Per più di due secoli colui che è considerato come il più grande scienziato di tutti i tempi – “Qui genus humanum ingenio superavit”, come sta scritto alla base della sua statua nella cappella del Trinity College di Cambridge – è stato presentato come l’emblema del razionalismo, il simbolo vivente dell’ideale della scienza: ascoltare soltanto la fredda voce della ragione, attenersi ai fatti, all’empiria, agli esperimenti. Newton è stato, ed è, eretto come un baluardo in difesa dalle insidie dell’irrazionalismo. Eppure, quell’immagine è una costruzione falsa, com’è stato dimostrato ripetutamente, da ultimo nella recente biografia romanzata di Jean-Pierre Luminet, “La parrucca di Newton” (Edizioni La Lepre, 2011) dal significativo sottotitolo “Scienziato, alchimista o psicopatico?”.
L’occultamento plurisecolare iniziò alla morte di Newton, nel 1727, e fu l’inizio di un giallo che dura ancor oggi. Newton, poco prima di morire, aveva bruciato gran parte dei suoi manoscritti, ma non aveva toccato un baule strapieno di carte che aveva portato con sé da Cambridge quando, ormai celebre per le straordinarie scoperte sulla gravitazione universale e sull’ottica, si era trasferito a Londra per assumere incarichi pubblici, tra cui la direzione della zecca londinese. La famiglia offrì tutte le carte alla Royal Society, di cui Newton era stato presidente. Ma la celebre accademia delle scienze britannica restituì alla famiglia i manoscritti non scientifici con la raccomandazione di non farli vedere a nessuno. Il baule fu aperto dal curatore dell’Opera omnia di Newton, il vescovo Samuel Horsley che, inorridito, richiuse con violenza il coperchio. Da quel momento del baule non si seppe più nulla. Passò da una mano all’altra dei discendenti della nipote di Newton, Catherine Barton. Essi riuscirono a far accettare i manoscritti matematici dalla biblioteca universitaria di Cambridge. Il resto emerse di colpo nel 1936: l’ultimo discendente, Lord Lymington, lo mise all’asta presso Sotheby di Londra. Il grande economista John Maynard Keynes riuscì a comprarne quasi la metà, mentre il resto fu acquisito da privati e seguì percorsi oscuri. A quanto pare, alcune parti furono offerte senza successo alle università di Cambridge, Harvard, Yale e Princeton e al British Museum. Uno degli acquirenti, il linguista e collezionista Abraham Yahuda, donò tutte le carte in suo possesso allo Stato di Israele nel 1939, ma soltanto nel 1951 esse furono collocate nella University Library di Gerusalemme. Del resto non si sa niente, e comunque gran parte è ancora non pubblicata.
Cosa c’era di tanto scandaloso in quel baule da provocare un giallo che dura ancor oggi? Cominciamo col fornire una stima (ovviamente approssimativa) della ripartizione in parole degli argomenti dei manoscritti di Newton: quasi un milione e mezzo di parole di teologia e cronologia sacra, più di mezzo milione di alchimia, 150.000 di questioni monetarie, un milione di temi propriamente scientifici e mezzo milione di questioni diverse. Ed ecco un primo elemento di “scandalo”: la parte dedicata alla teologia e all’alchimia è il doppio di quella dedicata alla matematica e alla fisica. Né si trattava di testi scritti in tarda età, dovuti a un degrado mentale senile, come si tentò di insinuare. Era il frutto di riflessioni giovanili o mature, appartenenti al periodo più fertile di Newton sul piano scientifico. Ma v’è ben altro e il primo a svelarlo fu Keynes, anche se dopo la sua morte. Difatti, la Royal Society aveva programmato per il 1942 le celebrazioni per il tricentenario della nascita di Newton, prevedendo una conferenza di Keynes. Tutto fu sospeso per la guerra. Le celebrazioni furono rinviate al luglio 1946, ma in aprile Keynes morì. Il testo della sua conferenza fu letto dal fratello Geoffrey.
