venerdì 25 giugno 2010

Pur di soddisfare i parametri che vada tutto in malora


 “The Wire” è una serie televisiva statunitense considerata da molti critici come la migliore di tutti i tempi. Essa racconta una serie di indagini di polizia nella città di Baltimora, e ne trae spunto per mettere a nudo i drammatici problemi di legalità, di ordine pubblico, di gestione politica, dell’istruzione e dell’informazione in una metropoli che vanta (si fa per dire) un numero di omicidi sette volte maggiore della media federale. Tra i tanti aspetti descritti dalla serie vi è un tema ricorrente: l’ossessione per le statistiche e per i numeri. Uno dei capi della polizia, il colonnello William Rawls, ha come massima preoccupazione di ottenere che la percentuale dei delitti irrisolti si mantenga sempre al disotto di una percentuale attorno al 40% dei delitti denunciati. I detective che non risolvono un numero minimo di casi all’anno entrano nel suo mirino. E fin qui niente da dire. Ma Rawls non sopporta che sobbarchino il dipartimento di polizia di nuovi casi mettendo a rischio la percentuale di “successo”. Meglio ignorare i nuovi cadaveri. Di qui la caduta in disgrazia del detective Jimmy McNulty che ha l’improntitudine di aprire un’inchiesta su un traffico di ragazze destinate alla prostituzione e morte per soffocamento in un container. Quando poi si scopre che una potente banda di narcotrafficanti ha ucciso un gran numero di rivali occultandone i cadaveri in edifici in disuso, la situazione si fa esplosiva e si cerca di soffocare la notizia. Alla fine il caso esplode e allora l’estrema trovata è di imputare il numero cadaveri alla statistica degli omicidi relativa alla gestione del sindaco precedente… Insomma, più che il successo nella lotta alla malavita, conta il successo nelle statistiche.
Fantasie narrative? Niente affatto. Qualche mese fa è scoppiato uno scandalo a New York perché un funzionario di polizia ha rivelato che le direttive dei capi erano che ogni poliziotto realizzasse ogni settimana almeno un arresto e 20 citazioni a comparire davanti al giudice, pena il trasferimento nelle zone peggiori della città. Insomma, in questo caso, si finiva con l’incentivare l’invenzione dei delitti. Il funzionario che ha rivelato il caso, ha menzionato l’episodio di sei amici che stavano passeggiando per strada: uno dei sei cade e si ferisce all’occhio. Chiamano il numero di emergenza e la polizia porta il ferito in ospedale arrestando gli altri cinque per rissa… Il giorno seguente vengono ovviamente liberati ma intanto le statistiche erano migliorate.
“The Wire” mostra anche come questa follìa abbia contagiato l’istruzione. Il poliziotto Roland “Prez” Pryzbylewski, dimesso dalla polizia per una serie di incidenti, si dedica a fare l’insegnante in una scuola a dir poco difficile, dove è un miracolo se gli studenti non si ammazzano tra di loro. Tuttavia, il professor “Prez” è talmente appassionato del suo nuovo mestiere che riesce pian piano a conquistarsi la fiducia e il rispetto della sua riottosa scolaresca. Si avvicina però la fine dell’anno e, con questa, le “valutazioni”. La direzione lo convoca e gli intima di andare al sodo: verrà valutata la scuola e sarai valutato tu e, se il risultato non è buono, perderai il posto; perciò ti conviene abbassare le pretese e addestrare gli studenti in funzione dei test che dovranno superare nelle prove di valutazione. È il famoso “teaching to the test”, l’insegnamento in funzione del test, in cui quel che conta non è che si conosca la materia, quanto di essere in grado di rispondere correttamente ai questionari contrassegnando le caselle giuste. “Prez” si ribella: «Sono venuto a scuola per insegnare», esplode. Ma c’è poco da fare, gli interessi della scuola vengono prima di tutto. Insegnare… Che ingenuità! Mi viene in mente quel membro di una commissione ministeriale che, durante una seduta, si levò in piedi per proclamare con voce stentorea: «La parola “insegnante” va cancellata dal vocabolario per sostituirla con quella di “facilitatore”»…
