Non sono stato uno degli amici più intimi dello storico Victor Zaslavsky, improvvisamente scomparso il 29 novembre scorso, e quindi non sono la persona più titolata a ricordarlo. Ma proprio per questo può avere valore la testimonianza di chi, pur non avendo avuto un rapporto continuativo con lui, è stato così profondamente colpito dalla sua personalità di intellettuale e dalla sua profonda umanità.
Victor Zaslavsky ti si presentava subito come uno di quei personaggi dei grandi romanzi russi: schivo, con un sorriso un po’ ironico sul volto, ma pronto alla battuta o all’osservazione penetrante, e a offrirti i racconti affascinanti di una persona che aveva vissuto passando per mezzo mondo dopo aver abbandonato l’Unione Sovietica. Talora era anche esilarante, come quanto raccontò che il posto in cui più aveva sofferto il freddo in vita sua non era stato in Russia o in Canada, bensì… a Ostia, dove aveva soggiornato come fuoruscito. Victor era un ingegnere e questa sua preparazione scientifica mi ha fatto sempre sentire una consonanza e una comprensione immediata di temi e problemi, nelle occasioni in cui abbiamo parlato.
Naturalmente egli è noto per essere stato un grande storico che ha avuto un ruolo fondamentale nel mettere a nudo i meccanismi del potere sovietico nei suoi rapporti con i partiti comunisti dei paesi occidentali e, in particolare, con il partito comunista italiano. La sua opera storiografica si è estesa nell’arco di un trentennio ed ha scavato i temi della società sovietica nel periodo di Breznev, dell’emigrazione ebraica, della perestroika. Nessuna concessione all’ideologia da parte di Zaslavsky. Nonostante il fatto che le naturali ferite per le sue vicende personali avrebbero potuto portarlo ad atteggiamenti emotivi, egli si è attenuto al modello di una storiografia rigorosamente documentaria. Ed è in tale direzione, avvalendosi di materiali d’archivio di recente disponibilità, che ha prodotto alcune delle sue ultime opere più dirompenti. Prima di tutte, il libro Togliatti e Stalin, il Pci e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, scritto con Elena Aga-Rossi, che ha demolito il mito della svolta di Salerno e di una via togliattiana di un comunismo nazionale democratico, mostrando che quella scelta faceva parte di un preciso progetto di Stalin. Poi Lo stalinismo e la sinistra italiana del 2004, che sviluppò e approfondì questa tematica.
Un’altra opera magistrale di Zaslavsky è stata la ricostruzione del massacro di Katyn in Pulizia di classe, con cui ha smantellato definitivamente le menzogne staliniane tese a scaricare la responsabilità di quella strage sui nazisti, con la sostanziale connivenza dell’occidente. Delle conclusioni di quel libro ho più volte ripreso l’osservazione concernente l’analogia profonda che corre tra i due grandi totalitarismi del Novecento: «il tentativo di creare una società nuova, utilizzando i metodi “scientifici” dell’igiene sociale e della “purificazione” dal “contagio borghese”».
È facile immaginare quanto queste tesi fossero insopportabili per chi non ha tagliato il cordone ombelicale con il comunismo. Non posso dimenticare un convegno storico in cui un amico venne a raccontarmi di essere stato vivamente redarguito da alcuni partecipanti per essersi messo a chiacchierare con un “tipo come quello”. Zaslavsky per parte sua, aveva come scudo la sua ironia, con cui chiedeva sempre come mai non ci rendessimo conto che certe persone, malgrado le loro proteste in senso contrario, parlavano allo stesso identico modo di quei comunisti che lui aveva conosciuto fino a quando aveva vissuto in Unione Sovietica. Questa lucida ironia ci mancherà molto.
(Tempi, 16 dicembre 2009)
7 commenti:
Ai tempi delle purghe di Stalin circolava una triste barzelletta che probabilmente sarebbe piaciuta allo spirito acuto di Zaslavsky e che rivela, sebbene in maniera tragicomica, la reale follia totalitaria di quell'ideologia: tre deportati si trovano al lager di Kolyma ed ognuno spiega agli altri perché si trova lì: "io ero contro Bucharin" dice il primo, "io ero con Bucharin" rivela il secondo; "io sono Bucharin" ammette il terzo. Sarebbe da riderci sopra se purtroppo non fosse successo davvero.
Caro professore,
meno male che ci sono state e sempre ci saranno persone come Zaslavsky in grado di smascherare gli inganni che ci costruiamo per nascondere quello che non vorremmo vedere.
Sul comunismo poi... in fondo cosa aspettarsi da chi prospettava che tutto si poteva fare in nome di un futuro paradiso? Alla fine prodotto esattamente gli stessi risultati di tutte le ideologie (religioni comprese) che che non si occupano delle persone ora viventi e sofferenti ma si preoccupano solo del dopo inverificabile...
cordialmente, Fabio Milito Pagliara
Non sapevo della morte di Zaslavsky. Ne sono dispiaciuto, è stato un'importante voce di verità.
http://www.giovannidesio.it/brevi/comunis.htm
Anche a me dispiace. E credo che il comunismo sia un'ideologia criminale, come il nazismo, il fascismo, eccetera.
Il comunismo è stato peggiore del fascismo, se con quest'ultimo intendiamo la versione italo-mussoliniana, ed in un caso specifico, quello di Pol Pot in Cambogia, è stato addirittura peggiore del nazismo. Giovanno de Sio lo spiega nel suo articolo.
Il problema è, Alfredo, che i comunisti li abbiamo ancora tra i piedi, più o meno mascherati.
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