Keynes smantellava senza pietà l’immagine convenzionale del grande scienziato. Secondo la visione dell’uomo ricavata dalla lettura dei manoscritti acquistati, Newton «non era stato il primo dei razionalisti», bensì «l’ultimo dei maghi, l’ultimo dei Babilonesi e dei Sumeri, l’ultima delle grandi menti che abbia portato sul mondo visibile e intellettuale lo sguardo di coloro che, quasi duemila anni fa, inaugurarono la costruzione della nostra eredità intellettuale». Newton empirista, secondo un cliché positivista? Certo, osservava Keynes, «nulla è più commovente del racconto delle invenzioni meccaniche di Newton bambino». Egli diede mostra di capacità tecniche eccezionali, ma non fu questo «il dono particolare che lo distinse». Questo dono era «la capacità di mantenere la mente fissa su un problema puramente intellettuale, fino a svelarne il mistero», era una capacità di concentrazione mentale che poteva durare settimane e anche mesi ed era soprattutto rivolta a questioni di scienza pura, di filosofia e di teologia. Perché Newton era un mago? Perché guardava all’universo come «un enigma, un mistero che poteva essere decifrato applicando il pensiero puro a certi indici mistici disposti da Dio nel mondo», come un «crittogramma disposto dall’Onnipotente». Per risolvere il crittogramma occorreva ricercare quegli indici, col pensiero puro e con la concentrazione intellettuale, nel mondo fisico, nel cielo, nella costituzione degli elementi materiali, ma anche nella teologia, nei documenti e nelle tradizioni tramesse attraverso una catena ininterrotta risalente fino al mitico Ermete Trismegisto e ai segreti della Bibbia. Perciò, nel pensiero di Newton tutto si teneva: matematica, fisica, alchimia, teologia. La ricerca dei segreti della gravitazione universale si accompagnava al tentativo di scoprire i segreti dell’universo attraverso il calcolo delle proporzioni del Tempio di Salomone, lo studio del Libro di David e della storia della Chiesa. Gli esperimenti alchimistici, che gli fecero perdere i capelli e gli provocarono crisi nervose per un’intossicazione da mercurio, erano volti a scoprire i segreti della materia. L’amputazione di questa parte del suo pensiero e delle sue attività è stata una contraffazione clamorosa. È stata inventata una figura mai esistita.
V’è un altro aspetto che riguarda direttamente la visione teologica di Newton e che costituisce la spiegazione più plausibile dell’orrore con cui il vescovo Horsley chiuse il baule. Newton nascondeva un tremendo segreto: egli anti-trinitario. Il baule era pieno di libelli in cui, sulla base dell’interpretazione dei testi della tradizione, si confutava la dottrina della Trinità come una falsificazione tardiva compiuta dalla Chiesa e, in particolare, da Sant’Anastasio. Per Newton, Dio era assolutamente unico e indivisibile. Ma dichiararsi anti-trinitario nell’Inghilterra dell’epoca era molto pericoloso: sarebbe costato la cattedra universitaria, e Newton non era un cuor di leone. Al contrario – come descrive il romanzo di Luminet – egli era un nevrotico introverso, tendente alla malinconia, all’agitazione nervosa, diffidente nei confronti di chiunque. Non ebbe mai un rapporto con una donna e, a quanto pare, morì vergine. Non tollerava la sola idea che i suoi scritti scientifici fossero giudicati e criticati: con le odierne procedure di valutazione non avrebbe fatto un passo nella carriera scientifica… Pur di non sottostare al giudizio altrui rinviava la pubblicazione delle sue scoperte. Pubblicò in gran ritardo le sue teorie sul calcolo infinitesimale e questo gli costò l’ingiusta accusa di essere secondo a Leibniz in materia. Nacque una contesa di priorità interminabile, che coinvolse le due scuole e continuò dopo la morte dei protagonisti, degenerando nella rissa più volgare e in una contrapposizione tra continente e isola. Nel 1715, Leibniz lanciò agli inglesi una sfida su un problema matematico su cui si avanzava a fatica da vent’anni. Newton, infuriato, tornò a casa dopo una giornata di lavoro alla zecca, si mise al lavoro e diede prova del suo genio intatto malgrado l’età, risolvendo il problema in poche ore. Ma erano vicende che potevano solo peggiorare le sue tendenze ipocondriache e schive.