Tuttavia, se i paesi anglosassoni hanno la colpa di aver implementato quella colossale bestialità che è il “teaching to the test” – degno parente degli arresti effettuati in ossequio alle statistiche – va riconosciuto che dalle loro parti sta anche venendo un ripensamento. E se il ripensamento si riflette persino in una serie televisiva vorrà pur dire qualcosa. Non soltanto. Ci si rende conto che la politica di definire un successo in termini di obbiettivi statistici predeterminati, è catastrofica in ogni ambito. Per esempio, se dico che è possibile ottenere una buona valutazione di un articolo scientifico conseguendo un numero elevato di citazioni dell’articolo medesimo, è come se suggerissi in che modo costruire il risultato, anche in modo truffaldino. Non ci vuole molto buon senso per capire che quando si sostituisce a una valutazione qualitativa una valutazione quantitativa e si indica a priori quale sarà il parametro considerato e addirittura il valore da raggiungere per conseguire un “successo”, sarà grande la tentazione di porre in essere ogni mezzo pur di conseguire quel traguardo, indipendentemente dalla qualità dei risultati. Insomma, è un vero e proprio incitamento all’imbroglio. E non c’è bisogno di essere cittadini del paese degli spaghetti e dei mandolini: gli imbroglioni allignano ovunque. Accade così che le riviste scientifiche si stiano riempiendo di articoli di infima qualità, spesso semplicemente plagiati, che si citano a vicenda a raffica, o addirittura si autocitano, con risultati eccellenti dal punto di vista statistico. Nella comunità scientifica internazionale si levano sempre più voci a denunciare quello che viene definito «un attacco all’integrità scientifica».
Il meccanismo e gli esiti sono gli stessi in tutti i casi. La polizia arresta alla grande, le statistiche del crimine sono buone, ma la malavita impazza indisturbata. Gli studenti superano i test, ma non sanno nulla. Una rivista scientifica può avere un elevato “impact factor” e un articolo scientifico un elevato “citation index”, pur essendo entrambi di infima qualità. Insomma, i parametri godono mentre la qualità finisce sotto la suola delle scarpe.
Ma se il paese degli spaghetti e dei mandolini non ha l’esclusiva degli imbroglioni, di certo ha quella dei Santi Bailor, l’immortale “americano a Roma” di Alberto Sordi. I Santi Bailor dei giorni nostri non rinunciano a propinare l’ormai fradicia ricetta, con la solfa che «nei paesi anglosassoni si fa così». Anche qui viene in mente una riunione di esperti in cui, dopo aver udito per un paio d’ore dotte disquisizioni sul modello della scuola inglese, un partecipante chiese timidamente: «Ho capito, ma vorrei sapere cosa pensate della qualità della scuola inglese». La risposta fu un coro unanime: «Fa letteralmente schifo»… E la discussione riprese come se nulla fosse.
Infatti, l’importante è fare come Santi Bailor che andava avanti a base di “shana gana uana”, “uossa ganassa” e “polizia del Kansas City”. L’equivalente qui è riempirsi la bocca di “teaching to the test”, “coaching”, “tutoring”, “learning”, beninteso “on the job”, “best practices”, “repository”, “learning object”, e via di questo passo. Quantomeno, Santi Bailor, dopo essersi confezionato un piatto a base di pane, latte, yogurt, ketchup e mostarda ed averlo assaggiato, l’aveva messo sotto il tavolo a disposizione dei sorci.
(Il Giornale, 24 giugno 2010)

