call center (se son fortunati) e allo sportello in banca ci sono i laureati della triennale, se non della specialistica, in economia. e infine: non si scusi per il suo pessimismo, io sono più pessimista di lei.
ps. non ho ancora guardato il link che mi segnala, e di cui la ringrazio. a presto per un commento.

broncobilly ha detto...

La stragrande maggioranza delle aziende italiane non ha bisogno di laureati. E quando i laureati vengono assunti, in realtà fanno un lavoro che nulla ha a che vedere con gli studi che hanno fatto.

Forse un po' radicale ma vero. E noto. Meno noto che sia così un po' ovunque nel mondo: le abilità dei lavoratori, diversamente dai loro compensi, hanno scarsa correlazione con gli studi fatti. Al punto che qualcuno comincia a enfatizzare le funzioni alternative degli studi superiori: Università come "griffe", Università come agenzia matrimoniale , Università come auto-indottrinamento...

vanni ha detto...

Se è vero che la stragrande maggioranza delle nostre Aziende non ha bisogno di laureati (intendiamo laureati cui la Scuola abbia fornito i giusti insegnamenti e sviluppato le giuste potenzialità) e quanto segue, non so come la vediate Voi guardando verso il futuro, ma io vedo della gran nebbia e non altro.
Se non cominciamo a crederci noi che la Scuola serve - perché poi è vero! - e ad operare perché ciò sia riconosciuto, allora tutto sarà declinante. La fiducia nella utilità fondamentale della Scuola e dello studio va dichiarata, professata, messa in pratica da chi può; non possiamo mica stare seduti a fotografare il mondo. Poi certo nella formazione di una persona le strade sono tante, ma la Scuola è quasi semprel'occasione più grande che ci viene data per migliorare, perchè guarda al futuro per noi, costantemente.

Luigi Sammartino ha detto...

Non penso di aver detto qualcosa che meriti di essere cestinato, anche perché ho espresso un'opinione in assoluta sintonia con quello che asserisce il professore.

L'università si deve occupare della Cultura (quella con la C maiuscola). Se poi il territorio non sa digerire i suoi laureati, devono essere per primi loro a rendersene conto, e cercare di associare alla formazione culturale anche un'adeguata competenza tecnica e professionale.

Comunque, volevo dire alla s.ra Ilaria che agli sportelli di banca ci vanno anche i matematici, come è accaduto a un mio ex-collega che ha vinto un concorso. Non era un laureato triennale..era un laureato di quelli vecchio tipo.

Non so lei di dove sia, ma le posso garantire che nel Lombardo-veneto un perito industriale, un ragioniere, o anche un liceale che ha fatto un adeguato corso professionale, non soffre di certo la disoccupazione..anzi!!

Cordialmente.

Unknown ha detto...

per il sig. sammartino.

stiamo dicendo la stessa cosa: se il suo amico laureato in matematica è finito in banca, se era diplomato ora era al call center.

buona estate a tutti
i.v.

Universitas ha detto...

Mi trovo daccordo con la maggior parte di quanto detto nell'articolo, ad eccezione delle ultime due cose: la dipendenza del territorio e il management esterno. Nel primo caso mi permetto di dire che il prof.Israel non vede a pieno la realtà costituita da un tessuto produttivo italiano fatto da piccole e medie aziende incapaci di avere una struttura di ricerca e sviluppo interna. Per queste la presenza di una università attenta e vicina, e se queste imparassero a sfruttare l'opportunità offerta, sarebbe l'ideale. Questo vantaggio è anche per le università che possono laureare studenti meglio preparati e ottenere risorse economiche altrimenti difficili da ottenere. Io faccio ricerca e insegno in una università considerata come centro di eccellenza internazionale in alcuni settori e ciò è reso possibile anche dal contatto diretto e quotidiano con le aziende del territorio che, in questi settori, combattono con successo in tutto il mondo. La mia ricerca e la mia didattica sono enormemente migliori perchè ciò che faccio e insegno non è scritto sui libri, ma è appreso dalla collaborazione con le aziende. Questo sarà vero per la mia area, quella ingegneristica, non forse per quella matematica o filosofica, ma proprio per questo non farei delle generalizzazioni. Per quanto riguarda il manager esterno, io ritengo che un medico, un ingegnere, un filosofo, un geologo non hanno la preparazione (in generale) per diventare un manager, anche se lo chiamiamo rettore. Una persona opportunamente scelta e competente in quelle materie necessarie all'organizazione di una struttura complessa come una università non mi sembra una idea così assurda. Il corpo docente dovrebbe mantenere solo una funzione di indirizzo e controllo, con possiblià di revoca del mandato.

Giorgio Israel ha detto...

Credo che lei si renda conto che, con tutto il sincero rispetto per la ricerca che lei fa questa non è "la" ricerca scientifica. E' soltanto una forma importante e rispettabile di ricerca applicata. Gran parte delle applicazioni dell'Ottocento derivano dalle equazioni di Maxwell e nel Novecento dalla meccanica quantistica, le quali non sono state certamente elaborate in fabbrica. La ricerca teorica è fondamentale ed è- mi scusi - pericoloso e aberrante vincolare la ricerca universitaria al territorio, tanto più a una piccola industria come quella italiana. Quanto all'idea che un "manager" debba gestire la ricerca universitaria - conoscendo soltanto tecniche gestionali e non avendo un'idea di cosa sia la ricerca - ed abbia il potere addirittura di controllare docenti e ricercatori con potere di revoca, mi fa rabbrividire. E' roba da Unione Sovietica. Mi scusi, ma questo mito dei manager non lo condivido per niente. Guardi a quale relitto è stata ridotta l'Enciclopedia Italiana da un manager che capisce di queste cose come io di danza classica.

Unknown ha detto...

Per quanto riguarda le problematiche universitarie oggi vorrei proporvi di leggere il seguente blog: http://rettorevirtuoso.blogspot.com