Per caratterizzare il pensiero teologico di Newton, Keynes fece ricorso a questa formula: «un monoteista giudaico della scuola di Maimonide». È una definizione che non convince, per il riferimento a Maimonide che, nella tradizione della filosofia medioevale, rappresenta un punto di vista radicalmente razionalista e duramente ostile alle correnti mistiche ed esoteriche dell’ebraismo. Del resto, la nascita del pensiero kabbalistico fu contrassegnata da violenti attacchi a Maimonide che giunsero fino a bruciarne i libri nelle piazze. L’origine delle tesi teologiche e filosofico-scientifiche di Newton è legata proprio all’influsso del misticismo kabbalistico. Questo è stato dimostrato in modo puntuale dallo studioso americano Brian Copenhaver che ha mostrato come il pensiero kabbalistico giunga fino a Newton attraverso una catena che da Pico della Mirandola e Johannes Reuchlin passa per due personaggi che influenzarono moltissimo Newton e gli suggerirono la sua concezione dello spazio: il filosofo Henry More e il matematico Joseph Raphson.
Le correnti del misticismo religioso avevano contribuito in modo decisivo alla rottura compiuta dal pensiero rinascimentale nei confronti della lunghissima tradizione ispirata al pensiero di Aristotele, la quale indentificava lo spazio con l’insieme dei corpi materiali, rigettando l’idea del vuoto e del nulla. La tradizione aristotelica era talmente influente che continuò ad essere accettata anche da protagonisti della rivoluzione scientifica come Cartesio e Leibniz. Newton fu il primo a sostenere, invece, che lo spazio è un contenitore infinito e vuoto in cui “galleggia” la materia. Ecco come descrisse questa idea il newtoniano John Keill: «Noi concepiamo lo Spazio come ciò in cui tutti i corpi sono posti, che è completamente penetrabile, che riceve in sé tutti i corpi e non rifiuta l’ingresso a nulla; che è immobilmente fisso, incapace di alcuna azione, forma o qualità; le cui parti è impossibile separare l’una dall’altra, mediante qualsiasi forza per quanto grande; [che] restando immobile, riceve le successioni delle cose in moto, determina le velocità dei loro moti e misura le distanze delle cose stesse.
Si tratta di una concezione che non ha alcuna giustificazione empirica e anzi pone problemi molto seri proprio sul piano della “razionalità” scientifica. Essa ha un’origine teologica e filosofica come spiegò Newton stesso: «Nessun ente esiste o può esistere, se non si riferisca in qualche modo allo spazio: Dio è ovunque, le menti create sono in qualche luogo, e il corpo è nello spazio che riempie: ciò che non è ovunque, né in alcun luogo, non è. Onde lo spazio è effetto emanativo dell’Ente primo, poiché posto un qualsiasi ente, si pone lo spazio. La durata si può definire in modo analogo: entrambi infatti sono affezioni o attributi dell’Ente in base a cui si definisce la quantità di esistenza di ciascun individuo quanto all’ampiezza della sua presenza e della sua perseveranza nell’essere. Così la quantità di esistenza di Dio è eterna quanto alla durata, infinita quanto allo spazio in cui è presente: e la quantità di esistenza di una cosa creata coincide, quanto alla durata, con la sua durata da quando cominciò a esistere, e quanto all’ampiezza della sua presenza, con lo spazio in cui è presente».