lunedì 21 giugno 2010

La subitanea morte della vita artificiale



È passato poco tempo e già il clamore sulla realizzazione della “vita artificiale” si è spento. Eppure i giornali avevano parlato a titoli di scatola di una svolta nella storia dell’umanità. Certo, dopo il primo botto mediatico si è capito che la realizzazione non era così epocale. Si era prelevato il materiale genetico di un batterio; quindi si erano selezionati nel micoplasma i geni necessari per le funzioni vitali, eliminando quelli “inutili”; si era aggiunto un cromosoma sintetico per poi introdurre il tutto in una cellula svuotata del suo Dna che così veniva controllata da un Dna parzialmente artificiale. Un tentativo senz’altro importante, ma essenzialmente manipolativo, una sorta di “meccano”, com’è stato efficacemente definito da uno scienziato pur favorevole a questo tipo di esperimenti. È un po’ avventato parlare di vita in relazione a un meccano sul Dna. Tornare indietro con la memoria fa capire il perché.
Viviamo in un’epoca dalla memoria labile, visto che nessuno sembra ricordare che pochi anni fa esplose una bolla mediatica colossale attorno a un evento oggi quasi dimenticato: la clonazione di un essere vivente, la famosa pecora Dolly. Eppure, a pensarci bene, produrre un animale del tutto uguale a quello di partenza con una semplice manipolazione genetica era un exploit di gran lunga più clamoroso della limitata manipolazione di Venter.  In quest’ultimo caso si prospetta al più la possibilità di fabbricare batteri “operai” destinati a scopi ristretti, ma la via verso la fabbricazione di individui complessi, per non dire esseri umani, si staglia in un orizzonte indecifrabile. Nel caso di Dolly, si era ottenuto in modo rapido e semplice un nuovo essere vivente. Sembrava derivarne la prospettiva concreta di clonare esseri umani, di produrre un “esercito di cloni” sul modello della fantascienza di Guerre Stellari. Conservo ancora nei miei scaffali alcuni dei libri che uscirono all’epoca, per esempio uno che uscì in Francia nel 1999 (“Le clonage humain”) che mobilitava illustri specialisti per analizzare le prospettive morali e sociali che si aprivano. L’antropologo Marc Augé paventava il ritorno all’origine mitica dell’umanità, al “cuore delle tenebre” di Conrad, alla perdita della relazione di parentela su cui si era costruita la storia umana. Cosa è rimasto di questo dibattito? Nulla. Si è saputo poi che una clonazione di successo veniva al termine di un numero enorme di tentativi falliti. Dolly è morta invecchiando tristemente con misteriosa velocità. Sono caduti nell’oblìo i pochi scienziati pazzi che dissero di aver clonato in segreto esseri umani. In breve, della clonazione non si parla più.
Eppure qualcosa doveva essere rimasto a livello teorico. Nel libro sopra citato il biologo Henri Atlan spiegava come l’essere riusciti a clonare un essere vivente significava il crollo del paradigma trentennale della genetica molecolare «tutto è nei geni». Si era constatato che il programma di sviluppo non si riduce al genoma ma è fatto di interazioni tra i geni e altri fattori, proteici e di altro tipo, del nucleo e del citoplasma. Del resto, era un fallimento già decretato una decina di anni prima dal Nobel Gerald Edelman. Bene. L’esperimento di Venter è stato commentato da più d’uno, anche da noti scienziati, dicendo che ci si deve mettere bene in testa che il Dna dirige tutto l’organismo, inclusa la costituzione della sua identità, e che chi non l’accetta è un mistico.  Ma è morta la riflessione teorica in biologia? Di certo, rincorrere il sensazionalismo e gli slogan non aiuta il razionalismo scientifico , bensì proprio quello spirito mistico-magico che si dice di voler combattere.
(Tempi, 23 giugno 2010)

domenica 13 giugno 2010

Una lezione di giornalismo

Prima di continuare a discutere sulla vicenda della "flotilla", sarebbe bene guardare attentamente questo servizio della rete televisiva pubblica tedesca SWR.
Permette di capire quale oscena trappola sia stata architettata - una nave piena di islamisti e di neonazisti - in cui gli israeliani sono caduti ingenuamente, ma anche perché credevano ancora di potersi fidare delle relazioni con i loro omologhi (militari e servizi d'informazione) turchi e delle loro rassicurazioni.
Permette di capire che cosa sia un autentico giornalismo capace di condurre indagini con professionalità. 

