“The Wire” è una serie televisiva statunitense considerata da molti critici come la migliore di tutti i tempi. Essa racconta una serie di indagini di polizia nella città di Baltimora, e ne trae spunto per mettere a nudo i drammatici problemi di legalità, di ordine pubblico, di gestione politica, dell’istruzione e dell’informazione in una metropoli che vanta (si fa per dire) un numero di omicidi sette volte maggiore della media federale. Tra i tanti aspetti descritti dalla serie vi è un tema ricorrente: l’ossessione per le statistiche e per i numeri. Uno dei capi della polizia, il colonnello William Rawls, ha come massima preoccupazione di ottenere che la percentuale dei delitti irrisolti si mantenga sempre al disotto di una percentuale attorno al 40% dei delitti denunciati. I detective che non risolvono un numero minimo di casi all’anno entrano nel suo mirino. E fin qui niente da dire. Ma Rawls non sopporta che sobbarchino il dipartimento di polizia di nuovi casi mettendo a rischio la percentuale di “successo”. Meglio ignorare i nuovi cadaveri. Di qui la caduta in disgrazia del detective Jimmy McNulty che ha l’improntitudine di aprire un’inchiesta su un traffico di ragazze destinate alla prostituzione e morte per soffocamento in un container. Quando poi si scopre che una potente banda di narcotrafficanti ha ucciso un gran numero di rivali occultandone i cadaveri in edifici in disuso, la situazione si fa esplosiva e si cerca di soffocare la notizia. Alla fine il caso esplode e allora l’estrema trovata è di imputare il numero cadaveri alla statistica degli omicidi relativa alla gestione del sindaco precedente… Insomma, più che il successo nella lotta alla malavita, conta il successo nelle statistiche.
Fantasie narrative? Niente affatto. Qualche mese fa è scoppiato uno scandalo a New York perché un funzionario di polizia ha rivelato che le direttive dei capi erano che ogni poliziotto realizzasse ogni settimana almeno un arresto e 20 citazioni a comparire davanti al giudice, pena il trasferimento nelle zone peggiori della città. Insomma, in questo caso, si finiva con l’incentivare l’invenzione dei delitti. Il funzionario che ha rivelato il caso, ha menzionato l’episodio di sei amici che stavano passeggiando per strada: uno dei sei cade e si ferisce all’occhio. Chiamano il numero di emergenza e la polizia porta il ferito in ospedale arrestando gli altri cinque per rissa… Il giorno seguente vengono ovviamente liberati ma intanto le statistiche erano migliorate.
“The Wire” mostra anche come questa follìa abbia contagiato l’istruzione. Il poliziotto Roland “Prez” Pryzbylewski, dimesso dalla polizia per una serie di incidenti, si dedica a fare l’insegnante in una scuola a dir poco difficile, dove è un miracolo se gli studenti non si ammazzano tra di loro. Tuttavia, il professor “Prez” è talmente appassionato del suo nuovo mestiere che riesce pian piano a conquistarsi la fiducia e il rispetto della sua riottosa scolaresca. Si avvicina però la fine dell’anno e, con questa, le “valutazioni”. La direzione lo convoca e gli intima di andare al sodo: verrà valutata la scuola e sarai valutato tu e, se il risultato non è buono, perderai il posto; perciò ti conviene abbassare le pretese e addestrare gli studenti in funzione dei test che dovranno superare nelle prove di valutazione. È il famoso “teaching to the test”, l’insegnamento in funzione del test, in cui quel che conta non è che si conosca la materia, quanto di essere in grado di rispondere correttamente ai questionari contrassegnando le caselle giuste. “Prez” si ribella: «Sono venuto a scuola per insegnare», esplode. Ma c’è poco da fare, gli interessi della scuola vengono prima di tutto. Insegnare… Che ingenuità! Mi viene in mente quel membro di una commissione ministeriale che, durante una seduta, si levò in piedi per proclamare con voce stentorea: «La parola “insegnante” va cancellata dal vocabolario per sostituirla con quella di “facilitatore”»…
Tuttavia, se i paesi anglosassoni hanno la colpa di aver implementato quella colossale bestialità che è il “teaching to the test” – degno parente degli arresti effettuati in ossequio alle statistiche – va riconosciuto che dalle loro parti sta anche venendo un ripensamento. E se il ripensamento si riflette persino in una serie televisiva vorrà pur dire qualcosa. Non soltanto. Ci si rende conto che la politica di definire un successo in termini di obbiettivi statistici predeterminati, è catastrofica in ogni ambito. Per esempio, se dico che è possibile ottenere una buona valutazione di un articolo scientifico conseguendo un numero elevato di citazioni dell’articolo medesimo, è come se suggerissi in che modo costruire il risultato, anche in modo truffaldino. Non ci vuole molto buon senso per capire che quando si sostituisce a una valutazione qualitativa una valutazione quantitativa e si indica a priori quale sarà il parametro considerato e addirittura il valore da raggiungere per conseguire un “successo”, sarà grande la tentazione di porre in essere ogni mezzo pur di conseguire quel traguardo, indipendentemente dalla qualità dei risultati. Insomma, è un vero e proprio incitamento all’imbroglio. E non c’è bisogno di essere cittadini del paese degli spaghetti e dei mandolini: gli imbroglioni allignano ovunque. Accade così che le riviste scientifiche si stiano riempiendo di articoli di infima qualità, spesso semplicemente plagiati, che si citano a vicenda a raffica, o addirittura si autocitano, con risultati eccellenti dal punto di vista statistico. Nella comunità scientifica internazionale si levano sempre più voci a denunciare quello che viene definito «un attacco all’integrità scientifica».
Il meccanismo e gli esiti sono gli stessi in tutti i casi. La polizia arresta alla grande, le statistiche del crimine sono buone, ma la malavita impazza indisturbata. Gli studenti superano i test, ma non sanno nulla. Una rivista scientifica può avere un elevato “impact factor” e un articolo scientifico un elevato “citation index”, pur essendo entrambi di infima qualità. Insomma, i parametri godono mentre la qualità finisce sotto la suola delle scarpe.
Ma se il paese degli spaghetti e dei mandolini non ha l’esclusiva degli imbroglioni, di certo ha quella dei Santi Bailor, l’immortale “americano a Roma” di Alberto Sordi. I Santi Bailor dei giorni nostri non rinunciano a propinare l’ormai fradicia ricetta, con la solfa che «nei paesi anglosassoni si fa così». Anche qui viene in mente una riunione di esperti in cui, dopo aver udito per un paio d’ore dotte disquisizioni sul modello della scuola inglese, un partecipante chiese timidamente: «Ho capito, ma vorrei sapere cosa pensate della qualità della scuola inglese». La risposta fu un coro unanime: «Fa letteralmente schifo»… E la discussione riprese come se nulla fosse.
Infatti, l’importante è fare come Santi Bailor che andava avanti a base di “shana gana uana”, “uossa ganassa” e “polizia del Kansas City”. L’equivalente qui è riempirsi la bocca di “teaching to the test”, “coaching”, “tutoring”, “learning”, beninteso “on the job”, “best practices”, “repository”, “learning object”, e via di questo passo. Quantomeno, Santi Bailor, dopo essersi confezionato un piatto a base di pane, latte, yogurt, ketchup e mostarda ed averlo assaggiato, l’aveva messo sotto il tavolo a disposizione dei sorci.
(Il Giornale, 24 giugno 2010)