Lo spazio è il “sensorium Dei”, per dirla con le parole di Newton. E non si tratta di una definizione contenuta nei manoscritti del baule bensì nel celebre trattato sull’“Ottica”: «Dio, Essere incorporeo, vivente, intelligente, onnipresente, il quale nello spazio infinito, come Suo sensorio, vede intimamente le cose stesse, e le percepisce completamente, e le capisce interamente in virtù della loro presenza immediata a Lui stesso…». Come ha mostrato Copenhaver, questa concezione deriva dalla filosofia di More e le sue radici kabbalistiche sono confermate dall’uso che Newton fece alla parola ebraica “maqom” (luogo, posto, collocazione) da lui indicata come la più adatta a descrivere l’idea, che risale a una lunga tradizione ebraica ripresa dai kabbalisti, secondo cui Dio onnipresente è il luogo (maqom) del mondo.
Quindi, per Newton, lo spazio o “sensorio” divino non è l’insieme dei corpi materiali, ma un contenitore vuoto e infinito entro cui si colloca e vive la materia finita. La concezione tipica del meccanicismo, secondo cui lo spazio infinito s’identifica con la materia infinita è inaccettabile per Newton. Essa conduce inevitabilmente all’ateismo. Non vi è più spazio per Dio e per la sua attività creativa in un mondo identificato con una materia infinita e quindi necessaria. Le violentissime polemiche che opposero i seguaci di Newton (come Samuel Clarke) ai cartesiani e ai leibniziani si concentravano sul tema della presenza divina nel mondo. Per i primi, Dio, dopo aver creato la macchina del mondo, come un grande e perfetto orologio, se n’era ritirato, lasciandola al suo funzionamento automatico. Per Newton e per i newtoniani, Dio è sempre presente e opera instancabilmente per correggere le perturbazioni del sistema del mondo, tutt’altro che perfetto, e che, in assenza di interventi correttivi, collasserebbe. Al “Dio fannullone” dei meccanicisti, Newton contrapponeva il “Divino Operaio”.
Tuttavia, il meccanicismo aveva un indiscutibile punto di forza. Esso forniva una spiegazione chiara del moto dei corpi: essi sono tutti provocati dall’azione diretta di altri corpi. Nella meccanica aristotelica e tolemaica, come in quella cartesiana, i moti dei corpi terrestri sono provocati da azioni di contatto; mentre i corpi celesti sono trasportati da sfere di materiale incorruttibile (la “quintessenza”), per le prime, e per Cartesio si muovono trasportati da vortici. La causa del moto è assolutamente trasparente: nessun corpo si muove se non per l’azione diretta di un altro corpo, per trasporto o per contatto. Non v’è posto per influssi occulti e misteriosi. Invece, la meccanica di Newton spiegava il moto dei corpi celesti mediante una forza, l’interazione gravitazionale, che agisce nel vuoto… Come diamine può esercitarsi l’azione di un corpo su un altro nel vuoto? Newton era riuscito a descrivere il moto del sistema dei corpi celesti e terrestri con una precisione e un’efficacia mai raggiunta, ma aveva introdotto un’azione nel vuoto che non appariva coerente con una spiegazione razionale. Non a caso, malgrado i suoi successi, la meccanica newtoniana non fu insegnata in gran parte d’Europa per tutto il Settecento: le fu preferita la meccanica cartesiana, malgrado fosse sballata da cima a fondo. E questo perché la meccanica newtoniana era accusata di reintrodurre le proprietà occulte, misteriose, magiche.
Newton questo lo sapeva bene. Per la sua mente implacabilmente volta alla spiegazione di ogni enigma l’obiezione era insopportabile e la difficoltà di scioglierla fu forse il più grande dramma della sua vita.