http://www.youtube.com/watch?v=giVsCkY17ec

La Spagna di Zapatero razzista e antisemita


Mio padre era un ebreo di Salonicco, detta la Gerusalemme balcanica, perché due terzi della popolazione era ebraica: discendenti di ebrei provenienti dalla Spagna dopo la drammatica espulsione del 1492. Dopo secoli parlavano ancora lo spagnolo medioevale e le più di cinquanta sinagoghe della città portavano i nomi delle regioni o città di provenienza dell’antica Sefarad (la Spagna). All’avvento del potere greco, dopo la caduta dell’Impero ottomano, un incendio distrusse il quartiere ebraico e buona parte della popolazione emigrò. Quelli che restarono furono poi deportati e sterminati dai nazisti. Mio padre, ormai italiano, ripeteva di non avere alcun interesse a rivedere Salonicco, dove non c’era più traccia ebraica, mentre desiderava con tutto il cuore visitare la Spagna, la terra d’origine. Morì prima di poterlo fare. Quando lo feci io mi sembrava di andare in sua vece. Visitando le case medioevali di Toledo mi stupiva la similitudine architettonica con le case della famiglia a Salonicco, come erano riprodotte negli schizzi di mio padre o nelle foto d’epoca. Nelle sinagoghe rimaste vedevo le tracce di un grande evento storico brutalmente sradicato da un tragico atto di intolleranza.
Quando comunicai le mie impressioni ad amici spagnoli la delusione fu enorme. Pensavo che la testimonianza di una persona il cui padre parlava uno spagnolo antico e cui era stato trasmesso dopo quasi cinque secoli un intatto attaccamento a un paese e a una civiltà, avrebbe destato curiosità e interesse. Disinteresse assoluto. Incontravo piuttosto sguardi increduli: come se avessi detto a un romano che ero pronipote di Giulio Cesare.
Eppure la Spagna e l’Europa debbono tanto al lascito di una presenza ebraica che ha avuto un ruolo centrale nella trasmissione della cultura e della scienza greche. Al contrario, mentre il disinteresse per questo passato è totale, è assai diffuso l’interesse per le radici musulmane. Ma non ci si inganni: senza la minima sensibilità culturale e per mere ragioni politiche.
Da allora mi sono sempre più convinto che la Spagna sia un nobilissimo paese tristemente allo sbando, che ha spezzato l’una dopo l’altra le sue radici culturali, ormai persino incapace di comprenderle storicamente. Le ha spezzate in un processo storico che è culminato in una terribile guerra civile, contrassegnata da una spietata divisione ideologica e che è stato il laboratorio non soltanto dell’offensiva nazifascista, ma anche dello stalinismo, il quale ha ivi consumato (va riletto Furet in merito) uno dei suoi più feroci bagni di sangue di trotzkisti e anarchici, che per parte loro non erano stinchi di santo. È stata una guerra civile seppellita da quarant’anni di dittatura che ha prodotto un deserto culturale e morale da cui si è creduto di uscire azzerando le divisioni e consegnandole al passato. Di certo era l’unica via possibile, a condizione di fare dell’oblio delle divisioni un fatto politico e non un fatto storico e culturale. Perché senza coscienza storica non esistono i parametri per comprendere e affrontare le sfide del presente. Così la Spagna è passata con incosciente velocità dal cattolicesimo tradizionale all’abolizione della famiglia, all’aborto libero delle minorenni, fino a un grottesco politicamente corretto che riscrive a scuola la favola di Biancaneve in versione femminista. Questo è il modello culturale e socio-economico che, secondo il ridicolo provincialismo di certi intellettuali progressisti nostrani, doveva essere assunto come riferimento.


Uno dei cadaveri che ingombrano in modo sempre più asfissiante il presente della Spagna è l’antisemitismo. La Spagna è forse il paese più anti-israeliano d’Europa e non c’è giorno in cui il diritto di opporsi alle politiche dello stato d’Israele o anche di contestare l’“errore” di averlo fondato non venga riaffermato asserendo che esso non può e non deve essere confuso con l’antisemitismo. È una solfa che ben conosciamo: l’antisionismo non è antisemitismo. Ma anche se ciò fosse vero – contrariamente a quanto dice saggiamente il nostro Presidente della Repubblica – per avere il diritto di fare questa distinzione bisognerebbe essere cristallini. Invece la storia dell’ultimo decennio (a dir poco) ci consegna l’immagine di un antisionismo spagnolo smaccatamente antisemita e razzista. Ci vorrebbero pagine per fornire una documentazione. Ma non dimentichiamo gli articoli del Pais (2002) in cui si definiva Sharon «assassino selettivo che non si sa perché lasci in vita Arafat»: «non per la sua religione: quello che noi chiamiamo Antico Testamento è implacabile». Non è antisemitismo questo? E come definire la vignetta del Mundo (2006) che riproponeva la solita tematica antigiudaica, rappresentando un soldato israeliano con un dente e un occhio in meno che portava sulle spalle due sacchi stracolmi di occhi e di denti? Potremmo continuare con le foto di manifestazioni in cui pullulano cartelli con la scritta «Judíos asesinos». Ma è assai più significativo il fatto che giornali di primissimo piano inquinino da anni le menti con editoriali e vignette intrisi di osceno antisemitismo.