L’interpretazione positivistica di Newton si è sempre appigliata al suo celebre motto, “Hypotheses non fingo”, tradotto con “Non faccio ipotesi”, ovvero mi attengo scrupolosamente ai fatti. Ed è vero che Newton definisce “ipotesi” tutto ciò che non si ricava dai fatti. Ma egli aggiunge che le ipotesi possono essere “metafisiche o fisiche, di qualità occulte o meccaniche”. Del resto, lo sappiamo, per Newton i fatti non sono soltanto materiali. Sono fatti anche le rigorose deduzioni mentali e le verità trasmesse dalle Sacre Scritture. Come ha magistralmente spiegato lo storico della scienza Alexandre Koyré siamo davanti al tipico caso di “traduttore traditore”. Il motto di Newton va piuttosto tradotto: “Non fingo ipotesi”, non costruisco ipotesi senza fondamento, finzioni ad hoc pur di giustificare qualcosa in cui credo indipendentemente dai fatti. In effetti, Newton di ipotesi, in senso lato, ne ha fatte eccome: la più pesante di tutte è proprio l’esistenza di questa strana forza, la gravità, che non è un’entità fisica tangibile e che, agendo misteriosamente nel vuoto, tiene in piedi l’intera architettura dell’universo. Ma per Newton l’attrazione gravitazionale non è un’ipotesi ad hoc, bensì un’evidenza, qualcosa che s’impone in modo naturale alla ragione e che concorda con i fatti noti. Eppure egli sa che una difficoltà esiste… Difatti, l’enunciato del celebre motto viene al termine del suo più grande trattato, i “Philosophiae Naturalis Principia Mathematica”, in questi termini: «Finora abbiamo spiegato i fenomeni del cielo e del nostro mare per mezzo della forza di gravità, ma non abbiamo ancora specificato la causa di questa forza […] finora non sono ancora riuscito a scoprire, a partire dai fenomeni, la causa di quelle proprietà della gravità, e io “hypotheses non fingo”…». Il rovello è evidente, come risulta chiaramente dal modo in cui egli ammette la difficoltà, con spietata onestà intellettuale, in una lettera al teologo Richard Bentley:
«È inconcepibile che materia bruta inanimata, senza la mediazione di qualcos’altro che non sia materiale, operi e produca effetti su altra materia, senza che vi sia reciproco contatto […] Questa è la ragione per cui desideravo che non mi attribuiste l’idea di una gravità innata. Che la gravità debba essere innata, inerente ed essenziale alla materia, così che un corpo possa agire su un altro a distanza attraverso un vacuum, senza la mediazione di nessun’altra cosa, dalla quale e attraverso la quale le loro azioni e la loro forza possano essere comunicate dall’uno all’altro, è per me un’assurdità così grande che credo che una simile idea non possa venire a nessun uomo che abbia in campo filosofico una sufficiente facoltà di pensare. La gravità deve essere prodotta da un agente che agisca costantemente secondo certe leggi; ma se questo agente sia materiale o immateriale, lo lascio giudicare ai miei lettori».
Di certo, Newton non poteva accontentarsi di lasciar giudicare ai suoi lettori una questione tanto cruciale, la questione delle questioni. Dalle sue parole si evince chiaramente quale fosse la via da seguire per dirimere la terribile questione: ricercare l’agente materiale o immateriale entro segreti non svelati della materia, oppure nell’azione divina. Alchimia e teologia. In un’altra lettera a Bentley, Newton dichiara la sua propensione: «mi sento costretto ad attribuire la struttura del Sistema a un agente intelligente». Ma era soltanto un’ipotesi.
In più di un ritratto Newton appare con un volto severo e tormentato, con gli occhi persi verso un oggetto lontano e inutilmente inseguito. Molti sono i segreti che Newton portò nella tomba, soprattutto quelli racchiusi nel baule. Forse il più grande di tutti fu il tormento di non essere riuscito, neppure con le capacità quasi soprannaturali della sua mente, a sciogliere fino in fondo il segreto dell’universo.
(Il Foglio, 5 novembe 2011)