Ora a seguito della vicenda al largo di Gaza, una feroce ondata di intolleranza si è diffusa in Spagna. Antisionismo? Chiamereste così la decisione di interdire alla delegazione israeliana di partecipare alla Marcia Gay che si svolgerà a Madrid dal 1° al 5 Luglio? Non è piuttosto smaccato razzismo? E che dire di quel che è successo alla Università Autonoma di Madrid, dove due conferenzieri israeliani hanno rischiato il linciaggio, non fischi e contestazioni ma il linciaggio fisico? Un editorialista del quotidiano ABC – un giornale che rappresenta una delle poche voci razionali del paese – si è chiesto: «perché un centinaio di pacifisti tentò di linciare il professor Eytan Levy, se non è militare né membro del governo né noto sionista? Per settarismo e per ignoranza». Ebbene, persino un editorialista che, con le migliori intenzioni condanna la «divisione feroce e irrazionale» dell’opinione pubblica, da mostra di una simile confusione morale. Come se, nel caso in cui il professore fosse stato militare, membro del governo o semplicemente sionista il linciaggio sarebbe stato comprensibile…
In un editoriale comparso il 9 giugno sul quotidiano catalano Vanguardia il professor Francesc de Carreras dell’Università di Barcellona reitera il tentativo di contestare che attaccare Israele e «mettere in dubbio l’opportunità dell’ONU di creare lo Stato di Israele» sia antisemitismo. Lo fa confezionando una storia dell’antisemitismo in pillole che dovrebbe fare vergogna a un ordinario di diritto costituzionale: a suo dire, gli ebrei furono perseguitati nell’antichità perché erano un gruppo «strano» (“raro”)… Inutile dire che tra le persecuzioni sofferte dagli ebrei neppure cita l’espulsione del 1492 che pure dovrebbe rappresentare per uno spagnolo qualcosa di analogo a quel che è Auschwitz per i tedeschi.
Tanto di cappello ai pochissimi, come Hermann Tertsch e Gabriel Albiac che su ABC resistono a questa folle tempesta e chiedono perché il rettore dell’Università Autonoma di Madrid non si sia dimesso. Ma parlare così costa loro l’epiteto di nazisti. E allora vorrei chiudere con una domanda personale, ammesso che vi sia qualcuno interessato a rispondere: è ancora possibile per una persona col mio cognome e che non si sogna di fare professioni di antisionismo recarsi in Spagna assieme ai propri figli, che hanno la doppia nazionalità italiana e spagnola, senza rischiare di essere linciato?

Giorgio Israel                                             (Il Giornale, 12 giugno 2010)

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A ulteriore documentazione riporto questa lettera inviata a El País relativamente alla seguente vignetta:


Subject: Un problema global!

Estimada defensora:
                                     Le pido que intervenga en defensa de muchos lectores de este diario. La cosa está así: Mientras entregar el humor de los españoles a las viñetas (30/6/09) de un antisemita en la Edición Nacional es una problema interno de "El PAIS", ya que no hay judíos en España porque fueron expulsados en el año 1492, la cuestión cambia con la Edición Global. Así como yo leo vuestro diario desde Italia, me pregunto: Cuántos sefardíes desperdigados per el mundo lo estarán leyendo en Jerusalén, París, Buenos Aires, Ciudad de México, Tel Aviv, Nueva York y quién sabe dónde?  Sabe usted que a pesar de que hayan pasado más de 500 años muchos de ellos han conservado el dominio del castellano transmitido, algo deformado quizás, de generación en generación?  Escuchó usted alguna vez las canciones sefardíes? 

Bien, pienso que como yo, mucha de esta gente va a tener que renunciar a vuestra Edición Global. Y no se trata de veleidades del "politically correct" ni de particular susceptibilidad. Es que para mi gente es profundamente doloroso ver reaparecer la jeta de este inmundo monstruo que, según varias encuestas, muchos españoles llevan adentro. Vea usted, en ausencia de judíos en el país, esta tradición les fue y sigue siendo transmitida de generación en generación, exactamente como sucedió con  las canciones sefardíes, por una cultura de la infamia de la cual vuestro humorista es un digno representante. Revolviendo entre "las páginas" de su diario me encontré con una breve nota de protesta del Señor Embajador de Israel por las mismas razones. Esto me lleva a una última consideración: si no logra usted defendernos expulsando a vuestro delirante humorista de la Edición Global y mandándolo en exilio a la Edición Nacional, al menos trate de hacer entender al editor responsable de su diario que cuando Theodor Herzl ha comenzado a pensar en una patria para el pueblo judío, allá  por el 1890, no fue con la intención de "violar todas las leyes humanas e internacionales" (cito el  vuestro!) y ni siquiera para cumplir con alguna ley divina. Fue para defender a su pueblo de dos mil años de persecuciones, del pogrom y de la infamia. Así como también de las miles humillaciones cotidianas que cualquier hijo de buena madre, come ese vuestro colaborador, podía tranquilamente permitirse con un judío, bajo la mirada complacida y sonriente del potente de turno.

                               Sin más, la saludo cordialmente,
                                                                                              Jacobo Pejsachowicz

Inutile dire che questa lettera è stata totalmente ignorata


lunedì 7 giugno 2010

BESTIARIO MATEMATICO n. 7

Ogni tanto qualche passeggiata in rete la faccio per rendermi conto di quel che circola. Ed ho trovato estremamente interessante leggere alcuni commenti sulle recenti Indicazioni Nazionali per i Licei. Naturalmente la maggior parte dei commenti sono dedicati alle materie non scientifiche. Però ho trovato significative alcune accanite discussioni attorno alla matematica e, in particolare, attorno alla menzione, nelle IN, del “principio di induzione matematica”, che vi figura al seguente modo:

[obbiettivi dello studio] : 
una conoscenza del principio di induzione matematica e la capacità di saperlo applicare, avendo inoltre un’idea chiara del significato filosofico di questo principio (“invarianza delle leggi del pensiero”), della sua diversità con l’induzione fisica (“invarianza delle leggi dei fenomeni”) e di come esso costituisca un esempio elementare del carattere non strettamente deduttivo del ragionamento matematico.

Chi si chiede perché mai tanta attenzione per un principio tanto “banale” e secondario e soprattutto che senso abbia questo discorso sull’induzione matematica, la sua diversità con l’induzione fisica, perché non si tratti di un ragionamento di carattere strettamente deduttivo. E fin qui, niente di male. Se non fosse che – come accade spesso in rete – invece di provare a pensare e riflettere si sentenzia a rotta di collo, partono giudizi sommari, e persino insulti. Roba da cretini, ignoranti, analfabeti. Non è evidente che si tratta di pura deduzione? Questa indicazione deve averla scritta un filosofastro, forse persino Benedetto Croce. Di certo, è scandaloso che i matematici della commissione (il sottoscritto e Bolondi) l’abbiano lasciata passare. Oppure sarà un parto del solito pedagogista ignorante.
Beh, per stavolta i poveri pedagogisti non c’entrano. E neppure i filosofi.
E chi si è espresso in tal modo sul principio di induzione, inteso come il modo più elementare (se non si vuol ricorrere al teorema di Gödel) di far vedere che la matematica non è una scienza puramente deduttiva, che la manipolazione dell’infinito impone delle assunzioni extra-matematiche che nessuna riduzione assiomatica serve a esorcizzare? Un filosofastro? Don Benedetto?
Macché… Uno dei più grandi matematici della storia: Henri Poincaré
Citiamo (La science et l’hypothèse):

«Il giudizio su cui poggia il ragionamento per ricorrenza può essere messo in varie forme; si può dire per esempio che in una collezione infinita di numeri interi diversi, ve ne è sempre uno più piccolo di tutti gli altri. Si potrà passare facilmente da un enunciato all’altro e darsi l’illusione di aver dimostrato la legittimità del ragionamento per ricorrenza. Ma ci si fermerà sempre, si perverrà sempre a un assioma indimostrabile che non sarà in fondo altro che la proposizione da dimostrare tradotta in un altro linguaggio.
Non ci si può dunque sottrarre alla conclusione che la regola del ragionamento per ricorrenza è irriducibile al principio di contraddizione.
Questa regola non può neppure venirci dall’esperienza; quel che l’esperienza potrebbe insegnarci è che la regola è vera per i primi dieci, centro numeri, non può raggiungere la serie infinita dei numeri, ma soltanto una porzione più o meno lunga ma sempre limitata di questa serie.
Se si trattasse soltanto di questo, il principio di contraddizione basterebbe, ci permetterebbe sempre di sviluppare quanti sillogismi vogliamo, è soltanto quando si tratta di racchiuderne un’infinità in una sola formula, è soltanto di fronte all’infinito che questo principio fallisce, ed è anche qui che l’esperienza diventa impotente. Questa regola, inaccessibile alla dimostrazione analitica e all’esperienza è il vero tipo di giudizio sintetico a priori. Non si potrebbe neppure considerarlo come una convenzione, come per certi postulati della geometria.
Perché dunque questo giudizio si impone a noi con irresistibile evidenza? È perché non è altro che l’affermazione della potenza del pensiero che si sa capace della ripetizione indefinita dello stesso atto appena questo atto è possibile una volta. Il pensiero ha un’intuizione diretta di questa potenza e l’esperienza non può essere per lui altro che un’occasione di servirsene e di qui prenderne coscienza.
Ma, si dirà, se l’esperienza bruta non può legittimare il ragionamento per ricorrenza, la stessa cosa accade per l’esperienza aiutata dall’intuizione? Vediamo successivamente che un teorema è vero per 1, per 2, per 3 e così via, la legge è evidente, diciamo, e lo è allo stesso titolo di ogni legge fisica che poggia su osservazioni il cui numero è molto grande ma limitato.
Non si può disconoscere che vi è qui un’analogia evidente con i procedimenti abituali dell’induzione. Ma esiste una differenza essenziale. L’induzione applicata alle scienze fisiche è sempre incerta, perché riposa sulla credenza in un ordine generale dell’universo, ordine che è fuori di noi. L’induzione matematica, cioè la dimostrazione per ricorrenza, s’impone al contrario necessariamente perché non è altro che l’affermazione di una proprietà del pensiero stesso.»

Magnifico brano su cui riflettere, invece di sbraitare.
E soprattutto meglio non sbraitare che le IN non tentano di stabilire un rapporto tra scienze esatte e scienze umane. Non è questo un modo fondamentale e semplice di connettere la matematica a una tematica filosofica?
Le IN sulla matematica indicano tanti nessi con la storia, la filosofia, la tecnologia:

“ [acquisire] il senso e la portata dei tre principali momenti che caratterizzano la formazione del pensiero matematico: la matematica nella civiltà greca, il calcolo infinitesimale che nasce con la rivoluzione scientifica del Seicento e che porta alla matematizzazione del mondo fisico, la svolta che prende le mosse dal razionalismo illuministico e che conduce alla formazione della matematica moderna e a un nuovo processo di matematizzazione che investe nuovi campi (tecnologia, scienze sociali, economiche, biologiche) e che ha cambiato il volto della conoscenza scientifica.

E poi:

« il concetto di modello matematico e un’idea chiara della differenza tra la visione della matematizzazione caratteristica della fisica classica (corrispondenza univoca tra matematica e natura) e quello della modellistica (possibilità di rappresentare la stessa classe di fenomeni mediante differenti approcci)».

Questa difficoltà nel cogliere questi aspetti, così come una diffusa incapacità di comprendere la tematica che sta dietro il principio d’induzione e che è connessa, più in generale, alla problematicità della manipolazione dell’infinito, non è la prova che siamo di fronte a un analfabetismo culturale della matematica da colmare al più presto; con l’apporto riflessivo e attento di tutti?

venerdì 4 giugno 2010

Il nuovo Regolamento per la formazione degli insegnanti ha le carte giuste per mandare in soffitta i gattopardi

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Questo video è stato visto da centinaia di migliaia di persone, si trova in centinaia di siti, e praticamente in tutti i siti dei giornali italiani. Che il governo israeliano abbia precisato che esso non esprime la sua linea ufficiale è persino banale: ci manca solo che una parodia esprima la politica estera di un governo.
Chi si ostina a inviare messaggi di insulti e di minacce sarà denunciato senza esitazione alcuna.

La visione di questo video può essere istruttiva per capire cosa si sta preparando in Europa:
http://www.youtube.com/watch?v=2n1kv3sYLak&feature=player_embedded#!

E inoltre: http://ilblogdibarbara.ilcannocchiale.it/2010/06/06/nel_frattempo_a_bolzano.html